2. Anime mutilate
Giugno, 2012
Edward.
Il sogno è un fenomeno psichico legato al sonno. E' un attività mentale , anche frammentaria, che si svolge durante la fase dormiente di un soggetto. Sognare è una caratteristica degli esseri viventi, umani e animali, che si relaziona a esperienze vissute nel concreto o desideri repressi che il nostro cervello testa di riportare a galla nell'unico modo possibile: mentre siamo vulnerabili.
Il cervello, come ben si sa, lavora anche durante la notte, mentre l'uomo dorme. Ed è in quell'esatto momento, in cui egli non ha strumenti di difesa, che attacca.
Sei in una radura, circondato dal verde, immerso nella natura, e di colpo ti cadono i denti.
Stai passeggiando in una città in cui non sei mai stato, mano nella mano con la persona che ami, e quando ti volti a guardarla, questa non ha volto.
Per Freud il sogno rappresenta la realizzazione di un desiderio inconscio e "compiuto lavoro di interpretazione, ci accorgiamo che il sogno è la soddisfazione di un desiderio".
Shakespeare diceva: "Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni e la nostra breve vita è racchiusa in un sonno". Calderòn de la Barca,"Sono dunque le glorie così simili ai sogni che quelle vere son tenute per false e quelle finte per certe? C'è così poco dalle une alle altre che si fa questione di sapere se quel che si vede o si gode sia un sogno o verità?"
Per me i sogni non esistono e tutto quello che il mio cervello riesce a produrre sono incubi.
Il primo incubo che ho avuto di cui ho ricordo , è stato all'età di quattro anni; un orso gigantesco mi rincorreva per tutta la mia casa, che era fatta di Spagna.
Infantile, lo so, ma pur sempre un incubo degno di un bambino di meno di cinque anni.
L'ultimo incubo è stato l'altra sera. Mi trovavo nello studio di mio padre, sulla sua gigantesca e spaventosa poltrona marrone trapuntata, fumavo un sigaro e leggevo l'ultima pagina di un libro. Lo chiusi, leggendo così il titolo: Edipo Re. E come alzai lo sguardo dalla copertina una figura mi apparve di fronte, prodotta dal fumo del mio sigaro, e sussultai. Un uomo grigio di vecchiaia, vestito di una sola tunica rossa legata sulla spalla, aveva il volto rivolto verso di me, come se mi fissasse, ma era , in realtà, cieco.
«Scivolo nel nulla. Garantii a Teseo. Non sottrarrò quel bene, poi morrò.» Lo sentii pronunciare con aria triste. Dentro di me conoscevo quelle parole, poiché le avevo appena lette nel libro. Poi cambiò subito tono. Mi prese con forza la mano sinistra e la strinse violentemente:
«Sangue condannato sgorga dall'anfora del Cronide.
Due anime mutilate su cui si scaglia
il flagello più grande:
l'odio e l'indifferenza sovrani del precondio di uno,
obbligano l'altro a perire.
L'ultima carezza verrà offerta al declino
dell'astro più grande,
mentre Chione fa spazio alla stagione dai molti fiori.»
Poi scomparve in una nube di fumo grigio. Una lacrima solcò il mio viso e tutto finì. Mi risvegliai, con un forte mal di testa e un'emozione travolgente pervadeva i miei pensieri.
Tuttavia, pensai che fosse una strana coincidenza quando, la sera del venti marzo, io e Charlie facemmo l'amore per l'ultima volta. Mi ricordo ancora ogni singolo dettaglio. Forse perché, dentro di me, sapevo che quella sarebbe stata l'ultima volta in cui avrei potuto stringerlo tra le mie braccia, in cui sarebbe stato mio, completamente devoto alla mia essenza. Forse per quello, quando si addormentò, con il viso celestiale sul mio petto, la tristezza prese il sopravvento.
La mattina dell' equinozio di primavera fummo richiamati dai miei genitori sul divano del mio salotto, e lì ci attese il diavolo in persona, pronto ad accogliere le nostre anime all'inferno, quando sarebbe stata ora. Se ne stava lì, su un pezzo di carta, a dichiarare la consanguineità dei nostri corpi.
E se fosse tutto solo un brutto sogno?
La mia vita procedeva allo stesso modo, ma l'unica differenza è che non provavo più nulla. Mi alzavo, studiavo, andavo all'auditorium, dormivo. Completamente lobotomizzato, ero costretto a vedere l'amore della mia vita camminarmi di fronte, sedermi a fianco, ma con il cuore che mi dava le spalle.
«Non è che puoi prestarmi la tua pece, per favore?» Gli chiesi. Charlie sussultò, evidentemente non si aspettava che gli avrei rivolto la parola, considerato che erano ormai due settimane che vi avevo rinunciato.
Non si voltò nemmeno.
Allungò la sua esile mano destra verso il leggio e afferrò la pece. Rimasi deluso, con la mano a coppa , per ricevere la sua pece, nel vedere che la poggiò, un po' impacciato, al bordo della mia sedia. Alzai lo sguardo colmo di lacrime trattenute ,e sussurrai un «Grazie».
«Prego.»Rispose.
Fu l'ultima volta che ci parlammo. Mi trovai da un giorno all'altro con una testa riccia come la mia al mio fianco, in sostituzione di Charlie, che lasciò l'orchestra, e poi la città , nel giro di pochi giorni.
La sera dopo il nostro ultimo scambio di parole, rientrai a casa con un messaggio di un mio caro, carissimo amico sul telefono. "Sta andando via." E in quel momento mi resi conto che avrei potuto partecipare ai campionati di atletica del mio paese, per quanto veloce corsi verso casa sua. Le nostre case distavano pochi isolati l'una dall'altra, ma si trattava comunque di un paio di chilometri. Li percorsi in meno di venti minuti.
Fui li, quando Charlie salutava i suo genitori adottivi per l'ultima volta.
Fui li quando Charlie chiudeva la porta di casa, e trovava il mio sguardo supplichevole di restare.
Rimasi impalato sul vialetto della sua abitazione,mentre lui percorreva il sentiero di piastrelle bianche con passo svelto, e dietro le sue valigie.
«Charlie, ti prego...» Sussurrai. Allungai un braccio verso di lui ma quest'ultimo nemmeno mi rivolse uno sguardo. Lo osservai , in preda alla disperazione, riporre i bagagli nel taxi, aiutato dal tassista stesso. Ma non mi guardava.
Lo vidi aprire la portiera, e fu in quel momento che capii che c'era un'ultima cosa che mi restava da fare. Dovevo tentare.
Mi mossi, dopo quelli che mi sembrarono secondi infiniti, e in tre passi fui davanti a lui. Charlie si girò di fretta, confuso, pronto a dire qualcosa, ma non gli permisi di farlo, perchè lo baciai.
Poggiai le mie labbra sulle sue in maniera disperata, sofferente, con le mani che gli afferravano le guance, per paura che scappasse.
Fu un bacio doloroso, tormentato, amaro.
Charlie non ricambiò. Non osò muoversi, anzi. Sentii solo la sua mano poggiarsi sul mio petto, provocandomi un brivido, e spingermi via. Le mie labbra arrossate si allontanarono dalle sue, per quella che sarebbe stata l'ultima volta, ma il mio cervello non aveva ancora elaborato questa angosciante informazione. Gli rivolsi uno sguardo pieno di strazio, con gli occhi colmi di lacrime.
«Non possiamo.» Mi guardò un'ultima volta, come a fotografare la mia immagine nella sua mente, per non dimenticarmi mai. Ma l'avrebbe fatto.
Salì in auto e chiuse la portiera, assicurandosi che il suo sguardo fosse ben puntato sulle sue scarpe, mentre comunicava la destinazione al tassista.
Mai più l'avrei rivisto.
Mai più sarei stato felice.
Mai più avrei vissuto.
La sera del quindici giugno l'orchestra junior di Londra si esibí in concerto come da programma.
Il direttore, Romeo De Luca, un ex oboista dell'orchestra della generazione precedente, aveva preparato per mesi lo schiaccianoci, che l'orchestra avrebbe avuto l'onore di suonare in accompagnamento al balletto.
Io e Charlie eravamo elettrizzati, per tutti i mesi precedenti, all'idea di accompagnare uno spettacolo di tale calibro.
Quella fu la prima sera in cui suonai come primo violoncello.
Il mio corpo era un cocktail di emozioni di ogni genere: ansia, felicità, paura , gioia e terrore. Un momento che avrei ricordato per sempre, e che avrei voluto condividere con l'unica persona che in realtà mi trovavo a sostituire e con la presenza della quale non sarebbe avvenuto.
Charlie era l'unico che avrebbe capito cosa significasse, per me, dirigere l'ala dei grandi archi per la prima volta e esprimere a gran voce la mia devozione alla musica. Eppure, se lui fosse stato ancora lí, non avrei mai potuto godere di quel momento.
Mi mancava.
Mi mancava tremendamente tanto e il mio corpo bruciava di dolore. Se avesse potuto, il mio cuore sarebbe esploso, ogni vena, arteria, capillare del mio corpo sarebbe scoppiato, lasciandomi dissanguare. Forse, ma dico forse, sarebbe stato l'unico modo per alleviare la mia sofferenza.
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