8. Una chiacchierata nell'ufficio del Dottor Cavendish

Maggio, 2010.

Charlie.

Ansia.
E' il sentimento che mi aveva pervaso tutto il corpo quando avevo sentito Edward pronunciare le parole : " casa mia" "cena" nella stessa frase.
Eravamo sul mio divano, circondati da spartiti e libri di scuola, che riposavamo gli occhi l'uno sulla spalla dell'altro.  E non so perchè, non so come, Edward, dopo minuti di un silenzio così rilassante che le mie orecchie stavano adorando, aveva deciso di parlare.  
«Charlie..?» Disse, con la sua voce sottile, impastata dal sonno leggero  che dominava la stanza.
«Mmh?» Fu la mia risposta.
« Vuoi venire a cena a casa mia?»
Una richiesta strana, per quel momento. Mi sarei aspettato un "mi prendi un po' d'acqua?" O " ho fame," ma no. Aprii gli occhi, alzando la testa dalla sua, che rimase appoggiata sulla mia spalla.
«Quando, scoiattolino?» Gli domandai curioso.

«Stasera.»

«Stasera?»

«Stasera.»
Ed eccola lì. L'ansia. Era sbocciata nel mio stomaco come una piccola scintilla, ad avvisarmi che da lì a poco, si sarebbe tramutata in paranoia e angoscia.
Se era forte il mio sgomento per l'invito a cena improvviso, ancor di più lo era per il fatto che fosse quella stessa sera.
La mia mente iniziò a navigare lontano e velocemente, sui vari scenari possibili che sarebbero nati a questa cena con i suoi genitori.

Prima di tutto, poi, erano già le cinque del pomeriggio. A che ora avrebbe voluto cenare? Alle sette?
Puzzavo. Dovevo assolutamente lavarmi. E cercare qualcosa di affatto da mettermi. Ma cosa poteva essere adatto? Una camicia ? Forse troppo elegante.. Un maglione leggero? Avevo paura però di avere caldo. Con il caldo avrei sudato. E puzzato di nuovo. Non volevo puzzare di morto alla prima cena con i genitori di Edward.
Poi, quando aveva intenzione di farmelo sapere? Perchè non dirmelo prima? Mi sarei preparato mentalmente. Ora non ero pronto.

«Va bene, scoiattolino.» Dalla mia bocca uscirono parole con tono rassicurante, anche se di rassicurato, avevo ben poco.
Alle cinque e venti precise, mia madre aprì la porta d'ingresso, annunciando il suo rientro a casa, puntualissima come sempre. Edward si alzò di scatto, tentando , invano, di ricomporsi, per nascondere viso gonfio  e vestiti stropicciati dal sonno. Ridacchiai, gli sistemai i capelli con un gesto della mano e mi stiracchiai, per poi alzarmi dal divano e sistemare tutti i fogli che avevamo intorno, per terra, e sul divano.
«Ciao, ragazzi!» Salutò mamma, con un tono di voce abbastanza alto da farsi sentire dalla sua camera, a cui era arrivata subito dopo essere entrata . Non so se fosse un'abitudine che si era presa per evitare di trovarci nudi in qualche angolo  della casa, o fosse solo per gentilezza, ma a prescindere vedevo sempre Edward farsi prendere dal panico e inciampare,puntualmente, su qualcosa, per la fretta di sistemarsi e farsi trovare vestito e innocente.  Quel giorno era inciampato sulle mie scarpe.

Risi a gran voce, mentre lui, in terra, sbuffava seccato.

«Ciao, ma'.» Dissi io.
«Buonasera, Margaret!» Edward, come sempre, salutava  mamma in maniera molto formale.
La prima volta che la conobbe, insieme a mio padre Jack, si impose di chiamarli Signor e Signora Davis, fino a quando, un pomeriggio, mamma lo aveva sgridato seriamente, dicendogli che se avesse sentito nuovamente quel nome non lo avrebbe fatto più entrare in casa.

Adoravo il fatto che i miei, in particolare mamma, perchè papà lavorava parecchio e raramente era a casa negli stessi orari in cui venivamo a stare da me, e Edward, andassero molto d'accordo. La mamma rideva tantissimo quando erano insieme.

Margaret Davis era sempre stata una donna solare e allegra. Da piccolo una cosa che dicevo sempre era: " la mia mamma preferita", glielo dicevo in continuazione, senza rendermi conto  della sciocchezza che in realtà fosse. Ma era così, era la mia mamma preferita, se mai avessi dovuto averne altre, nelle mie precedenti vite, lei era in assoluto la migliore. Sin dall'infanzia  si era  sempre dimostrata presente, mi aveva coccolato talmente tanto da viziarmi, lo devo ammettere,anche se con il tempo, riuscii a rendermi più autonomo e andare a scuola senza disperarmi.
Mio padre, Jack, faceva il giornalista a Londra, in pieno centro, ma spesso viaggiava di qua e là per scoprire il mondo. Mi promise che una volta finiti gli studi lo avrei accompagnato.
Non vedevo l'ora.
Girare i paesi,mare e montagne , conoscere persone, culture e lingue diverse. Questo era il mio sogno. Far scoprire agli altri la mia musica, quando avrei avuto dei miei pezzi.

«Devo andare a prepararmi, cosa mi metto?» Domandai a Edward. Avevamo sistemato il divano: ora tutti gli spartiti e i libri erano ordinati sul tavolino davanti al divano, i cuscini erano tornati quadrati, la coperta piegata perfettamente sul bracciolo.
«Come sempre.» Rispose. In realtà avrei preferito una risposta un po' più precisa, ma avevo capito che quella sera, dalla bocca di Edward, non sarebbe uscito niente che avrebbe soddisfatto  le mie aspettative.

Quando salii in camera, Edward mi chiese di poter fare la doccia, come me. Inizialmente gli proposi di farla insieme, ma, con mia mamma a fianco, e il fatto che si fossero già fatte le sei meno un quarto, rimangiai la mia proposta.
Mi lavai per primo, troppo velocemente per le mie abitudini, ma non potevo permettermi di arrivare in ritardo al primo incontro con i suoi genitori.

Entro cinque minuti fui fuori dal bagno, gocciolante,senza preoccuparmi del fatto che il pavimento della mia camera sarebbe diventato da lì a poco scivoloso come l'olio per via dell'acqua che il mio corpo, bagnato, andava disseminando nel tragitto doccia- letto. Guardai Edward, che mi fissava bisognoso. Allungò infatti una mano verso di me, per  far si che mi avvicinassi a lui, sotto il suo implicito ordine fisico. Osservai i suoi movimenti, lasciando che poi, per caso, i nostri occhi si incatenassero gli uni con gli altri. Non so quale coraggio mi prese, per permettermi di sostenere il contatto visivo più a lungo di quattro secondi.
«Non possiamo fare tardi.» Lo sgridai, intuendo ciò che voleva dagli occhi vitrei e piangenti di desiderio.  Edward sbuffò, e ritrasse la mano verso il suo corpo. «Posso anche io?» Mi domandò subito dopo, indicando con un dito, la porta del bagno.

«Certo, ma non metterci troppo.»

Controllai un'altra volta l'orologio, che segnava le sei e cinque, e preso dalla fretta, strofinai  la mia pelle con l'asciugamano che nascondeva le mie nudità, in modo tale da potermi vestire successivamente.  Appoggiai con noncuranza l'asciugamano bagnato sul letto, consapevole che al mio ritorno a casa il materasso avrebbe assorbito tutta la sua acqua e non avrei dormito. Presi dal cassetto più alto della cassettiera di fronte al letto un paio di boxer, iniziando a ragionare su cosa avrei potuto indossare quella sera. Intanto Edward era entrato nella doccia e fischiettava una melodia che conoscevo abbastanza bene: la stavamo provando da giorni, ormai, in vista del concerto di giugno.  Aveva lasciato al porta aperta e, senza saperne il motivo, il mio corpo sentì la necessità  di entrare in quella stanza. Infilai un paio di pantaloni blu e  seminudo raggiunsi il bagno con la scusa di dovermi asciugare i capelli e finire di prepararmi.

Mi guardai allo specchio per controllare che il mio viso fosse pulito e libero da qualsiasi genere di imperfezione che avrebbe potuto disturbare il mio aspetto, ma fu inevitabile, per me, evitare di guardare, attraverso lo specchio appannato, la figura sfocata di Edward che con gli occhi chiusi, non aveva notato la mia presenza.
Rimasi incantato per secondi infiniti, lasciando che la visione delle sue mani che perlustravano il suo corpo sotto l'acqua corrente, toccassero quella  pelle anche un po' per me. I suoi ricci bagnati si erano disciolti, in parte, ricolmi d'acqua, e potei assistere alla contrazione di ogni singolo muscolo, a partire dai movimenti che il suo corpo compiva. Ammirai il suo busto magro, ancora un po' più acerbo, rispetto al mio, che iniziava a mostrare i segni dell'età ormai adulta che stavo raggiungendo. Mi fu impossibile evitare di far correre i miei occhi curiosi anche più in basso, cosicchè il mio corpo  sentisse il desiderio del suo, alla sola vista dell' imponente nudità che gli apparteneva. 
Incantato, sussultai violentemente per lo spavento, quando un colpo di tosse interruppe lo spettacolo a cui stavo assistendo.

«Sei pronto, Charlie?» Disse. Girò la manovella dell'acqua per chiuderne il getto, e intuendo la sua imminente uscita, portai la concentrazione su  me stesso, applicando  un paio spruzzi  di profumo sul collo. 
Edward uscì dalla doccia, avvolgendo subito un asciugamano intorno alla vita, ma riuscì a gocciolare su tutto il pavimento. Mi voltai a guardarlo, promettendomi che gli avrei dedicato solo qualche secondo di attenzione, e poi sarei tornato a finire di prepararmi. Ma era così bello e ogni parte di me riuscì a prevalere sulla mia mente, obbligandomi a incollare gli occhi sul suo corpo.

Edward ridacchiò teneramente.

«Se fossi voluto entrare con me in doccia, avresti dovuto dire di si quando te l'ho chiesto.» Mi rimproverò scherzoso. Aveva ragione. Me ne pentivo.

«Dai, faremo tardi. Vestiti!» Lo intimai, cambiando discorso. Uscimmo dal bagno insieme e gli porsi un paio di boxer miei, mentre sceglievo una camicia non troppo elegante, a maniche corte, bianca, con il colletto nero, e delle bretelle da abbinarci  sopra.
«Ti vanno?» Domandai. Solitamente Edward ed io riuscivamo a scambiarci i vestiti, avevamo quasi la stessa taglia, anche se a lui le mie magliette spesso stavano un po' corte.
«Si, non preoccuparti.» Mi rispose gentile.  Gli sorrisi, finendo di sistemare i miei vestiti e tornando in bagno  per asciugarmi i capelli.
Ci impiegai poco, per fortuna, e una volta pronto, raggiunsi Edward che era già sceso e mi aspettava sul divano.
«Non ti asciughi i capelli? Ti fa male.» Lo rimproverai.
«Fa caldo. Li lascio asciugare all'aria.»

Quando salimmo in auto l'ansia riprese a martellarmi nello stomaco.

Il viaggio fu parecchio breve, cosa che non aiutò per la mia ansia.
Quando arrivammo di fronte a casa di Edward, che si impegnò per tutto il viaggio a darmi le indicazioni corrette mentre mi accarezzava la coscia,  mi voltai verso di lui con uno sguardo pieno di terrore.

«Sto male. Non voglio più entrare» Mi lamentai stringendo il volante. Ero nel panico. Casa di Edward era gigantesca da fuori, sembrava una vera e propria reggia reale, e l'idea che avrei dovuto entrare lì dentro non faceva che alimentare  l'angoscia che si era impossessata di me in maniera violenta.

«Vado bene così, secondo te?» Chiesi al riccio, seduto sul posto del passeggero. Lui mi guardò con occhi dolci e prendendomi il viso tra le mani, diventò serio: «Stai benissimo con qualsiasi cosa, ma l'importante è che sia a tuo agio.» Lasciai che mi baciasse subito dopo.

Scesi dall'auto più sereno, anche se veramente poco e insieme ci dirigemmo alla porta d'ingresso.
Ad aprirci, una volta suonato il campanello, fu una donna di età avanzata con un grembiule bianco indosso.

Non avevo idea che Edward avesse una cameriera.

In realtà non avevo proprio idea della vita che facesse Edward fuori dalle mura di casa mia o da quelle dell' auditorium. 
Quando ebbi la possibilità di entrare dentro il palazzo che Edward definiva semplicemente casa, rimasi incantato. Tappeti finemente decorati su ogni pavimento, lampadari immensi di cristallo, specchi su cornici eleganti e finestre a tutta altezza in giro per tutta la casa.
«Signora Cavendish, sono arrivati.» Annunciò la donna che ci accolse, mentre ci faceva strada verso quello che presunsi fosse il salotto. Più mi facevo strada all'interno, più mi meravigliavo dall'abitazione di cui Edward non mi aveva mai parlato.

Ed ecco che i miei occhi riuscirono a scorgere la figura che piano si stava alzando dal divano, e faceva per girarsi. Il mio stomaco subì tante capriole che pensai di vomitare sul tappeto persiano rosso  su cui poggiavo i piedi.

«Buonasera, ragazzi.» Salutò gentile. Si avvicinò verso di noi e quasi d'istinto feci un passo indietro, cercando come di nascondermi dietro la figura di Edward. Analizzai il suo volto, giovane e sereno, incorniciato da una folta chioma di capelli biondi, ondulati verso la fine. I suoi occhi sinceri mi scrutarono a loro volta, cercando di conoscere il più possibile di me prima ancora che potessi presentarmi a lei.
«Ciao tesoro.» Salutò il figlio con un bacio sulla guancia e poi portò nuovamente lo sguardo su di me. Stranamente il colletto della mia camicia iniziava a farsi stretto.

«Lui è Charlie, mamma. Ti ho parlato di lui, ti ricordi?»
«Ma certo. E' un piacere, Charlie. Io sono Claudia.» Mi porse la mano che subito strinsi debolmente, ricevendo in risposta una salda stretta di mano che quasi mi stritolò le dita. Sorrisi imbarazzato , sperando che quel momento terminasse al più presto.

Continuavo a ripetermi che tutto stava andando per il verso giusto e che non sarebbe potuto succedere niente che avrebbe rovinato al serata. 

«Prego, sedetevi. Beviamo una cosa mentre aspettiamo la cena.» Claudia ci invitò sul divano, chiedendoci rispettivamente se gradissimo qualcosa e rispose prima Edward, chiedendo una soda, e io lo seguii a ruota. Una volta che fummo l'uno di fronte all'altra, mi soffermai sugli abiti della madre del mio ragazzo. Era formale, nonostante fossimo a casa, portava i tacchi  e un paio di pantaloni neri, abbinati a una camicia di seta bianca. Ai lobi due perle grandi  quanto una biglia ciascuna, e l'anulare sinistro addobbato di due anelli, rispettivamente fede nuziale e anello di fidanzamento.
Edward era rilassato, mentre io, al suo fianco, il suo ossimoro: ero così teso che temevo di saltare in aria da un momento all'altro. Ma dopotutto, quella era casa sua e aveva tutto il diritto di essere tranquillo. Seduto vicino  a lui, cercavo un qualsiasi contatto fisico per tentare di ricevere per osmosi un po' della sua tranquillità, ma percepivo lo sguardo attento di sua madre su ogni mio movimento, così mi limitai a lasciare che le nostre ginocchia si sfiorassero distrattamente.

Passò qualche minuto di silenzio imbarazzante dove gli unici suoni capaci di romperlo furono brevi domande con risposta "si", "no", e i cubetti di ghiaccio nel mio bicchiere che sbattevano contro il vetro.

«Buonasera a tutti, scusate il ritardo.» Una voce maschile si palesò dall'ingresso con fare frettoloso, chiudendo la porta rumorosamente e avvvicinandosi verso di noi. Mi voltai di scatto, poichè davamo le spalle all'ingresso del salotto, per associare un volto alla voce che aveva appena parlato.
«Tu devi essere Charlie.» Continuò. Mi alzai di conseguenza, come fosse un riflesso incondizionato, e porsi la mano all'uomo alto e minaccioso che mi trovavo davanti. Mi sentivo così piccolo.

Annuii silenzioso, lasciando che anche questa volta la mia mano destra venisse stritolata dalla stretta forte del padre di Edward.
«Io sono Joseph. E' un piacere averti a cena.» Si presentò. «A proposito, è pronta?»

Cinque minuti più tardi si avvicinò la stessa donna che accolse me e Edward in casa, ad avvisare che la cena fosse pronta.
Mi sedetti a fianco al riccio, mentre i suoi genitori ai due capi della tavola. Edward sentì la mia gamba sinistra dondolare nervosamente, e ci poggiò una mano per rilassarmi.

Una volta che fummo seduti iniziarono ad arrivare i primi piatti, e mi sentii strano a non dover essere io o qualche membro della famiglia ad alzarsi e portare la cena, o servire il cibo su ogni piatto.  Sul tavolo di marmo bianco vennero poggiati tartine e vari antipasti, che non tardarono a finire per lo più nei piatti miei e del ragazzo che mi sedeva a fianco.
Successivamente ci fu servita la carne, un roast-beef squisito accompagnato da un purè di patate altrettanto buono.
Edward, vedendomi ingurgitare il cibo con un'esagerata euforia, ridacchiò, suscitando la curiosità dei suoi genitori.
«Ti piace, Charlie?» Mi domandò Claudia. La guardai sorridente, annuendo.
«E' tutto veramente buonissimo.»
«Dovrò complimentarmi con Gertrude, allora.» Concluse.

Il resto della cena proseguì tranquillamente e il mio bambino interiore fece i salti di gioia nel vedere la pavlova al limone venir servita al centro del tavolo come dessert. Gertrude ricevette un sorriso a 32 denti da parte mia, che venne ricambiato subito.
Inalai il dolce e tentai di rubarne un pezzetto anche a Edward, ma venni interrotto da un colpo di tosse forse un po' forzato da parte di Jospeh, per attirare la mia attenzione.
«Perchè non mi segui, Charlie?» Domandò serio. Confuso, scrutai il suo sguardo, incitandolo a continuare. «Ti va una chiacchierata nel mio ufficio?» Edward mi strinse la mano sotto il tavolo.

«Non abbiamo ancora finito di mangiare, papà.» Lo canzonò il riccio.
«Va bene, Edward, ero comunque pieno. D'accordo, Signor Cavendish.»  Mi alzai delicatamente dalla sedia e la scostai all'indietro con le gambe, per poi riavvicinarla al tavolo. Guardai Edward con sguardo sereno,ricevendo in cambio degli occhi preoccupati. 
Joseph camminò con passo pesante e lo seguii veloce, non sapendo la strada verso il suo ufficio. Ero un po' intimorito, dovevo ammetterlo. Tuttavia non avevo idea di cosa aspettarmi.

Quando entrammo fui meravigliato un'ennesima volta dall'immensità della stanza, simile al resto della casa. La particolarità di quell'ufficio era il fatto che i muri fossero tappezzati di libri, fino al soffitto. Ebbi la possibilità di scorgere qualche titolo famoso, ma mi riuscii a soffermare meglio su alcuni più vicini alla scrivania posta alla fine dell'ambiente, dietro una finestra gigantesca a luce fissa. Forse era proprio il fatto che non potesse aprirsi  che in quella stanza l'odore di fumo era tanto pesante da darmi la nausea.  Sulla scrivania di mogano scuro poggiavano alcuni libri di medicina, un posacenere, una lampada e altre cianfrusaglie da medico.
«Siediti, ragazzo.» Ordinò l'uomo di fronte a me, che si accomodò dopo poco nella sua grande poltrona di pelle. Obbedii, sedendomi sulla sedia di fronte alla scrivania. Lo vidi tirare fuori dal cassetto un pacco di sigarette e osservai il suo braccio protrarsi verso di me.
«Non fumo... grazie lo stesso.» L'imbarazzo che provai in quel momento fu tremendo. Mi sentii quasi in colpa a rifiutare una sigaretta,ma quando lo sentii insistere, inclinai  la testa confuso.
«E'... um, E' una sorta di tranello?» Domandai a voce bassa, intimorito. Joseph scoppiò a ridere.
«No, sciocco. Vorrei che mi facessi compagnia. Non dirò a Edward che sei un cattivo ragazzo solo perchè hai accettato una sigaretta da parte mia. Dopotutto, sei maggiorenne, no?» Mi incalzò. Cedetti, sfilando una sigaretta dal pacchetto rosso e me la portai alle labbra, un po' impacciato. Era la prima volta che toccavo fumo. Avevo promesso a mia madre che non avrei mai fumato. Joseph si avvicinò a me per accendermela.
«Sai.. Edward non fa che parlare di te.» Disse. In  quel momento feci il mio primo tiro e pensai di morire. Il fumo entrò nei miei polmoni che, sorpresi, lo respinsero velocemente, portandomi a tossire come un pazzo. Tentai invano di soffocare la mia tosse per non sembrare troppo goffo.
Mi schiarii la gola e lo lasciai continuare, curioso di cosa avesse da dirmi.
«Hai una buona influenza su di lui. Forse anche troppa. »
«Cosa intende?» Domandai, provando a fare un altro tiro. Joseph fumava molto meglio rispetto a me. Chissà da quanto tempo lo faceva. Non sembrava un fumatore. Probabilmente lo faceva di nascosto dalla sua famiglia. Forse è per questo che il suo ufficio era chiuso a chiave.

«Edward è un ragazzo insicuro, Charlie. Lo è e sempre stato. Ma da quando sei entrato nella sua vita, è diventato ambizioso, sogna troppo in grande.»

«E non è un bene?»

«Ho paura che si faccia male, Charlie. Sai che intendo. Tutta questa musica... io non capisco. Cosa ci può essere di bello nel suonare uno strumento per pochi soldi...? Che gratificazione può dare non riuscire a portare il pane in tavola, mi chiedo? » In quel momento sentii i nervi nel mio corpo saltare per la rabbia e il mio cuore battere più velocemente.

«Edwardè bravo. Bravissimo, anzi. Perchè non dovrebbe seguire i suoi sogni se sa di essere in grado di realizzarli?» Lo stuzzicai. Avevo intenzione di vedere fino a che punto si sarebbe spinto. Continuava ad aspirare il fumo della sua sigaretta, mentre io, stufo, l'avevo già spenta e posata con non troppa delicatezza nel posacenere.
«Edward si iscriverà in medicina, dopo la scuola. E' strano che non te ne abbia mai parlato.» Strabuzzai gli occhi. Era vero, Edward non mi aveva mai parlato di fare il medico . Avevamo sempre e solo parlato di come, da grandi,  avremmo continuato a suonare e fatto l'audizione alla Royal Opera House, e di altri grandi progetti insieme.
«Non credo che sia quello che Edward voglia.»
«E' quello che è giusto per lui.»
«Ha mai pensato di chiedergli quali fossero le sue intenzioni dopo la scuola? Perché illuderlo di poter portare avanti la sua carriera musicale se il suo futuro è già stato deciso?» Tremavo di rabbia. Non potevo credere che i genitori di Edward lo avessero illuso di poter suonare per tutta la vita, come lui credeva. Non potevo credere che dietro tutta quella gentilezza e disponibilità, si celassero due persone meschine e senza cuore.
«Non hai idea di cosa significhi essere un genitore.» Mi sgridò Joseph.
«Non è giusto!» Mi lamentai, sentendomi subito dopo minuscolo, davanti al suo sguardo minaccioso .
«Cosa dovrei farmene, ora, di questa notizia? Devo mantenere il segreto? » Gli chiesi. Joseph tirò fuori un'altra risata rumorosa che mi diede sui nervi.
«Edward lo sa già. Forse è troppo orgoglioso per ammetterlo, o crede che non parlandone non si avvererà mai, ma è così che deve essere. Non voglio che tu gli metta in testa cose strane.»
«Quali cose strane? Io non gli metto in testa un bel nulla. Quello che pensa è frutto unicamente della sua mente. Lui vuole suonare. E' fatto per la musica. Perché deve costringerlo a fare qualcosa che non vuole ? Si pentirà.» Il mio cuore batteva rapido per la furia, e il mio corpo non riuscì a trattenersi. Mi alzai dalla sedia e battei le mani  sulla scrivania. Joseph mi guardò con occhi sgranati, sorpreso della mia reazione. Spense la sigaretta sul posacenere e con una calma snervante, si alzò dalla poltrona, raggiungendomi.

«Credo sia arrivato il momento di andare a casa, cucciolo innamorato.»  Mi esortò con poca gentilezza a uscire dal suo studio.
Messo piede fuori da quella stanza, respirare mi sembrò più facile. Edward mi corse incontro e osservò analitico i miei occhi, per poi rivolgere uno sguardo torvo al padre.
«Di cosa avete parlato?» Domandò curioso, tendendomi le mani. Mi voltai un'ultima volta verso Joseph che, dopo una pacca sulla spalla, mi congedò, tornando in salotto.

«Cose, Edward.». Risposi debole. La rabbia scemava mentre continuavo a osservare i lineamenti del suo viso, non riuscendo a capacitarmi del fatto che fossero così simili a una persona così cattiva.
«Vorrei che ti fermassi a dormire.» Mi chiese. Mi lasciò un bacio leggero sulle labbra, e sorrisi.
«Non credo sia il caso, scoiattolino. Sarebbe un po' troppo per i tuoi, la prima sera che mi conoscono. Facciamo un'altra volta, va bene?»

Deluso, mi guardò con il muso stampato in faccia. Gli scompigliai i capelli per farlo sorridere, e gli accarezzai una guancia.
«Va bene, ti amo.»

«Anch'io, scoiattolino.»














Sono tornata, miei cari.
Dopo due mesi di assenza e due giorni di ritardo dal ritorno promesso, finalmente sono riuscita a pubblicare un capitolo degno di essere letto.
Mi dispiace molto di essere sparita praticamente senza avvisare ma ho dovuto affrontare per la prima volta la maledetta sessione estiva e devo dire di esserne uscita (quasi) del tutto e intatta.
In questi due mesi ho avuto tempo per pensare e ripensare a come presentarvi i genitori di Harry. Non volevo che Louis si innamorasse di loro al primo sguardo ma nemmeno che li odiasse.
Spero che vi sia piaciuto il capitolo e soprattutto i nuovi personaggi, che vi ricordo essere interpretati da Michelle Pfeiffer e Mads Mikkelsen, che trovate nel cast nel primissimo capitolo.
Ovviamente questo è niente, rispetto a quello che scoprirete più avanti !
Ci vediamo il prima possibile per il prossimo capitolo (potreste rimanere sorpresi)
Un bacio,
S🎻

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