Capitolo 3

Alan era certo che il viaggio di ritorno a casa sarebbe stato diverso rispetto a quello di quella stessa mattina. Era convinto che le ore che aveva dedicato nel pomeriggio allo studio della mappa della città, lo avrebbero reso più consapevole degli spazi, e che avrebbe saputo orientarsi anche da solo per le stradine tutte uguali della sua nuova cittadina. 

Si rese presto conto, però, che queste certezze erano errate.

Negli anni, aveva cercato di sviluppare il più possibile il suo spirito di osservazione e la sua memoria, entrambe caratteristiche che sul lavoro erano essenziali, ma che qui sembravano essere inutili. Il suo acume non poteva certo aiutarlo se le abitazioni che lo circondavano erano la fotocopia le une delle altre. Com'era possibile, poi? Ogni casa aveva solitamente un dettaglio che la distingueva da quella successiva. In ogni quartiere che aveva visitato in vita sua, anche in quelli con case gemelle, aveva sempre distinto una particolarità che potesse identificarle: una pianta in cortile, un roseto, un porticato, una bandiera, oppure una sedia a dondolo vicino alla porta d'ingresso...

Qui non c'era niente che potesse aiutarlo in tal senso.

La mappa che aveva studiato su carta sembrava essere di una semplicità disarmante, ma ora, a distanza di solo qualche isolato rispetto alla centrare, sull'auto di Derek, aveva perso il senso dell'orientamento. Forse la sua confusione mentale stava facendo brutti scherzi anche sulla propria concentrazione, ma ad Alan non sfuggì comunque la particolarità della situazione.

Di nuovo, per l'ennesima volta all'interno di quell'assurda giornata, un senso di panico iniziò a nascergli nel petto. Quest'emozione sentiva l'estrema necessità di potersi sfogare, di poter crescere e irradiarsi in ogni muscolo del corpo, di farlo urlare, di concedersi il lusso di esplodere... ma come per ogni altra emozione provata da Alan, dopo poco, finì per spegnersi, lasciando quest'ultimo sempre più confuso.

«Arrivati, amico. Ti passo a prendere domattina, stesso posto stessa ora» irruppe Derek, spezzando il silenzio che regnava nell'abitacolo.

Suo malgrado, Alan fece un cenno affermativo con il capo, prima di scendere dall'auto e salutare il nuovo collega rompi palle con la mano. Non riusciva proprio a farselo piacere.
A pelle, sapeva che c'era qualcosa in lui che gli faceva storcere lo stomaco. Probabilmente il tutto dipendeva dal fatto che si sentiva come uno scemo a cui serviva la baby sitter, e per lui, abituato a essere sempre indipendente, era inaccettabile.

Prima di entrare in casa, si fermò un momento a osservare le abitazioni a lui vicine: in quella affianco alla sua le luci erano accese, mentre nelle altre non c'era anima viva nei relativi cortili.
Eppure era una bella serata: il cielo era sgombro, il tramonto tingeva di un arancio brillante i cortili, non c'era nemmeno una folata di vento e la temperatura era gradevole. Con così tante case, era strano non scorgere qualcuno a spasso con il cane, o intento a fare jogging, o anche soltanto seduto in cortile a godersi la quiete di fine giornata all'aria aperta.

D'un tratto, scorse un uomo sulla sessantina. Era intento a potare il cespuglio del proprio giardino, lo stesso cespuglio posto esattamente nella stessa posizione e della stessa forma di tutte le altre soluzioni abitative. Si trovava a tre case di distanza rispetto alla propria, al lato opposto della strada. Indossava un cappello di paglia, nonostante non ce ne fosse necessità, e una maglietta di un bianco immacolato. Portava dei guanti beige e le cesoie con cui stava lavorando erano lunghe e affilate.

Alan decise di provare a fare un po' di conversazione, era ora di conoscere il vicinato.

«Salve» scandì a tono di voce alto mentre si avvicinava con passo spedito verso l'uomo.
«Mi scusi se la disturbo. Io e mia moglie ci siamo appena trasferiti e mi piacerebbe conoscere i vicini, noi abitiamo laggiù» aggiunse posizionandosi alle spalle dell'anziano signore, cercando di attirare la sua attenzione e fermandosi sul marciapiede che costeggiava il cortile di quest'ultimo.

L'uomo non accennò il minimo movimento, continuò imperterrito il proprio lavoro. 

Alan, interdetto, cercò di avvicinarsi nuovamente: forse il vecchio non aveva capito che stava parlando con lui.
Una volta entrato nel cortile, si affiancò all'individuo.
Stava per salutarlo nuovamente, ma si bloccò. Notò come il movimento delle cesoie fosse sempre lo stesso: era dannatamente ripetitivo; le lame fendevano l'aria nello stesso punto già potato più volte, andando a vuoto di continuo.

Alan stava per toccargli una spalla, voleva scuoterlo da quell'impasse, ma qualcosa negli occhi di quell'uomo lo fermò nuovamente... erano completamente spenti, vuoti. Sembrava un bambolotto, privo di coscienza, bloccato a ripetere sempre lo stesso movimento non conoscendone altri.

«Alan! Che fai lì?! Abbiamo ospiti! Sbrigati!»

La voce di Anna tagliò l'aria, richiamando l'attenzione di Alan su di essa. Era a braccia conserte sull'uscio di casa, in un vestitino nero aderente che la fasciava alla perfezione e che faceva risaltare il rosso naturale dei capelli, lasciati sciolti.

Si voltò nuovamente verso l'uomo, che non aveva accennato al benché minimo cambiamento. 

Per la prima volta in vita sua, Alan, fece ciò che non aveva mai fatto: non ascoltò il proprio istinto. Lasciò perdere, si voltò, e si avviò verso la propria abitazione, cercando di spegnere il campanello di allarme che cercava di risuonare nel proprio cervello.

***

«Tu devi essere il famoso Alan, Anna non la piantava di parlare di te!» dichiarò una ragazza in un elegante abito rosso rubino.

Anna aveva invitato i vicini di casa a cena, e a quanto pareva, lui era in ritardo per l'aperitivo, cosa che non era sfuggita alla moglie, che lo stava squadrando dalla testa ai piedi con aria di rimprovero.

«Io sono Carol, è un piacere per noi accogliervi nel vicinato» aveva continuato la ragazza in questione, mentre con la mano accennava al proprio uomo di avvicinarsi.

La pelle color mogano della donna era perfettamente levigata, avrà avuto più o meno intorno ai venticinque anni, e il marito non era da meno. Alan non poté fare a meno di notare il tatuaggio di un serpente attorcigliato su se stesso, posto sul lato destro del collo della giovane. Che strano, pensò.
La ragazza sembrava molto fine nei modi e il suo aspetto era perfettamente curato. Gli orecchini e la collana di perle le davano un aspetto più maturo, la scarpa elegante, l'orologio che portava al polso... tutto in lei era raffinato, mentre qual tatuaggio era completamente fuori posto.

Per un attimo, gli sembrò di conoscere quel simbolo, ma non riuscì a concentrarsi a causa della mano del ragazzo, che si mosse verso di lui per le presentazioni di rito.

«Io sono Markus, è un piacere conoscerti» esclamò il ragazzo con un sorriso affabile in viso.

Si sedettero a tavola, Anna aveva apparecchiato con cura, facendo attenzione a soddisfare ogni minimo particolare. La tovaglia era di un bianco sgargiante ed era stirata alla perfezione; i piatti quadrati di un nero corvino erano ricamati agli angoli con intarsi bianchi floreali, le posate argentate erano perfettamente in ordine e pronte per svariate portate, i calici di vino erano sapientemente collocati e brillavano da tanto che erano stati lucidati.
Un bouquet di rose blu, poste al centro del tavolo in un elegante vaso di cristallo, impreziosiva ulteriormente il tutto.

Anna accennò un sorriso verso Alan, che non riuscì a ricambiare. Quest'ultimo si sentiva in trappola: avrebbe voluto parlare con lei, subito, da soli. Aveva troppe domande che gli frullavano in testa e questa cena anziché rilassarlo lo stava irritando.

«Allora, Alan, com'è andato il primo giorno in città? Ti sei già ambientato?» gli chiese Markus, mentre Anna iniziava a servire l'antipasto.

«È ancora presto per sentirmi a casa, ma ci sto lavorando» rispose con poco entusiasmo, mentre la moglie, nel riempire il suo piatto, gli sfiorò la spalla dolcemente.

«Sì, beh, Liberty all'inizio può confondere un po', ma ti assicuro che una volta ambientato non vorrai più andare via» affermò Markus, sorridendo affabilmente.

Alan non riuscì a trattenere il pensiero che quello, più che un augurio, sembrava una minaccia.
Passare il resto della propria vita in una cittadina dalle vie tutte uguali, con persone che gli sembravano estranee, pur vivendoci insieme, non lo faceva certo impazzire di gioia. Per non parlare del fatto che almeno uno dei loro vicini sembrava un pazzo suonato.

«In realtà, per ora, non è che mi entusiasmi molto vivere qui. In più odio il fatto di non sapermi orientare da solo. A proposito, voi come fate? Anna?», se quello era il suo primo giorno, lo stesso doveva valere per la moglie.
Eppure, lei era uscita da sola, quella mattina, prendendo le chiavi della propria auto e uscendo di casa con una sicurezza insolita, vista la situazione.

«Mi ci è voluto un mese intero per riuscire ad andare al lavoro da sola! Ma sai bene che io ho il senso di orientamento di un pesce, vedrai che tu farai meglio, tesoro» disse scherzando Anna, addentando un gamberetto.

Un mese? Erano lì da così tanto tempo? No... forse questo valeva solo per Anna, il ché spiegherebbe l'impostazione della frase della moglie, che continuò a parlare rivolta ai loro ospiti.
«Alan mi ha raggiunta soltanto ieri sera: stava lavorando a un caso terribile. Per fortuna siamo venuti via da New York, è diventata una città di una violenza allucinante!» concluse sorseggiando un bicchiere di vino bianco.

Quindi, per questioni lavorative, lui aveva raggiunto Anna solo successivamente... ma perché non riusciva a ricordare nulla?

«Ah, non me ne parlare guarda! Los Angeles non era da meno, ogni santo giorno vivevo nel terrore di essere rapinata o ammazzata! Per fortuna Markus è riuscito a trovare lavoro qui, non avrei resistito ancora a lungo in quel delirio» affermò Carol, sottolineando ogni singola parola con la propria mimica facciale che passava dallo sconvolto al sollevato.

Alan decise di cogliere la palla al balzo, e di investigare per carcare di capire meglio con chi aveva a che fare: «Di cosa ti occupi, Markus?» domandò provando a sembrare sciolto, quando in realtà si sentiva teso come una corda di violino.

«Mi occupo di impianti elettrici, e qui a Liberty c'è sempre bisogno di un manutentore. Essendo praticamente appena stata edificata, i problemi sono all'ordine del giorno» affermò pulendosi la bocca con il tovagliolo.

Alan voleva saperne di più, ma doveva stare attento alle parole che pronunciava: non voleva sembrare pazzo agli occhi dei vicini, cosa non così facile da ottenere visto che non ricordava nulla del passato recente, sul perché avesse scelto di traslocare in questo posto o sui dettagli della città.

«Da quanto vivete qui?» domandò Alan cercando di sembrare più interessato all'insalata nel suo piatto, piuttosto che ai propri interlocutori.

«Da tre mesi, non molto più di voi. La gente però è molto affabile, per cui ci hanno fatti sentire subito a nostro agio! Sono tutti così carini!» disse Carol sorridendo ad Anna, che sembrava già a proprio agio con questi perfetti sconosciuti.

Alan non riuscì a trattenere un sorrisetto amaro: se i vicini erano tutti affabili come l'uomo di prima con le cesoie, erano proprio a cavallo...

«Tesoro, perché sorridi? Abbiamo detto qualcosa di divertente?» lo rimproverò velatamente Anna, accavallando le gambe e puntandole verso la sua direzione, alla sua destra.

«In realtà, no... Stavo solo pensando che il vicino a poche case di distanza dalla nostra, mi è sembrato tutto, fuorché affabile» rispose alzando lo sguardo dal proprio piatto e puntandolo verso Carol, che lo stava fissando con un po' troppo interesse per i suoi gusti.

«Di chi parli?» chiese Markus, richiamando l'attenzione di Alan.

«Del signore anziano che abita qui di fronte, a qualche casa di distanza» disse Alan, sorseggiando il proprio vino e identificando un Merlot davvero piacevole al gusto.

«Ah, parli del vecchio Lannister. Non farci caso, è molto malato, non è sempre qui con la testa, ecco, non so se mi spiego» concluse Markus, mimando con il dito verso la tempia il gesto della follia e con un ghigno divertito che ad Alan non piacque per niente.

«E invece tu, Carol, di cosa ti occupi?» intervenne Anna, cambiando prontamente discorso.

«Oh, io insegno! Adoro il mio mestiere» affermò con entusiasmo mentre terminava di tamponare le labbra delicatamente con il tovagliolo, riponendolo poi sulle proprie ginocchia.

«Insegnante, eh. E a chi? Bambini o ragazzi?» domandò Alan curioso.
Carol non sembrava assolutamente un'insegnante. Se avesse dovuto indovinare il mestiere della donna di fronte a lui, come faceva un tempo per gioco con la madre, avrebbe clamorosamente fallito.

«Beh, ai ragazzi dai quattordici anni in poi, ovviamente!» rispose ridendo di gusto, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Alan si ritrovò con un'espressione interrogativa dipinta in viso, cosa che non passò inosservata agli occhi degli altri commensali.

Fu Anna a spezzare il silenzio, dando una risposta alla sua tacita domanda: «Tesoro, a Liberty non sono ammessi bambini...»

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