19| Il Ritorno A Casa

𝕹𝖔𝖓 𝖊𝖗𝖆 𝖈𝖔𝖘ì 𝖔𝖘𝖈𝖚𝖗𝖔 𝖊 𝖕𝖆𝖚𝖗𝖔𝖘𝖔 𝖈𝖔𝖒𝖊 𝖙𝖚𝖙𝖙𝖎 𝖕𝖊𝖓𝖘𝖆𝖓𝖔. 𝕸𝖎 𝖘𝖔𝖓𝖔 𝖉𝖎𝖛𝖊𝖗𝖙𝖎𝖙𝖔 𝖒𝖔𝖑𝖙𝖔...𝖚𝖈𝖈𝖎𝖉𝖊𝖗𝖊 𝖖𝖚𝖆𝖑𝖈𝖚𝖓𝖔 è 𝖚𝖓'𝖊𝖘𝖕𝖊𝖗𝖎𝖊𝖓𝖟𝖆 𝖉𝖎𝖛𝖊𝖗𝖙𝖊𝖓𝖙𝖊.
-Albert DeSalvo

Iblīs sedeva sul suo trono con espressione annoiata mentre, davanti a lui, Nasser gli parlava.

Nonostante lo sforzo, il Re non riusciva ad afferrare le sue parole. Cosa gli stava raccontando con così tanto ardore?

Riusciva a vedere le sopracciglia del servo scontrarsi, gli occhi ridursi di spessore e le sue pupille dilatarsi.

Era certo di star annusando l'odore di sudore, di agitazione, che filtrava dalla pelle scura di Nasser.

Qualcosa non andava, ma cosa?

"Avresti dovuto ucciderlo," gli aveva sussurrato qualcuno all'orecchio, distraendolo ulteriormente. Non si era voltato, troppo conscio di quella voce per avere qualche dubbio sulla sua provenienza.

Sapeva di chi, o meglio di cosa, fosse.

Il fantasma di suo padre gli aveva stretto la spalla in un gesto che agli occhi di un estraneo sarebbe parso gentile. Iblīs, però, sapeva.

Era deluso di lui, forse lo era sempre stato.
Riusciva a vedere il suo cruccio disgustato senza guardarlo; lo aveva impresso a fuoco nella sua memoria.

Si era quindi chiesto se fosse davvero così ripugnante.

"Perché?" Aveva bisbigliato il Re, cogliendo di sorpresa Nasser. Non si stava rivolgendo a lui, ovviamente, in realtà non si stava rivolgendo a nessuno.

Ad occupare la stanza, oltre a loro, vi era solo l'aria.

E il suo odore, quello aveva impregnato ogni angolo della sala. Iblīs aveva inspirato a pieni polmoni, beandosi nell'illusione di star affondando il naso nei capelli scuri di Asteria.

Non ricordava dove fosse andata, solo di averglielo permesso.

Perché, però, le aveva permesso di andarsene? Non ricordava nemmeno quello.

"Ti impedisce di essere chi in realtà sei," aveva mormorato suo padre, rivolgendogli un ghigno sadico, "e tu sai chi sei, vero?"

Il Re aveva annuito mentre si leccava le labbra, interdetto.

Un mostro, Iblīs sarebbe sempre stato un mostro.

"Se non assomigliassi terribilmente a tua madre, direi che il tuo aspetto mi disgusta. Per tua fortuna, però, me la ricordi troppo."

Il viso del fantasma si era fatto serio, triste, mentre le labbra gli si piegavano in una smorfia di sofferenza.

Il sovrano era consapevole di quanto difficile fosse, per suo padre, guardarlo.

Era arduo anche per lui, per questo non possedeva specchi. La sua stessa immagine lo rivoltava, facendogli venire la nausea.

Odiava tutto di sé, nulla lo appagava o soddisfava e, se costretto ad osservarsi, vedeva solo gli occhi vitrei di sua madre.

Era stato lui ad ucciderla, lui a privarla della vita.

"Sei nato per uccidere, Iblīs." Suo padre si era chinato alla sua altezza, costringendolo a guardarlo.
Non c'era nulla negli occhi dell'uomo, nulla se non risentimento.

Perché, si era domandato il Re, perché non l'aveva mai amato? Lui, ne era certo, avrebbe fatto di tutto pur di renderlo fiero.

Se glielo avesse chiesto, avrebbe strisciato sul pavimento fino ai suoi piedi, implorando perdono.

"Avresti dovuto uccidermi." Aveva sussurrato Iblīs, incapace di distogliere lo sguardo.

Se fosse morto, suo padre sarebbe stato felice, suo fratello sarebbe divenuto Re e lui non avrebbe vissuto nella miseria totale.

Lo avevano derubato, gli affetti a cui Iblīs aveva tenuto così tanto lo aveva derubato della sua sanità, della prospettiva di una felicità futura.

Non c'era più nulla per lui, non gli aveva lasciato nemmeno gli avanzi.

Era solo una bestia affamata senza nulla di cui cibarsi.

Così sbranava le sue vittime, si nutriva dei loro corpi senza colmarsi mai. Avrebbe fatto lo stesso, con Asteria?

"No, non meriti la morte. Guarda," il fantasma aveva indicato Nasser e poi la stanza deserta, "tu meriti di star solo. Non sei nulla, non lo sei mai stato e mai lo sarai.

Puoi solo sognare ciò che sarebbe potuto essere e ciò che, però, non sarà mai. Sei nato sotto la stella sbagliata, figlio mio, ed io mi sono assicurato di ricordartelo per l'eternità."

Non aveva mai distolto lo sguardo dal figlio, sorridendogli con aria soddisfatta. Poi, come se avesse avuto un attacco isterico, si era piegato su se stesso, finendo con la schiena contro il pavimento.

Iblīs l'aveva osservato con occhi sgranati, increduli, mentre si graffiava le braccia. Rideva, il maledetto rideva mentre di portava le mani verso le labbra, afferrandosi i denti.

"Mia moglie, hanno preso mia moglie!" Aveva pianto il fantasma mentre un filo di saliva gli colava sul mento, "Non riesco a trovarla, tu- tu sai dove si trova?

Il Re aveva deglutito, disturbato dalla visione del padre che, in preda all'isteria, aveva iniziato a contorcersi.

Le sue braccia si erano slogate, piegandosi in maniera dolorosa alla vista e totalmente innaturale.

"Sire, vi sentite bene?" La mano di Nasser si era scontrata contro il suo braccio, cogliendolo di sorpresa.

Non gli piaceva esser toccato, ma in quel momento gliene fu riconoscente. Lo spettro del padre era svanito, finalmente, e la nebbia che offuscava la sua mente si era dissipata.

Si sentiva bene? No, Iblīs non pensava di essersi mai sentito bene in vita sua. Dopotutto la felicità era solo un'illusione, il preliminare della sofferenza.

A lui non importava, comunque sia, perché era il dolore stesso a farlo sentire vivo.

"Si, di cosa stavi parlando?"

Nasser aveva aggrottato le sopracciglia mentre faceva un passo indietro. Non era irritato, la lunga convivenza con il Re lo aveva aiutato ad alzare la sua soglia di sopportazione.

"Vostro fratello, sire, chiede di poter rimanere a palazzo qualche altro giorno. Sono stato informato dalle vostre guardie, inoltre, dell'arrivo di Asteria nella sua vecchia città.

Pensavo voleste saperlo."

Il sovrano si era passato una mano tra i capelli, pensieroso. Aveva dato l'ordine a due servi di seguire la ragazza e di informarlo su ogni suo spostamento.

Lui, dopotutto, era confinato in quella terra senza la possibilità di uscire.

"Come l'hanno accolta?" Dentro di sé sperava l'avessero scacciata, deridendola e isolandola.

In quel modo, si era detto lui, sarebbe tornata.

"A braccia aperte, sire. Pensavano fosse morta."

Nasser aveva osservato Iblīs ridacchiare, come se l'idea di ucciderla fosse divertente o sciocca. Non capiva cosa vi trovasse di così ilare; non aveva forse visto l'espressione di Asteria?

Come poteva biasimare i suoi concittadini dopo tutto ciò che le aveva fatto? E non provava pena verso la ragazza, quando la vedeva silenziosa e deprivata del sonno?

Nasser si era sentito montare il petto dalla rabbia mentre, costretto a mandare giù il groppo amaro, guardava con occhi distanti il sorriso del Re.

Del suo Re, del sovrano che lui stesso aveva scelto di servire. Perché, poi, l'aveva fatto? Forse per i soldi o magari per pura curiosità.

Asteria era caduta nella sua medesima trappola, attratta inizialmente dal denaro e successivamente dall'amore che privava per l'amica.

Iblīs aveva fatto quello che gli si addiceva meglio: se ne era approfittato.

"E perché mai dovrei uccidere l'unica fonte di-di..." si era fermato, lasciando la frase a metà con lo sguardo rivolto verso le vetrate.

A solleticargli il naso era stato l'odore dei capelli di lei, lasciandolo momentaneamente spaesato. Aveva fatto vagare lo sguardo per tutta la sala, pieno d'aspettativa.

Era tornata da lui?

Gli ci era voluto qualche secondo per capire che no, Asteria non era tornata a palazzo. Ma l'avrebbe fatto, tra tre giorni esatti lei avrebbe varcato quelle porte e sarebbe stata nuovamente sua.

"Cosa fareste se lei dovesse decidere di rimanere a casa sua?" Nasser era genuinamente curioso.

Si era posto la stessa domanda quando, vedendola partire, aveva notato un sorrisetto montarle sulle labbra.

Sapeva che sarebbe stata felice nella sua città, circondata dagli affetti di una vita. Non aveva motivo per tornare ma ne aveva molti per restare a casa sua, dai suoi amici.

Magari sarebbe andato a trovarla, di tanto in tanto, per raccontarle delle sue giornate.

A Nasser mancava la compagnia di Asteria, ma non l'avrebbe mai ammesso.

"Lei deve tornare e quel posto in cui si trova ora, quella città, non è più casa sua. Questa è casa sua, io sono la sua dimora."

Il tono di Iblīs era stato fermo, la sua constatazione seria e senza dubbi. Tre giorni, le aveva dato tre giorni e lui, da gentiluomo, avrebbe mantenuto la sua promessa.

Ma se avesse disubbidito, se avesse deciso di voltargli le spalle, cosa avrebbe fatto?

Aveva sorriso al pensiero.
Non l'avrebbe uccisa ma oh, si sarebbe assicurato di romperla e piegarla in ogni modo possibile.

"Ha aperto il mio regalo?"

Nasser aveva scosso la testa mentre abbassava lo sguardo, incapace di cessare i tremori che gli scuotevano il corpo.

Non riusciva ad immaginare la reazione di Asteria nell'aprirlo e, francamente, sperava non lo facesse affatto.

Iblīs aveva sorriso mentre giocava con gli anelli che portava alle dita, divertito e curioso al tempo.

Avrebbe voluto vedere la sua espressione nello scartarlo, il suo sguardo incupirsi e la sua voce tremare.

Tre giorni, mancavano solo tre giorni e poi sarebbe tornata.

Sarebbe tornata da lui.

**

Pazuzu era veloce, più di ogni cavallo che avesse mai cavalcato prima.

Asteria si era quindi dovuta tenere ben salda in groppa all'animale, pregando di non cadere.
Ogni qual volta in cui stava per perdere l'equilibrio il cavallo rallentava, dandole il tempo di sistemarsi meglio.

Era intelligente, forte e leale.
La ragazza non avrebbe potuto desiderare un compagno di viaggio migliore di lui.

Con Iblīs lasciato ormai alle spalle si sentiva finalmente libera, sollevata da un peso che non credeva di star portando.

Aveva usato la mano destra per accarezzarlo lungo la criniera, ringraziandolo silenziosamente.

Riusciva a vedere in lontananza le punte delle case, le silhouette sbiadite degli abitanti e gli odori appena percepibili delle spezie.

Era sicura si stesse tenendo il mercato; il pensiero l'aveva colmata di una familiare felicità.

"Più veloce," aveva borbottato all'orecchio del cavallo, piegandosi in avanti, "per favore." Aveva quindi aggiunto lei, sorridendo.

Pazuzu, quasi come se l'avesse compresa, aveva flesso le zampe per prendere velocità, costringendo Asteria a tenersi più saldamente.

Qualche minuto e sarebbe giunta, finalmente, a casa.

La tracolla che portava stretta al petto era andata a finire contro le sue costole, lasciandola momentaneamente senz'aria.

Con una mano l'aveva tenuta ferma, afferrando con decisione la scatola che Iblīs le aveva consegnato. Aveva paura che si aprisse o che il contenuto si rompesse.

Forse, però, ne sarebbe stata grata.

Conosceva a malapena il Re, ma era convinta che la sua mente non fosse in grado di ragionare normalmente. Il dono, quindi, non era sicuramente qualcosa di convenzionale.

"Non credo ai miei occhi..." aveva sentito borbottare Asteria, proprio dinnanzi a sé. Senza nemmeno rendersene conto, Pazuzu l'aveva trascinata in pochissimi secondi a qualche metro dalla città.

Aveva quindi dovuto dargli una pacca leggera sul collo, intimandogli di rallentare.

Il cavallo sembrava averla capita mentre rallentava moderatamente la sua corsa, permettendo a se stesso di abituarsi.

Non galoppava in quel modo da anni e ora il pensiero di fermarsi lo irritava. Voleva andare avanti, cavalcare ancora e ancora ma si era fermato.

Aveva battuto gli zoccoli a terra una e due volte, intimando alla folla di fargli spazio mentre nitriva in faccia ad un uomo.

Con la coda aveva colpito qualcuno, senza curarsene.
Si sarebbero dovuti spostare, non era di certo colpa sua.

"Sei- oh bambina mia, sei per caso un fantasma?" Aveva boccheggiato un anziano, ricevendo uno sbuffo divertito da parte di Pazuzu.

Asteria, invece, si era limitata a sorridere ai volti familiare dei suoi concittadini. Le espressioni calde, intenerite e dolci di tutte quelle persone le avevano scaldato il cuore.

Non c'era più spazio per la tristezza, in quel momento.

"No, sono io. Sono tornata," aveva allungato una mano verso una donna per farsi aiutare a scendere da cavallo, riservando un'ultima occhiata a Pazuzu.

Non gli aveva ordinato di star fermo perché fiduciosa che l'avrebbe fatto anche da solo. L'animale non era cattivo né violento, nonostante Asteria fosse convinta che rinchiuderlo in una stalla per chissà quanto tempo lo avesse inasprito.

La terra sotto ai piedi l'aveva fatta sentire serena, finalmente in un territorio familiare e amico. Riconosceva ogni crepa nel terreno, ogni sfumatura delle case ed ogni viso che le si avvicinava.

Come avrebbe potuto lasciare tutto questo, ancora?

"Fatemi passare, fatemi passere vi sto dicendo!"

Asteria non era riuscita ad impedire alle lacrime di scorrere quando, tra la folla, aveva riconosciuto la sua voce.

L'emozione l'aveva travolta in pieno, lasciandola stordita e immobile al suo posto. Era riuscita a muovere solo gli occhi, incredula, mentre la figura alta e snella di Azef le si avvicinava.

Non c'erano state altre parole, solo un lungo e doloroso abbraccio. Lei gli si era aggrappata alla maglia, piangendo, e lui le baciava i capelli mentre tirava su con il naso.

"Credevo fossi morta..." le aveva mormorato lui contro la fronte per poi strofinare la guancia contro la sua.

Ad Asteria aveva ricordato i momenti passati insieme, quando non erano altro che bambini. Era sempre stato lui a medicarla, a proteggerla dagli altri ragazzini e a preoccuparsi sinceramente per la sua salute.

Finalmente in grado di muoversi, gli aveva accarezzato la schiena, stringendolo un po' più forte.

"Sembra invece che io sia ancora viva."

Azef aveva ridacchiato, rilasciandola dall'abbraccio. Era sollevato di vederla, finalmente, nonostante fossero passati pochi giorni.

Aveva trascorso le ultime giornate a lavorare incessantemente, nel tentativo di scacciare dalla mente le immagini di Asteria.

Se la era immaginata in punto di morte, in una pozza di sangue, che annaspava alla ricerca disperata di aria. Con le mani avrebbe tentato di afferrare qualcuno, chiunque pur di esser salvata.

L'unica cosa che aveva potuto fare Azef, invece, era stata lasciarla andare e montare a cavallo assieme ad Alisha.

L'aveva abbandonata, o almeno così pensava.

Credeva, prima di rivederla, che il senso di colpa lo avrebbe mangiato vivo.

"Come hai fatto a tornare?"

Tutto il villaggio s'era fatto silenzioso, curioso di ricevere una risposta. Asteria non sapeva se dir la verità o aspettare, magari persino mentire.

Cosa avrebbe pensato la sua gente di lei?
Avrebbero preferito vederla morta piuttosto che simpatizzante di un Re pazzo.

Aveva riflettuto qualche secondo, chiedendosi il perché fosse così tanto detestato. Dopotutto il regno era amministrato bene, forse grazie agli interventi silenziosi di Nasser, e tutto sommato le persone erano in grado di vivere dignitosamente.

Iblīs, inoltre, non poteva uscire dalla sua terra e non costituiva, quindi, un pericolo concreto.

Ma c'era altro, c'era lo sterminio dei suoi precedenti servi e la paura che un giorno impazzisse totalmente.

Cosa avrebbe fatto, a quel punto, il Re?
Secondo il suo stesso popolo, avrebbe raso al suolo il regno.

"Mi sono stati accordati tre giorni," aveva sussurrato Asteria, puntando lo sguardo sulle sue scarpe, "dopodiché dovrò tornare."

I cittadini avevano impiegato qualche secondo prima di scoppiare in grida sguaiate. Erano delusi, in disaccordo, forse persino spaventati.

Ma da chi, da lei?

Il solo pensiero le aveva scosso le membra.
No, lei non avrebbe mai fatto nulla contro la sua stessa gente. Era cresciuta con loro, come sarebbe mai riuscita a fargli del male?

"Resta qui, il Re non può uscire da palazzo, giusto?" Aveva mormorato Azef, piegandosi alla stessa altezza dell'amica.

Sperava che lo guardasse e che annuisse, accettando la sua richiesta. Ma gli occhi di Asteria erano ancora incollati verso il basso, incapace di fronteggiare la delusione sul viso del ragazzo.

"Non posso, sai che non posso."

C'era stato qualche grugnito, alcuni sguardi compassionevoli e un paio di espressioni irritate.

Voleva solo rifugiarsi nel calore di casa sua, tra i libri della sua libreria e nel dolce affetto di Alisha.

Si era fermata un attimo, dubbiosa, mentre faceva vagare lo sguardo in alto e tra i suoi compaesani.
Non la vedeva, non riusciva a scorgere la sua figura aggraziata tra le donne presenti.

"Dove si trova Alisha?"

Azef aveva deglutito per poi distogliere lo sguardo.
Amava la ragazza come una sorella, ma poteva davvero dirle tutto? Era appena arrivata e sarebbe rimasta per soli tre giorni, quindi perché torturarla con altri problemi?

"Un giorno dopo esser tornati qui abbiamo trovato dei messaggeri, dei messaggeri reali. Ci hanno lasciato una consistente fonte di denaro, dicendoci di prenderli come anticipo per la tua paga.

Alisha era tormentata, non dormiva e non mangiava.
Assieme abbiamo deciso che sarebbe stato meglio, per lei, cambiare aria.

Voleva andare all'Accademia, ricordi? E così ho pagato la retta, è partita ieri mattina."

La cassa toracica di Asteria si era ristretta, come a voler proteggere il suo fragile cuore dall'incassare il colpo.

Se fosse partita un giorno prima avrebbe rivisto Alisha, la sua migliore amica, sua sorella.

In realtà non si sarebbe mai aspettata di non trovarla lì, a casa. Pensava che avrebbe pianto la sua perdita, che si sarebbe incolpata e invece era partita.

Nuova città, nuova vita.
Forse era questo ciò che la minore aveva pensato.

Si era quindi sentita delusa. Lei sarebbe rimasta, avrebbe atteso il suo ritorno per il resto della vita.

Aveva dovuto costringere la sua mente a fermare i suoi pensieri e a comprendere le motivazioni di Alisha.

Non voleva crogiolarsi nel risentimento, non avrebbe avuto senso farlo. Sapeva cosa succedeva a coloro che soccombevano a sentimenti tanto crudeli e oscuri, e non desiderava far la loro fine.

"Va bene," aveva quindi sorriso lei, stringendo la mano di Azef, "almeno ci sei tu."

"Non sarei andato da nessuna parte senza te, piccola peste." Le aveva scompigliato i capelli per poi ricambiare la stretta alla mano.

"Fateci passare, la porto a casa."

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