[2] Vecchiette strambe e una torta
Fissavo il mio riflesso da tempo, seduta su un mobiletto bianco di fronte allo specchio del bagno.
"Dannazione, Mia esci! Ho bisogno della doccia!" sbottò per l'ennesima volta Nicole.
Sospirai, facendo entrare da un'orecchio ed uscire dall'altro quel suono fastidioso, ed incominciai a sciacquarmi la faccia. L'acqua fredda mi rinfrescò e donò un po' di colorito alla mia pelle pallida.
"Mia, tutto bene?", udii la voce di mio padre.
"Sì!" risposi seccata.
Stefania sussurrò a mio padre: "Tesoro, ha solo bisogno di tempo".
Mi tolsi l'accappatoio, indossai la biancheria e mi infilai dei pantaloncini di jeans semplici ed una maglietta bianca. Mi legai i capelli in una coda ed uscii dal bagno.
"Tutto tuo", sorrisi a Nicole, che mi guardava infuriata con le braccia incrociate al petto.
Trotterellai giù per le scale, agguantai le mie scarpe ed urlai un: "Io esco!" prima di chiudermi la porta alle spalle.
Non avevo la più pallida idea di dove andare, lo sapevo ormai da quando erano sparite le casette a schiera, sostituite da alti alberi secolari. La brezza di sottobosco mi accarezzò gli arti nudi, facendomi venire la pelle d'oca e rizzando quei pochi peli scampati alla ceretta. Camminavo ormai da mezz'ora e ad una conclusione ero arrivata: non avevo certo preso la strada per il centro. Ma qualcosa in quel posto mi attirava.
Quando ormai ero intenta a girarmi sui tacchi e tornare indietro, intravidi un oggetto diverso dai soliti tronchi d'albero, che avevano dominato la visuale fino ad allora, un gigantesco cancello a due battenti si stagliava davanti ad una villa altrettanto enorme. Ero così catturata da quel ferro battuto nero, che mi avvicinai e lo sfiorai con le dita della mano, come per accertarne la consistenza dura e fredda. Ma appena il mio indice lo toccò, il cancello si aprì. Trasalii per lo spavento e feci due passi indietro. Chiunque ci fosse dentro, evidentemente si divertiva a far morire di paura i poveri sventurati che ammiravano la magione.
Ma la villa sembrava disabitata, aveva tutta l'aria di essere disabitata. Lo capii dall'edera che aveva impossessato tutta la facciata frontale e chissà il retro, dalle statue senza arti, dalla fontana al centro dello stradello, secca e piena di crepe, alle imposte cadenti sulle finestre e al cancello che si aprì quasi con dolore. La vegetazione all'interno era selvaggia e priva di ogni ordine, tuttavia c'era un albero che teneva ancora tutto il suo splendore.
Non so cosa mi spinse ad entrare, ma lo feci. Mi sentii minuscola, microscopica, intimorita dalla grandezza che mi circondava, ma allo stesso tempo attratta ed incuriosita.
Su internet non c'era niente a proposito di Cherrystone, solo il minimo indispensabile per obbligo, quindi non mi meravigliai di non sapere niente su questa villa. Naturalmente avevo fatto le mie ricerche, ma non avevo scoperto nulla, solo qualche foto della scuola e dei boschi. Non avevo approfondito più di tanto, ma qualcosa di così bello e antico l'avrei notato, se ci fosse stato.
Un leggero calore mi pizzicò il polpastrello dell'indice. Una bollicina di sangue si ergeva su di esso, lo portai alla bocca e lo leccai per pulirmi. Mi sentivo le gambe pensanti, come quando si torna a casa dopo un pomeriggio di compere sfrenate. Sospirando, sciolsi i miei capelli ancora umidi e mi andai a sedere sotto alla pianta. Non c'era un rumore, non un cinguettio, non uno scricchiolio, per questo, quando un ramoscello si spezzò, mi voltai di scatto.
"E' proprietà privata questa, ragazzina"
Una signora anziana era sbucata alle mie spalle e mi fissava con nessuna espressione in volto. Temetti che i miei capelli dal nero corvino fossero passati al bianco per lo spavento.
Riuscii a ritrovare la facoltà di parola, "Oh... Ehm, mi dispiace, esco subito...".
La signora scacciò la mia frase con un gesto della mano, "Oh, ma i proprietari non ci sono mai".
Mi girai ancora verso la casa, stavolta chiedendomi come fosse all'interno.
La signora mi sorrise, ma poi il sorriso svanì.
"E' meglio se vai"
"Per-"
"E' meglio se vai" ripeté.
Alzai lo sguardo verso il cielo, il sole stava sparendo dietro le cime di una montagna, e quando lo riabbassai la vecchietta non c'era più. Dei brividi mi attraversarono il corpo ed iniziai ad avviarmi verso il cancello, che si stava richiudendo, come a dirmi "se aspetto te, campa cavallo". Sentii lo sbattere dei battenti dietro le mie spalle e fui fuori. I rumori della foresta mi travolsero di nuovo, ma non c'era niente di rassicurante. Scricchiolii su scricchiolii.
Lanciai un ultimo sguardo alla villa ed iniziai a correre più veloce che potei, mentre mi immaginavo di vedere due occhi che mi fissavano dai fitti alberi ai lati. Lo sbattere delle suole piatte delle mie Converse era l'unico rumore che mi imponevo di ascoltare. Iniziai a rallentare solo quando superai le prime file di case e mi fermai solo sulla soglia della nostra. Entrai con l'affanno e mi sedetti sul divano con un tonfo.
"Per caso ti ha inseguita un cinghiale?" mi domandò deridente Nicole.
"Potrebbe..." risposi, tra un respiro e l'altro.
"Okay Mia, è il primo giorno, solo tuo ovviamente, è importante!" mi ripetei allo specchio guardandomi negli occhi.
"Look ribelle o da brava ragazza?" alzai un sopracciglio, mostrando i capi a me stessa.
Fermai la musica per un attimo, sentendo cosa aveva da dire Nicole: "Dannazione Mia, il bagno!".
"Sì, sì, arrivo" risposi annoiata.
Mi infilai un paio di jeans larghi ed un maglione sformato rosso, con il colletto e i polsini della camicia che spuntavano fuori. Mi raccolsi i capelli in un cucù sfatto e mi infilai gli occhiali sulla punta del naso.
"Tutto tuo, di nuovo" sorrisi e feci come per lanciarle delle chiavi.
Scesi da basso canticchiando, il che risultò strano anche a mio padre, oltre che a me stessa, che mi guardava stranito da sopra le pagine di un giornale.
"Buongiorno Mia" mi salutò.
Grugnii una risposta e lui si rilasso, riconoscendomi di nuovo, "Ah ecco".
Tirai fuori un cartone di latte e lo versai in una tazza verde. Il campanello suonò due volte, ma nessuno di noi due si mosse per andare ad aprire.
"Vado io, non scomodatevi" disse ironica Stefania, ancora in vestaglia.
Aprì la porta e una signora bassa e cicciottella fece capolino, tenendo una cesta fra le mani, seguita da suo marito e suo figlio, supposi.
"Omaggi di benvenuto! Siamo i vostri vicini!"
Durante le presentazioni, la mia attenzione venne catturata interamente dal cestino, stracolmo di cibo, che sventolò.
"Abbiamo qui una torta fatta in casa, la specialità di mia moglie, e una confettura all'albicocca" disse il signor Johnson.
"Mitico..." sussurrai fra me e me, già leccandomi i baffi.
Stefania accettò ringraziando il regalo e lo poggiò sul tavolo.
"Favorite pure" disse la signora Johnson con un sorriso, vedendomi intenta a far colazione.
Presi una fetta del dolce, che emanava un leggero profumo di mela e cannella, era ancora calda. Nel momento in cui le mie papille gustative toccarono la pasta sfoglia, esplosero.
"Questa torta è deliziosa, signora Johnson" dissi tra un boccone e l'altro.
Ridacchiò, arrossendo un po' sotto al fard, "Oh, chiamami pure Rose, cara...".
"Mia, mi chiamo Mia"
Sorrise e prese le spalle del giovane restato in disparte ad osservare, "Lui è mio figlio, John".
Cercai di coprire una risata con colpi di tosse ed osservai il ragazzo alto dai riccioli castani, le folte sopracciglia e gli occhi marroni, in tutto e per tutto suo padre, ecco a voi John Johnson.
A/A
Cosa ne pensate? Spero di non starvi annoiando a morte con questi capitoli corti e privi di azione, ma presto arriverà! (forse eheh)
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