07| Anche I Fantasmi Piangono
𝕾𝖔𝖓𝖔 𝖓𝖆𝖙𝖔 𝖈𝖔𝖓 𝖎𝖑 𝖉𝖎𝖆𝖛𝖔𝖑𝖔 𝖉𝖊𝖓𝖙𝖗𝖔 𝖉𝖎 𝖒𝖊. 𝕹𝖔𝖓 𝖕𝖔𝖙𝖊𝖛𝖔 𝖎𝖒𝖕𝖊𝖉𝖎𝖗𝖊 𝖎𝖑 𝖋𝖆𝖙𝖙𝖔 𝖉𝖎 𝖊𝖘𝖘𝖊𝖗𝖊 𝖚𝖓 𝖆𝖘𝖘𝖆𝖘𝖘𝖎𝖓𝖔, 𝖈𝖔𝖘ì 𝖈𝖔𝖒𝖊 𝖚𝖓 𝖕𝖔𝖊𝖙𝖆 𝖓𝖔𝖓 𝖕𝖚𝖔' 𝖋𝖊𝖗𝖒𝖆𝖗𝖊 𝖑𝖆 𝖛𝖔𝖌𝖑𝖎𝖆 𝖉𝖎 𝖈𝖆𝖓𝖙𝖆𝖗𝖊.
-H. H. Holmes
Attorno a lui non vi era nulla di vivo, nulla a suggerire un'idea di fertilità materna. Era nato in un ambiente morto, mani calde l'avevano strappato ad un ventre ormai piatto per gettarlo in un mondo sconosciuto.
E poi la luce: ricordava, finalmente ricordava il dolore nell'aprire gli occhi, la consapevolezza d'essersi perso.
Dov'era il ventre caldo di sua madre? Non sentiva più il battito della donna galoppare con il suo; poi vi era stata la separazione.
Quello spesso tubo di carne che lo collegava a lei era stato rotto, spezzato, e lui aveva semplicemente smesso di sentirla.
C'erano state delle voci, brusii soffusi e ansimi mentre veniva passato a qualcun altro come un oggetto sgradito.
"È malato, povero bambino."
Non capiva ciò che sentiva ma avvertiva le loro mani, arti sconosciuti e frettolosi, toccarlo con riguardo, come se potessero infettarsi.
Non capiva se fosse un bambino o una piaga.
"La madre è morta di parto."
Morto, era tutto così morto.
Le pareti grigie, il pavimento bianco, il paesaggio invernale dietro le finestre e gli occhi di sua madre.
Occhi vuoti, fissi su di lui come a guardarlo.
Ma non vi era niente dietro ad essi, non vi era la dolce consapevolezza di star guardando il proprio figlio, ma solo lo spettro nero della morte che aveva sedotto sua madre per portarla via con sé.
Riusciva a vedere la Morte abbracciare il corpo sinuoso della donna che l'aveva generato, le baciava la fronte e piangeva con lei.
La stringeva, la maledetta la stringeva come a consolarla e Iblīs non capiva chi fosse, dove fosse e chi stesse guardando.
La Morte aveva quindi alzato lo sguardo dalla donna senza vita per puntarlo su di lui, un piccolo fagotto pallido e scarno che non piangeva.
Iblīs era sicuro volesse abbracciare anche lui, ma non lo fece. Si limitava ad osservarlo con pena, come se la Vita-sua sorella- fosse una pena assai peggiore di lei.
La Vita aveva il volto poggiato contro le spalle della donna che lo teneva in braccio, lo osservava come una bambina curiosa e divertita avrebbe fatto.
Gli mostrava la lingua, stringeva gli occhi e s'esibiva in smorfie che non lo divertivano affatto. No, lui era attratto dalla veste nera della Morte.
Ma la Vita, che con eleganza vestiva la luce, non si arrendeva e lo seguiva ovunque. Allungava le dita verso di lui, invitandolo ad afferrarle e a giocare con lei.
Iblīs era stato quindi preso da un altro paio di mani, l'ennesimo, fredde e dure contro il suo corpo.
Non ne vedeva il proprietario, ma lo sentiva. Riusciva ad avvertire le vibrazioni maligne che scaturivano dai suoi palmi e lo temeva.
La Morte e la Vita erano rimaste a guardare con le teste inclinate lateralmente, come ad aspettare un qualcosa di importante.
Chi tra le due avrebbe abbracciato il bambino?
"Mi disgusti." Aveva detto l'uomo che teneva in braccio Iblīs, senza rivolgergli nemmeno uno sguardo.
Suo padre, era suo padre a tenerlo tra le braccia.
Suo padre, era suo padre ad esser disgustato da lui.
Ma Iblīs non comprendeva le parole umane e quindi giaceva silenziosamente, mite e quasi annoiato dall'ambiente circostante.
Improvvisamente non vi era più nessuno a tenerlo in braccio, percepiva solo un immenso buco nero sotto di lui.
Cadeva, Iblīs stava precipitando sempre più giù, come se stesse annegando.
Una piccola macchia rosata in uno sfondo nero e quindi
cadeva
cadeva
cadeva
e plick.
Era caduto come goccia che si frantuma a terra.
I suoi occhi si erano quindi spalancati, le labbra gli si erano schiuse in un muto grido d'aiuto mentre sentiva, avvertiva, qualcuno afferrarlo e scuoterlo come a volerlo aprire in due.
Vedeva suo padre, sopra di lui, dal riflesso di uno specchio. Teneva una mano contro la sua testa e lo spingeva a terra, dov'era giusto che stesse, mentre rideva.
Suo padre era a cavalcioni sulla sua schiena, ordinandogli di chiedere perdono.
Di cosa doveva esser perdonato, Iblīs?
Di aver ucciso sua madre, di aver strappato al padre l'unica donna che avesse mai amato. Ma lui non l'aveva fatto di proposito, non aveva mai desiderato che sua madre morisse di parto.
"Perdonami."
Aveva mormorato lui, prima che suo padre gli premesse la testa a terra con più veemenza.
Iblīs sperava d'esser assolto, un giorno, dalle accuse che suo padre gli muoveva. Sperava d'essere amato.
Il ricordo era nuovamente cambiato, catapultando il giovane principe nella stanza del trono dove sedeva silenziosamente.
Era stato relegato a terra, accanto al seggio in cui sostava suo padre, perché valeva meno di un cane e il suo posto era quindi sul pavimento.
Davanti ai due uomini stava una donna, la sua dama da compagnia personale: Dahlia, la quale aveva sui quarant'anni ma oh, quel bel sorriso gliene toglieva almeno dieci.
Voleva bene a Iblīs e l'aveva accudito sin dalla nascita, sostituendo la madre e amandolo come fosse figlio suo.
Anche lui se ne era affezionato, impossibile non farlo.
"Pensi che questa donna abbia rubato dalle mie stanze, Iblīs?" La voce di suo padre era dura nel pronunciare il suo nome, quasi come se gli arrecasse fastidio.
Ma gli aveva parlato, gli aveva finalmente rivolto una domanda che non fosse sgradevole e oh, quanto ne era felice il giovane principe!
Iblīs non conosceva, però, la risposta giusta da dare.
Persino lui aveva udito i pettegolezzi di palazzo e tutti mormoravano che Dahlia avesse rubato al Re.
"Non lo so, mio signore." Non gli era permesso rivolgersi a lui come padre, lo aveva imparato presto.
Il Re aveva quindi sorriso, guardandolo con una punta di divertimento.
"Oh, non la sai," aveva mormorato il Re, leccandosi le labbra, "non mi piacciono le incognite. Lo sai perché non mi piacciono le incognite?"
L'ambiente aveva iniziato a roteare, nel sogno, mentre Iblīs osservava muto e impotente il sé stesso d'un tempo.
Si era visto aggrottare le sopracciglia e scuotere il capo mentre suo padre si protendeva verso di lui.
Voleva intervenire, rivelare al sé stesso del passato cosa stava per accadere, ma non poteva.
Era solo un sogno, solo un ricordo.
"Perché non posso controllarle."
Il padre aveva quindi mosso un dito verso Dahlia, dando l'ordine alle guardie di giustiziarla.
Iblīs si era svegliato di soprassalto, toccandosi il volto per constare d'esser tornato nel mondo reale e di non trovarsi più bloccato nel sogno, nel ricordo o nell'incubo.
Non sapeva come chiamarlo, in effetti.
Si era guardato attorno per accertarsi di essere da solo per poi alzarsi e avviarsi verso il bagno. Aveva bisogno di farsi una doccia e di lavare via i ricordi: stava meglio quando non ricordava, quando tutto sfuggiva alla sua mente.
Era però riuscito a dormire e nonostante non si sentisse più in forma del solito doveva darsene atto, o darle atto.
I suoi pensieri erano scivolati velocemente verso il ricordo di Asteria, lasciando perdere il sogno.
Entro qualche minuto lo avrebbe definitivamente dimenticato.
Non ricordava di aver mai sentito qualcuno cantare con così tanta tristezza. Aveva la voce malinconica di chi soleva raccontare la propria storia a un vecchio, sperando che poi se ne ricordasse.
Ma gli importava davvero? Dopotutto l'aveva presa con sé per sentirla cantare, non per scambiarsi segreti a vicenda.
Non che lei gli avrebbe mai detto qualcosa, sia chiaro.
Era sicuro che non gli avrebbe detto nemmeno il suo nome, se avesse potuto.
Conosceva abbastanza bene le donne come Asteria, come Dahlia, per poter provare pena per loro.
Donne forti consumate dai loro pensieri, perché troppo orgogliose per permettere a loro stesse d'esser fragili: Dahlia e Asteria erano questo.
Lui non aveva di questi problemi proprio perché non poteva riflettere per troppo tempo; nulla lo preoccupava se non i fantasmi, quindi stava bene. O almeno, era stato peggio.
Si era rovesciato un secchio d'acqua sulla testa, ridendosela di gusto nel sentire la sua bocca riempirsene.
Gli pareva di starsi strozzando, ma stava bene, non gli sarebbe successo nulla in alcun caso.
Il dolore lo aiutava, inoltre, a sentirsi vivo e a prendere contatto con il proprio corpo. In qualche modo lo faceva sentire consapevole di averne uno. Se non avesse sofferto, forse non si sarebbe nemmeno reso conto di esistere.
La maggior parte del tempo si chiedeva se gli altri lo vedessero, se fossero reali o frutto della sua mente.
E se fosse stato l'unico essere realmente vivo?
Cosa sarebbe successo se attorno a lui fossero stati tutti fantasmi? Magari nemmeno Asteria e Nasser esistevano, magari erano solo frutto di un sogno.
E se fosse stato ancora bloccato in un sogno?
Magari-ecco magari lui si trovava in un sogno.
Il solo pensiero gli aveva fatto accapponare la pelle; non gli piacevano le persone, ma aveva bisogno di circondarsene per dimenticare quanto fosse solo.
Iblīs non realizzava, però, che il problema non era esser solo ma la solitudine stessa. Un concetto difficile da esporre, certo, ma reale al cento per cento.
Se anche fosse stato circondato da centinaia di persone non avrebbe, in qualsiasi caso, alleviato quella bolla di vacuità che come una piaga gli infettava il corpo e l'anima.
Il Re pazzo non era un uomo solitario, ma bensì un essere abbandonato a sé stesso, con ferite talmente profonde da aver permesso al male di piantare radici nelle sue carni per far fiorire tremendi fiori spinosi.
Iblīs era quindi concime per il male, si nutriva di sofferenza per sfamare la propria, in un vano tentativo di estinguerla.
Oh, quanta pena che si faceva!
Si era preso la testa tra le mani in preda ad un attacco di panico, piegandosi sulle ginocchia per scivolare a terra.
Sentiva le orecchie doloranti che gli fischiavano e gli occhi stanchi, gonfi, che non mettevano a fuoco nulla.
Si era trascinato in un angolo della stanza, raggomitolandosi con le gambe al petto e lo sguardo agitato puntato chissà dove.
"Perdonami, perdonami, perdonami!" Aveva preso a singhiozzare, mentre osservava il fantasma di sua madre trascinarsi verso di lui.
Era così bella e così morta, totalmente priva di vita e di umanità.
Come lui.
"Il mio bambino," aveva detto il fantasma, toccandogli la caviglia, "hanno preso il mio bambino. Non riesco a trovate il mio bambino, sai dove si trova il mio bambino?"
Il fantasma piangeva, supplicandolo di rivelarle dove fosse il figlio ed ogni volta la sua voce s'incrinava sul finale, come se non sopportasse l'idea di averlo smarrito.
Il mio bambino, il mio bambino- era lui il suo bambino.
Iblīs non riusciva a parlare o a muoversi, poteva solo guardarla con impotenza. Adesso come allora non poteva aiutare sua madre, adesso come allora la vedeva morta.
Una parte di lui era sicura di odiare quella donna: l'aveva lasciato solo con il padre, con sé stesso a morire.
Voleva anche lei che morisse? Lo odiava per averla uccisa?
Il fantasma gli si era aggrappato alla gamba, pregandolo di risponderle, ma lui non poteva.
Non è reale, aveva continuato a ripeterselo all'infinito senza mai crederci realmente.
Era riuscito a rimanere relativamente calmo fino a quando non aveva adocchiato il secondo fantasma: suo padre.
Sedeva proprio dinnanzi a lui, nella sua stessa posizione, come a volerlo imitare e guardava il pavimento con le lacrime a rigargli il volto.
Piangeva, suo padre piangeva con talmente tanta disperazione da rendere Iblīs contento.
Non l'aveva mai visto piangere, tanto meno sorridere.
Ironico come solo adesso, solo ora che ormai erano passati anni dalla sua morte, Iblīs potesse vederlo piangente e angosciato.
"Mia moglie," aveva sussurrato il fantasma, alzando lo sguardo su di lui, "hanno preso mia moglie. Non riesco a trovarla tu-tu sai dove si trova?"
Iblīs l'aveva guardato, sconvolto, chiedendosi come facesse a non riconoscere la moglie che diamine giaceva proprio accanto a lui. Possibile che non si vedessero a vicenda, che non lo riconoscessero?
Non sapeva come sentirsi a riguardo, una parte di lui ne era quasi felice.
"Non lo so..." aveva sussurrato Iblīs, prendendosi la testa tra le mani.
Sentiva le tempie pulsargli e le orecchie fischiargli più di prima, disorientandolo a tal punto da costringerlo in posizione fetale sul pavimento.
"Il mio bambino, hai visto il mio-"
"Mia moglie, hai visto mia-"
Le voci dei due fantasmi si erano accavallate, confondendosi come una strana melodia dal suono stridente. Li sentiva così vicini e allo stesso tempo gli sembrava di non udirlo affatto; le loro parole erano sempre le stesse e si ripetevano in un ciclo infinito, fino a perdere di senso.
Lui non sapeva dove diamine fosse il bambino o dove si trovasse la moglie!
No, no lui lo sapeva, ma come poteva dirglielo? Le sue labbra, dio, qualcuno doveva avergli cucito le labbra per impedirgli di parlare.
Si era portato le mani alla bocca per tastare i fili rossi che gliela chiudevano a forza; tanti e piccoli aghi costretti nella sua pelle per tenergli le labbra sigillate. Con le dita tremanti aveva afferrato i fili, tirandoli fino a strapparseli dalla carne.
Aveva sentito il sapore del sangue contro la lingua, avvertendolo mentre colava dal suo mento fino a macchiargli i pantaloni. Non ricordava se gli avesse fatto male, appena qualche secondo prima, strappare via quei fili rossi dalle sue labbra.
Ma ora poteva parlare, giusto?
"Non lo so." Aveva risposto ai due fantasmi, concentrando lo sguardo solo sulla madre. Poteva-ecco poteva toccarla? Cosa sarebbe successo se l'avesse abbracciata? Come ci si sentiva ad esser accolti tra le braccia di una madre?
E suo padre, quell'orribile uomo che lo guardava piangendo, poteva finalmente vendicarsi di suo padre? No, certo che non poteva. Non lo riconosceva, dopotutto.
Iblīs aveva trovato divertente il fatto che nemmeno adesso fosse libero da quell'uomo, che persino la morte non voleva esser clemente con lui e sbarazzarsi del demone che per anni aveva visto come figura paterna.
Eppure non era la Morte, la triste donna vestita di nero, a giocargli quello scherzo: era lui stesso a non aver lasciato andare né suo padre né sua madre.
Quella realizzazione lo aveva angosciato, portandolo persino alle lacrime mentre le voci dei fantasmi si intensificavano.
"Perdonatemi!"
**
Asteria aveva freddo.
Doveva ancora abituarsi alla temperatura gelida del posto e la cosa la infastidiva. Erano molte, in realtà, le cose che la infastidivano e se ne era appena aggiunta una alla lista: i giullari di corte.
Perché diamine non riuscivano a tacere? Desiderava con tutta se stessa una mantella più pesante e qualcuno che mettesse a tacere quel maledettissimo giullare.
"Ehsan parla tanto, non è così?" Il giullare parlava di sé stesso in terza persona e si prendeva in giro da solo; se non altro risparmiava ad Asteria il fastidio di farlo.
Sedevano su un piccolo tavolo quadrato, in legno, consumando la colazione con altre persone dello staff. Erano in quattro: lei, Ehsan, Nasser e una delle cuoche: Hafa.
Quest'ultima era rimasta in silenzio per quasi tutto il tempo, limitandosi a rifocillarsi come se non vedesse del cibo da anni. Era, effettivamente, incredibilmente magra, con le clavicole sporgenti e gli zigomi affilatissimi.
Asteria l'avrebbe definita, nonostante l'eccessiva magrezza, una bellissima donna.
"Tappati la bocca se non vuoi che ti tagli la lingua." Era stato Nasser a sbottare.
Sedeva accanto ad Asteria con naturalezza, come se lo scambio scherzoso che avevano avuto poche ore prima fosse una specie di autorizzazione a fraternizzare.
Ma a lei stava bene: sarebbe stato più facile convincerlo ad aiutarla se fossero divenuti intimi o persino amici, nonostante questo non riusciva ad impedire al suo corpo di sobbalzare ogni qual volta si avvicinava.
Gli uomini erano ingannevoli e maligni, le sue tutrici glielo avevano impiantato in testa per assicurarsi che crescesse senza far affidamento su di loro. Avevano però sortito un effetto diverso e negativo: Asteria non sopportava per molto la presenza di un uomo, se ne sentiva minacciata.
"Ehsan pensa che tu non debba per forza fare lo stronzo, pensa che tu possa usare toni più amichevoli." Il giullare, che doveva avere l'età di Asteria, aveva sorriso con amorevolezza mandando Nasser ancora più sulle furie.
"Mi hai appena dato dello stronzo?"
"Oh no, è stato Ehsan a farlo!"
Aveva quindi alzato le mani in aria, sorridente, come se stesso parlando di qualcun altro.
Asteria si era trovata a ridere di cuore per la battuta, scuotendo la testa come se la trovasse stupida ma geniale al tempo stesso. Ehsan aveva ridacchiato di rimando, contento di aver portato a termine il suo unico obiettivo: far ridere le persone.
Certo, era sicuro che sarebbe stato difficile divertire il Re.
Nasser aveva roteato gli occhi, senza però rispondere alla frecciatina. Persino Hafa, che fino ad allora non aveva pronunciato una parola, aveva sorriso.
Ora che l'atmosfera si era fatta leggera era tempo si iniziare con le domande.
"Ehsan si chiedeva cosa facesse ridere il Re." Aveva poggiato il mento contro il palmo della mano, puntando gli occhi scurissimi sui presenti.
Asteria lo avrebbe persino definito affascinante se non fosse stato per il modo in cui parlava e in cui si muoveva; una parte di lei pensava, però, che magari fosse proprio il suo atteggiamento ad affascinare le ragazze.
Si muoveva infatti in maniera buffa, ma aggraziata al tempo stesso; le gambe lunghe e snelle lo facevano sembrare delicato e il suo viso aveva tratti talmente fanciulleschi da suggerire un'idea di infantilità.
"Le teste mozzate lo fanno ridere, vuoi provare?" Nasser gli aveva puntato l'indice contro, sorridendogli con entusiasmo. Asteria aveva scambiato uno sguardo divertito con Hafa; pareva che entrambe pensassero che Nasser non stesse affatto scherzando.
Ma Ehsan era tranquillo, imperturbabile mentre giocava con una ciocca castana e riccissima di capelli.
"Ehsan crede di essere più bello con la testa sulle spalle, che ne pensate voi donzelle?"
Hafa era arrossita mentre cercava lo sguardo di Asteria: le dava l'impressione di una buona sorella maggiore quindi non c'era nulla di male nel fare affidamento su di lei, giusto?
Asteria aveva recepito il messaggio, affrettandosi a rispondere per entrambe.
"Penso che Ehsan sarebbe ancora più bello con dei nastri tra i capelli."
Nasser le aveva dato una gomitata, guardandola come se fosse pazza. Il giullare aveva quindi applaudito mentre raddrizzava la propria postura con un sorriso radiante in volto.
"Non assecondarlo!" Le aveva bisbigliato Nasser, spalancando gli occhi per esibirsi in una smorfia di disappunto. Asteria si era limitata a roteare gli occhi, restituendogli la gomitata ma con più forza.
Nasser aveva sospirato, sconfitto, alzandosi da tavola per avviarsi verso la porta.
"Alzatevi voi due, il Re vuole il suo spettacolo."
Ehsan non aveva esitato nemmeno un secondo, incespicando verso la porta a causa dei pantaloni troppo larghi mentre Asteria li guardava con un accenno di confusione in viso.
"Devo venire anche io?" Dentro di sé sperava di poter tornare nelle sue stanze e dormire ma oh, Nasser e il Re parevano divertirsi a rovinarle i piani!
"Sei la sua dama da compagnia, il tuo compito è affiancare il Re durante tutte le sue attività, quindi pensavo fosse ovvio che la tua presenza fosse richiesta."
"Certo, ovviamente, come ho fatto a non pensarci?" Aveva borbottato sottovoce, incamminandosi verso la porta con un brutto presentimento a chiuderle lo stomaco.
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