11. Caffè e Bugie




Mi agito nel letto in maniera esagerata, sento il sudore imperlarmi la fronte e il collo. Stringo tra le dita una porzione di cuscino.
Sto camminando, nel buio totale, non ho idea di dove stia andando né dove stia mettendo i piedi. Di colpo lo stomaco mi si stringe violentemente, provocandomi un senso di nausea che cerco di scacciare. Mi avvolgo l'addome con un braccio.


Continuo a camminare: sinceramente, non so perché lo sto facendo.


Nessuno mi costringe, ma so che devo farlo.


Mi guardo, preso da un impulso improvviso, le mani, coperte da dei guanti neri di pelle. Mi avvolgono le dita perfettamente, sono il paio di guanti più belli che abbia mai visto. Mi prudono i palmi.

Improvvisamente mi sento cadere. Cado, cado ancora, non tocco mai il fondo. Intorno a me è tutto così scuro che sono terrorizzato, e soprattutto, sono da solo. Non riesco a svegliarmi.

E senza che me ne accorga sono in piedi, su un pavimento di mattonelle, gelido, grigio, incolore e senza emozioni. Le mie mani sono guantate ma il freddo mi entra nelle vene, congelandomi il sangue. L'unica cosa calda che sento sono le mie stesse lacrime scendermi lungo le guance. Le scaccio via, o almeno, ci provo, perché sembrano scendere incontrollabili, non vogliono smettere.
Mi accuccio per terra, avverto un muro ghiacciato alle mie spalle. Mi ci appoggio, portando le ginocchia al petto e nascondendo il viso tra di esse. I miei singhiozzi rimbombano nel vuoto.

«Sono qui, scoiattolino.» Le mie orecchie si aguzzano come quelle di un ghepardo in cerca della preda. Alzò lo sguardo di scatto ma non vedo niente. Devo aver sentito male.
«Edward, sono qui.» Sento ancora. Davanti a me, Charlie mi guarda, accucciato sul pavimento: mi tende le mani.

Lo guardo sorridente e con le lacrime agli occhi, afferro le sue piccole mani con una sola mia, e stringo forte.
«Mi manchi. Tutta questa solitudine non mi sta facendo bene, Charlie. Sono serio. Sta diventando tutto così oscuro, qui dentro.» Gli parlo con voce flebile e sottile, a malapena le mie corde vocali sembrano funzionare. Lo guardo speranzoso che possa aiutarmi. Lui deve aiutarmi. Devo uscire da questo vortice che mi spaventa fin troppo. Ho così tanta paura da non voler nemmeno guardare fuori.

«Ce la farai.» Mi dice soltanto. È seduto di fronte a me, ma ho la sensazione che sia così lontano.

«No! Non capisci. Charlie, sto soffocando. I miei stessi pensieri mi stanno trascinando giù e prima o poi...affogherò.»

Charlie si alza, lascia la mia mano e si allontana, continuando a guardarmi.

*

Aprile, 2017

Edward.

Il fine settimana di Pasqua si era ormai allontanato. Le prove avevano continuato ininterrottamente per giorni: le parti erano state assegnate, i ruoli decisi, nuovamente, e le prime melodie si erano sollevate delicate nella sala prove. Quel giovedì sera giungeva a conclusione, così come la sessione prove di quel giorno, e desideravo incredibilmente avvolgermi intorno alle coperte del mio letto con un'intera vaschetta di gelato alla nocciola e una saga cinematografica da divorarmi al buio. Poggiai il mio strumento in bilico sulla sedia, sistemai gli spartiti tra loro e li infilai distrattamente sotto il collo del violoncello, in modo che rimanessero fermi e fossero in un qualche modo per me in ordine mi facessero sentire più "pronto" ad andare via.

L'ultimo fine settimana era stato struggente e avevo passato i giorni successivi a rimuginare su quanto successo e ciò che Charlie mi avesse detto. Mi manchi. Credo.

Da un alto mi sentivo oppresso da me stesso, in una maniera strana e ossessiva. Avrei voluto dirgli che anche a me mancava ed ero contento di vederlo, di sederci di fronte e mangiare insieme. Ma non era veramente così. Non mi mancava per niente e doverlo sopportare per due ore in più rispetto a quanto già non facessi giorno dopo giorno non mi aveva fatto piacere. Dall'altro lato ero furioso perché sentivo come se avesse detto quella frase per smuovere qualcosa in me, perché sapeva che volessi sentirmelo dire. Era come se lo avesse detto per farmi contento. Per ricordarmi che dopotutto è sempre Charlie, lo stesso di cinque anni fa, lo stesso di quando l'ho conosciuto, e che il suo cuore funziona allo stesso modo di allora.

Impossibile. Sarà rimasto a corto di parole e avrà detto la prima cosa che gli è saltata in mente. Tipico dell'essere umano, dopotutto, riempire vuoti di silenzio imbarazzanti con dichiarazioni non sentite o frasi inopportune. Perché Charlie avrebbe dovuto essere diverso, infatti.

Con le mani in tasca, mi diressi verso il distributore automatico del caffè, cioccolate e thè caldi, inserendo il denaro necessario e premendo il tasto della bevanda al caffè. Errore. Sentii i soldi scivolare verso il canale che erogava il resto. Sbuffai; inserii nuovamente la moneta, con più forza, perché in qualche angolo remoto della mia testa questo avrebbe favorito il corretto funzionamento della macchina, premendo una seconda volta il tasto della bevanda. Errore. Questa volta il mio tentativo di aggiustare il distributore consistette nel tirare un calcio alla macchina, invano. Che poi non era nemmeno buona e non si meritava tutto quel tempo da parte mia. Né i miei soldi. Ecco, appunto. Infilai le dita nel canale, del resto, trovandolo vuoto.

«Ti ha mangiato i soldi, non è così?» Charlie Davis era la persona che avevo meno voglia di sentire, quella sera. O sempre.

Tirai su un sorriso di circostanza, ammettendo che si, la stupida macchina del cazzo mi aveva mangiato i soldi. E non avevo caffeina da ingerire. Ed ero parecchio innervosito.

Davis mi mostrò una moneta e la inserì nella macchinetta a fianco, premendo il tasto del caffè lungo.

«Non bevo più caffè lungo, in realtà.» Gli dissi acido. «Non ho mai detto fosse per te, infatti.» Rimasi sbigottito. Charlie odiava il caffè. Aveva sempre preferito il thè. Perciò o era diventato stranamente gentile e mi stava offrendo un caffè, oppure aveva avuto un cambio radicale e da quel giorno beveva teina sotto un altro nome.

Mormorai un "ok" sconsolato, arreso al fatto di aver perso i miei soldi e il mio caffè, che avrebbe sicuramente aiutato il mio umore stanco prima di tornare a casa. Gli voltai le spalle e mi diressi nuovamente verso la sala prove, con le mani in tasca. «Edward! Aspetta.». Chiamò. È ovvio che è per te. Io odio il caffè.» Sorrisi di nascosto. Dentro di me mi sentii sollevato: un po' per il gesto. Ma, soprattutto, per il caffè che finalmente ero riuscito ad avere.

«Non dovevi.» Dissi soltanto, afferrando con cautela la tazzina di cartone che le sue mani piccole mi porgevano gentilmente. Aveva sempre avuto delle mani bellissime. Le sue dita erano delicate, affusolate, pulite. Molto più piccole delle mie, che, nel prendere la bevanda, sfiorarono distrattamente il suo indice e il suo medio, provocandomi un brivido gelido lungo tutta la schiena. Il liquido all'interno della tazza tremò lieve, e velocizzai lo scambio in maniera da ritirare il mio braccio il più in fretta possibile.

«Non mi costa nulla.» E poi di nuovo silenzio. Capii che avrebbe fatto la mia stessa strada fino alla sala prove, ma sarebbe comunque rimasto in silenzio ad aspettare che fossi io a parlare per primo, cosa che non avrei fatto. Mi fermai fuori dalla stanza, appoggiando la schiena sul muro perimetrale e godendomi, all'aperto, la presenza illusoria della caffeina all'interno di quella tazza di carta che trasmetteva calore rovente alle mie mani. Charlie si piazzò di fronte a me, con le braccia conserte, mentre giocherellava con un sassolino per terra, come in attesa di sapere se la bevanda da lui offerta fosse di mio gradimento. Sorseggiai il caffè, impegnandomi a cercare con le prime papille gustative le tracce nascoste di caffeina, disperato, come in astinenza.

È buono?» Mi domandò curioso. Non so perché fosse così interessato a me, quel giorno, ma la cosa mi faceva sorridere. Con la tazza a nascondermi metà del viso, lo guardai con occhi sereni, anticipandogli la mia risposta, prima ancora di poter rispondere a voce. «Non è male, dai.» Gli risposi.

«Come vanno le prove? Ti stai trovando bene con questo arrangiamento?» Chiese di fretta. Fu così veloce nel parlare che a malapena lo capii. «Si, non mi dispiace. A te?»

«Si, naturalmente. Anche se avrei una proposta da farti.» Disse. Si infilò le mani in tasca, continuando a dondolare il piede sopra quel sassolino. Stava diventando un po' fastidioso. Distolsi lo sguardo dal suo piede, portando gli occhi sui suoi, aspettando che spiegasse la proposta di cui aveva parlato. «Hai da fare? Dopo? Ovviamente se hai altri impegni non fa niente, potremmo fare un altro giorno, sempre se vuoi, certo, non è mica un obbligo...» Charlie Davis, impacciato, mi stava cercando di chiedere qualcosa di personale? Ero divertito. Assai. Sembrava così imbarazzato che aveva puntato lo sguardo sui suoi piedi, e cercava di scorgere il mio volto dal basso. No, non avevo impegni. O almeno, se non si considerava alla maratona di Harry Potter a casa, sotto le coperte, un impegno, non avevo niente da fare. Però cazzo, la mia serata cinema sotto le coperte. Audace, da parte mia, rinunciare a una serata di ricarica per un'improbabile ora o due con Charlie.

«No, non devo fare niente. Perché?» Non so perché, ma il mio cuore batté più velocemente in quel momento, speranzoso che dalle sue labbra uscisse qualcosa che avrebbe soddisfatto le mie aspettative. «Ti va di trattenerci qui? Giusto un'ora; volevo provare una parte particolare dell'Allegro Moderato con il primo violoncello, se non ti dispiace.» Ok. Non era quello che mi aspettavo. Valutai nella mia testa se effettivamente valesse la pena rinunciare al gelato alla nocciola per questo, ma ormai avevo già detto di non avere impegni; quindi, non avrei potuto inventarmi una scusa dell'ultimo secondo nemmeno se avessi voluto.

«Fantastico! Voglio dire... d'accordo, allora ti aspetto dentro, come finisci il caffè raggiungimi.» Mi avvisò, forse un po' troppo entusiasta per i suoi gusti, ma andava bene così. Annuii in risposta e mi impegnai a finire il caffè che, bollente, scivolò giù per la mia gola svelto, e rientrai in sala prove.

Charlie, sul palco, mi aspettava concentrato sui suoi spartiti, appuntando di qua e là piccoli segnetti e note con la matita che teneva nella mano destra, mentre con l'altra sorreggeva il violino e l'archetto verticalmente. Mi guardai intorno, le sedie si stavano svuotando, Fey mi lanciò uno sguardo dolce: mi aspettava per andare via. Cazzo! Dovevo avvisarla che mi sarei trattenuto di più. Salii velocemente sul palco, raggiungendola. «Non torno con te, scusa.»

Lei mi guardò confusa, e un po' preoccupata, «perché?» Domandò inquisitoria. Sorrisi. «Io...ehm, Charlie mi ha chiesto... di provare insieme. Rimango un po' qui.» Annunciai. Il suo voltò si aprì in un sorriso smagliante, ma tornò seria dopo poco, senza darlo a vedere. «Hai problemi per il ritorno? Posso sempre portarti a casa e tornare, o dire di no semplicemente... non voglio che torni da sola a quest'ora»

Mi accarezzò un braccio sorridente: «Cucciolo non c'è problema, vado con Vicky, facciamo la stessa strada. Tu stai qui.» Mi avvisò. Sospirai, accondiscendente, ma la avvisai di chiamare come fosse arrivata a casa. La salutai e mi diressi verso la mia postazione, afferrando il violoncello per il collo e liberando i miei spartiti dalla sua presa. Alzai gli occhi al cielo al pensiero di aver scelto di rimanere un'ora in più: ma chi me lo aveva fatto fare? A quell'ora sarei già in auto per accompagnare Freya e poi a casa.

E invece ero ancora seduto lì, con lo strumento tra le gambe, che fissavo Charlie di fronte a me. Dio, sembrava di tornare indietro nel tempo. Noi due da soli in sala prove fino a tardi.

Una volta passavamo le ore qui dentro a baciarci di nascosto.

Ora potevo permettermi di guardarlo da lontano senza che se ne accorgesse.

«Allora, cominciamo?» Fu lui a rompere il silenzio. Mi schiarii la voce e mormorai un sì.

«Va bene se iniziamo dalla battuta 45?» Propose. E io acconsentii.

Si avvicinò alla mia postazione, portando con sé il proprio leggio e lo strumento. Era precisamente di fronte a me, come il giorno in cui abbiamo suonato il capriccio di Paganini, ma più vicino. Così vicino che potevo sentire il rumore del suo respiro, il suo profumo, potevo vedere le lievi sfumature dei suoi occhi.

Sentire il suo violino cantare armoniosamente mi riportò alla realtà, accompagnando le sue note con le mie, poco prima che iniziasse il suo assolo.

La mia presenza in quella stanza si faceva via via più superflua; Charlie e il suo violino non avevano bisogno di nessun altro, e loro due bastavano a riempire l'anima di quell'ambiente. Il suo strumento aveva un'ottima resa musicale, sicuramente doveva essergli costato una fortuna, ma erano le dita a fare tutto il lavoro. Come l'avevo già visto fare in precedenza, lasciava che si muovessero da sole, sembrava avessero una vita propria, seguivano una diteggiatura non tanto tradizionale, più inusuale, e a parer mio, scomoda.

Il mio violoncello cantava silenzioso un accompagnamento secondario che, se in quel momento si sentiva leggermente più del normale, insieme a tutta l'orchestra forse sarebbe stato il meno rumoroso. Mi domandai il motivo per cui Charlie mi avesse trattenuto qui. Non sembrava avere nessun problema, anzi. Addirittura, pensai mi volesse far vedere quanto fosse bravo. Non che lo avessi sentito provare molte volte, in realtà: dopo Pasqua, così come prima, frequentava le prove poco e niente, e quando si presentava passava le intere prove a sentire le parti degli altri e correggere la maggior parte di noi, Ray incluso.

«Non è vero.» Annunciò d'improvviso. Si fermò senza ombra d'avviso, tenendo ancora il suo strumento nell'incavo del collo.

Lo guardai confuso, alzando un sopracciglio e poggiando la punta dell'archetto sul ginocchio. «Non è vero che non sapevo suonassi allo Chat Noir. Lo sapevo eccome.» Continuavo a non capire perché me lo stesse dicendo. Aveva detto una bugia, ok, era un po' fastidiosa come cosa, ma cosa c'entrava in quel momento? Poggiai definitivamente l'archetto sul bordo del leggio, vedendo che lui faceva lo stesso con il suo.

«Ero già venuto al locale, all'inizio del mese scorso. Non avevo detto a nessuno di essere già arrivato. Volevo godermi Londra nei primi giorni di pace prima di iniziare a lavorare. E volevo vedere come stessi.»

Oddio! Pensai. Non ero pazzo. Non mi ero sognato quegli occhi. Non ero ubriaco. Charlie era davvero venuto a inizio marzo allo Chat.

«Perché me lo stai dicendo?» Domandai. Aveva risolto i miei dubbi esistenziali, ma non capivo lo stesso il motivo della sua confessione.

«So che mi hai visto. E volevo sapere se anche tu...niente, lascia stare.» Rimasi sbigottito, con le braccia aperte. Il mio cervello andava a fuoco per la troppa confusione. Era tardi per cercare di capire Charlie e i suoi misteri.

«Io cosa?»

«Se anche tu avessi provato lo stesso che ho provato io.» Corrucciai lo sguardo. Cosa significava? Le  mie mani strusciavano sulle ginocchia per il forte prurito che mi stavano provocando, i miei occhi seguivano i suoi movimenti in ogni piccola mossa, cercando di estrapolare dal suo corpo la risposta alla mia domanda.

Charlie si avvicinò di un passo verso di me, e lì sentii il mio cuore iniziare a tremare e il mio stomaco a rivoltarsi involontariamente. Non volevo che queste emozioni ritornassero a galla; non sapevo nemmeno se esistessero ancora. Credevo, anzi, ero più che convinto di averle represse così in fondo da averle fatte morire dentro di me.

E proprio quando lo vidi schiudere le labbra per parlare, si ritrasse immediatamente, imbracciando di nuovo lo strumento e facendo cadere su di lui un'espressione seria.

«Riprendiamo?» Mi disse. Io rimasi più che confuso per qualche secondo. Era impossibile decifrare quell'uomo. Così tanto da crearmi un importante fastidio in sostituzione alle emozioni precedenti.

Sbuffai sonoramente, senza preoccuparmi di risultare indiscreto. Speravo mi avesse sentito e avesse percepito il mio fastidio, nonostante fosse abbastanza palese.

Riprendemmo a suonare per una successiva mezz'ora, senza pause. Le mie orecchie tremavano di piacere nell'avere l'onore di ascoltare le note di Charlie. Era miracolosamente bravo al violino e per qualche attimo mi sentii, senza motivo, come pentito di non essermi goduto di più l'altra mattinata, quando avevamo suonato insieme il Capriccio di Paganini. Condividere questo genere di momenti aveva riportato in vita ricordi che non sapevo di avere ancora. Come se il mio cervello li tenesse nascosti in qualche cassetto, per le evenienze.

Guardare le sue dita muoversi velocemente in quei minuti infiniti di assolo era un'esperienza da mozzare il fiato. Avrei sognato quelle dita la notte e per mille ancora. Le sue sopracciglia si volgevano in uno sguardo concentrato, insieme agli occhi chiusi delicatamente, non strizzati, perché le sue note uscivano quasi come se le dita sapessero a memoria ogni posizione, ogni minimo spostamento e movimento, e Charlie non doveva nemmeno sforzarsi per ricordarsi se la nota successiva avrebbe dovuto essere un là, un sì o un fa diesis.

Un'idea mi balenò tra i pensieri confusi del mio cervello e si fece strada verso il mio lobo frontale, pulsandomi come un punto esclamativo rosso fuoco, in attesa di essere notato.

Quando fermammo la musica fu per finire definitivamente quella sessione di prove. Tirai un sospiro di sollievo, felice di andare a casa e riposare, finalmente. Ma da un lato un sottile velo di tristezza si levò nell'aria: sarei dovuto andare a casa. Da solo. E Louis sarebbe tornato a casa sua. Da Isobel.

«Fai qualcosa domani?» Il mio corpo decise che avrei parlato prima ancora che pensassi a cosa dire. Charlie si voltò di scatto spaventato, forse avevo urlato un pochino. Se ne stava per le sue, tornato vicino alla sua sedia, infilando il suo strumento nella custodia nera di pelle.

«No, non ho ancora pianificato nulla.» Sorrise.

«Ah, bene.» Mi ritrovai in silenzio nuovamente, imbarazzato. Lo stavo invitando a uscire e nemmeno me ne stavo rendendo conto? Grandioso.

«Perché ti interessa cosa faccio questo venerdì, Edward?» Il mio nome nelle sue labbra sarà un suono che amerò per sempre. Lo devo ammettere. Mi alzai dalla sedia e poggiai il collo del violoncello, ritirando con fare piuttosto sbadato i miei spartiti.

«Io...emh, io e Freya... cioè, sabato suoniamo allo Chat, e domani pomeriggio ci vediamo lì per provare. Volevo sapere se ti andasse di ... venire, intendo, suonare con noi... con me, magari. Sarebbe divertente, ecco. O solo venire a vederci, non saprei. Se non hai impegni ovviamente.» Chiusi gli occhi e mi portai una mano sul viso per il forte imbarazzo.

Charlie sorrise così tanto che potei vedergli tutti i denti. Il mio cuore fece una capriola. Ero nervosissimo. Avevo per la prima volta invitato qualcuno che non faceva parte della band allo Chat Noir. Nessuno sapeva di questo posto. Nessuno sapeva che io, Edward Cavendish, suonassi lì. E avevo appena invitato la persona di cui mi potevo fidare meno di tutte.

«Sarebbe un onore, per me. Ma io non faccio Jazz, Edward. Lo sai bene.» Mi canzonò con il violino in spalla, ormai sistemato all'interno della custodia. Annuii, chiudendo la cerniera della mia, sistemando poi le ultime cose prima di raggiungerlo per andare via.

«Non sei costretto a suonare. Solo se ti va. Porta il violino a prescindere.» Dissi.

Ci dirigemmo insieme verso la porta d'uscita, uno a fianco all'altro. «Comunque, non ho mai smesso di bere il caffè lungo. L'ho detto solo per darti fastidio.» Confessai.

«Oh, Edward, lo so perfettamente. Ti conosco.»



Sono tornata!!!!
Spero che i capitoli abbiano soddisfatto la lunghissima attesa che avete dovuto patire....

Ci vediamo al prossimo capitolo!

Lasciate una stellina se vi va

Sara

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