CAPITOLO 5 - Sfogati Chloe, ci sono io con te
Chloe
«Almeno stasera, potevi metterti un vestito.»
Il rimprovero di Kurt mi fa ridere.
«Chloe, smettila di ridere! È il tuo compleanno, accidenti!» Anche Hazel mi sgrida, ma non ho alcuna intenzione di dar loro retta. Stasera voglio solo divertirmi. Hanno ragione, è il mio compleanno e niente lo rovinerà.
«Kurt, pensa a guidare questo catorcio. Dylan ci sta già aspettando» gli ricordo, pensndo al messaggio che ha inviato cinque minuti fa.
«Il mio non è un catorcio e vedrai che Dylan sarà molto più elegante di te.» Kurt è fissato con la moda, al contrario di me, e Hazel gli dà sempre corda su questo punto.
Sospirando, mi sistemo sul sedile posteriore e mando un messaggio a Dylan in cerca di supporto.
Era meglio se passavi tu a prendermi
Adoro i miei amici, ma stasera sembrano decisi a farmi impazzire.
Chi, Kurt o Hazel?
Scoppio a ridere leggendo la sua risposta; sicuramente immagina già che uno dei due mi stia facendo la ramanzina.
Entrambi.
Hanno organizzato tutto loro, non so cosa aspettarmi. Spero solo che non serva davvero un abito elegante. È il mio compleanno, sì, ma tutto ciò che desidero è una serata tranquilla.
Kurt si lamenta che sono di poca compagnia mentre parcheggia. Il telefono vibra ancora, ma ormai siamo arrivati. Sicuramente è Dylan e infatti lo vedo già al nostro tavolo. Alza lo sguardo appena entro, come se avesse percepito la mia presenza, e il sorriso che gli illumina il volto mi fa scoppiare il cuore. Amo quel sorriso, specialmente se sono io la causa. Lo raggiungo seguita dai miei amici e sul tavolo ci sono già quattro bicchieri pieni.
Ci sediamo e non riesco a smettere di guardarlo. Stasera sembra ancora più affascinante, con i capelli tirati all'indietro, la barba appena accennata e quello sguardo che sembra vedere solo me. Sì, ho fatto la scelta giusta. È la scelta giusta quando mi guarda, quando mi sorride, quando mi sprona a essere migliore, quando parla di futuro. Lo è anche ora che mi tiene la mano e sono più felice di quanto pensassi possibile.
«Ragazzi, questi sono offerti dalla casa» annuncia Ryan, posando altri quattro bicchieri sul tavolo. Poi mi guarda con aria affettuosa. «Ma non credere che vi permetterò di esagerare solo perché è il tuo compleanno.» Si avvicina, mi dà un bacio sulla fronte e torna al bancone sorridendo. Ryan non è un barista qualunque; è un amico.
La serata procede alla grande. Rido come non facevo da tanto tempo e sono grata di aver lasciato che fossero loro a organizzare. Mi sto godendo ogni istante. Dal piano bar inizia a suonare una canzone che conosco bene. È la mia preferita e so che Ryan l'ha scelta per me. Le guance mi si scaldano: sa che mi rende felice.
Non potrei desiderare amici migliori. Questa serata è speciale, e so che la ricorderò per sempre.
«Vieni con me.» Dylan mi stringe la mano e mi tira su, portandomi verso il piccolo palco dove Emma e Ryan stavano suonando fino a poco fa. Realizzo cosa sta per fare e pianto i piedi come una bambina testarda.
«No.» Lo guardo seria. «Non lo farò.» Ma lui sorride con aria furba e continua a trascinarmi.
«Lo faremo, insieme. Ti voglio al mio fianco.» Siamo ormai arrivati al microfono. Dylan seleziona con cura il brano e, quando la musica parte, mi riprende la mano. In quel momento, tutto sparisce: siamo solo noi.
So lately, been wondering
Who will be there to take my place.
When I'm gone, you'll need love
To light the shadows on your face.
Il respiro mi manca e sento gli occhi velarsi di lacrime. Dylan non smette un attimo di guardarmi e mi sento su un altro pianeta. Non riesco neanche a concepire una vita senza di lui.
If I could, then I would,
I'll go wherever you will go,
Way up high or down low,
I'll go wherever you will go.
La sua voce riempie il locale, arriva dritta al cuore, facendomi tremare.
And maybe, I'll find out
A way to make it back someday,
To watch you, to guide you
Through the darkest of your days.
Non so per quanto resisterò. Gli stringo la mano destra mentre con la sinistra mi copro la bocca, sperando che trattenga il pianto. Ma sembra inutile: le lacrime sono pronte a scendere.
My life and love might still go on.
In your heart, in your mind,
I'll stay with you for all of time.
Mi alzo di scatto, ritrovandomi nel mio letto, sudata e con il cuore che batte troppo forte. Sto piangendo, singhiozzando senza controllo. La porta si spalanca e Rebekah entra di corsa, sedendosi accanto a me, con lo sguardo pieno di preoccupazione.
«Chloe, che succede?» Chiede ansiosa, ma non riesco a rispondere. Le lacrime scorrono senza tregua. «Vado a prenderti dell'acqua.» Si alza in fretta e resto a fissare il vuoto, ancora sconvolta dalle immagini di quella sera che mi scorrono davanti senza sosta.
Rebekah rientra, muovendosi con cautela e senza mai smettere di guardarmi. Posa il bicchiere sul comodino e mi stringe forte. È allora che il pianto esplode davvero, un'ondata di disperazione che non riesco più a trattenere. Mi abbandono tra le sue braccia, mentre lei mi accarezza dolcemente la testa.
«Sfogati, Chloe, ci sono io con te.» Le sue parole calde accompagnano le mie lacrime, che continuano a scendere, inarrestabili. Non so per quanto tempo resto così, ma dev'essere tanto, perché quando riapro gli occhi, sono sola. Il bicchiere d'acqua è ancora sul comodino e accanto a esso trovo un biglietto appoggiato con cura.
Sono andata al lavoro, chiamami quando ti svegli.
Devo averla fatta spaventare, stanotte. Quel sogno sembrava così reale: rivedevo tutto, le risate dei miei amici, la voce di Ryan che cantava e soprattutto la presenza di Dylan accanto a me. Il mio Dylan. Mi strofino il viso, ancora sdraiata a pancia in su, cercando di riprendermi. Guardo il cellulare: sono le 8:27. Forse è meglio aspettare ancora un po' prima di chiamare Rebekah.
Mi metto in piedi e la stanchezza mi colpisce all'improvviso. Trascino i piedi fino al bagno, dove uno sguardo allo specchio mi rivela occhi gonfi e stanchi. Devo essermi addormentata piangendo, perché non ricordo quando mia sorella se n'è andata. È la prima volta che mi lascio andare in quel modo. Mi appoggio al lavandino e rimango così, fissando il vuoto e ripensando al sogno.
La catenina che porto al collo penzola davanti a me. Forse, se non fosse stato per il mio compleanno, Dylan sarebbe ancora qui. Non sognavo di lui da tanto, ma forse è apparso di nuovo a causa di Dylan numero due: stesso nome, stessa presenza familiare. E mi chiedo se sia uno scherzo del destino o forse davvero un segno. Come diceva quella canzone lui resterà con me.
Una lacrima mi sfugge ancora e la fermo lavandomi il viso con l'acqua fredda per frenare un'altra crisi di pianto. Non posso cedere. Ho un colloquio tra poco e voglio arrivarci nel modo migliore possibile. Mi lavo e mi vesto con attenzione, poi scendo in cucina per un caffè, decisa a mangiare qualcosa per strada. Al momento non riuscirei a mandare giù niente.
Recupero la borsa, il cellulare e le chiavi, ed esco. Prendo la metro, anche se sono solo due fermate, perché non voglio rischiare di arrivare in ritardo. Ho bisogno di questo lavoro e oggi non posso permettermi passi falsi.
Arrivata, mando un messaggio a mia sorella per avvisarla che la chiamerò quando avrò finito. Stringo la piccola catenina con il cigno al collo, poi entro nell'ufficio. Una signora dai capelli rossi mi indirizza verso una sala d'attesa piccola ed essenziale. Una libreria sulla destra, due sedie di fronte a una scrivania semplice, una finestra alle spalle e una pianta ornamentale che sembra finta. Non ho tempo di soffermarmi, perché un uomo in elegante completo grigio si alza per accogliermi.
«Buongiorno, signorina Stewart, sono Harvey Jones.» Mi porge la mano e ricambio la stretta, decisa e sicura. «Si accomodi.» Mi indica una delle sedie e si siede accanto a me, invece che dietro alla scrivania. Legge con attenzione quella che credo sia la mia scheda personale.
«Cosa l'ha spinta a scegliere la carriera di traduttrice?» domanda all'improvviso, con una curiosità genuina. La domanda mi coglie di sorpresa: in genere si comincia dai titoli di studio, non dalle motivazioni.
«Fin da bambina ho sempre amato le lingue. Chiedevo ai miei genitori di iscrivermi a corsi di lingua e quella passione è cresciuta con me. Tradurre è sembrata la scelta giusta per mettere in pratica tutto ciò che ho studiato.» Segue ogni parola con attenzione, accavallando le gambe e scrutandomi.
«E perché dovrei assumerla?»
Posa la cartellina sulla scrivania, concentrandosi su di me.
«Mi dia un incarico e le dimostrerò come so lavorare.» La mia risposta è ferma e sicura.
«¿Cómo trabaja usted bajo presión?» Mi fissa serio. Non so se rispondere in modo letterale o interpretare la sua domanda in modo più aperto, così mi viene un'idea.
«Arbeiten hart» rispondo con un sorriso accennato. Lui si alza, abbottonando il primo bottone della giacca, e mi guarda con un'espressione che nasconde, appena appena, un sorriso. Fa il giro della scrivania, prende un piccolo fascicolo e lo fa scivolare verso di me.
«Qui non si fanno prove, si lavora e basta. Questo è il suo primo incarico, lo voglio sulla mia scrivania entro una settimana.» Il tono è severo, ma c'è qualcosa di gentile nei suoi occhi. «E lasci i suoi recapiti alla mia segretaria.»
Prendo il fascicolo, lo ringrazio e lascio l'ufficio. Ho ottenuto il lavoro! Appena fuori, chiamo mia sorella sperando di non disturbarla.
«Ehi, ciao!» risponde subito, come se aspettasse la mia chiamata.
«Ciao.» Sento la preoccupazione nella sua voce.
«Com'è andato il colloquio?» Sorrido, anche se lei non può vedermi.
«Ho il mio primo lavoro di traduzione proprio nella borsa!» Dall'altro capo del telefono, un piccolo urlo di gioia.
«Chloe, è fantastico! Dobbiamo festeggiare.»
Non me la sento, ma so che dopo stanotte non posso dirle di no. Così, la lascio continuare.
«Passa da me per pranzo,» propone, e per un momento esito. So che se vado rischio di incontrare lui, ma se non ci vado, si preoccuperà ancora di più.
«A che ora?» Le parole escono da sole. Lei sorride, lo sento dalla sua voce.
«Tra un paio d'ore. Ci vediamo in ufficio.»
«D'accordo, faccio un giro e arrivo.» Chiude la chiamata entusiasta, mentre io cerco di passare il tempo senza troppi pensieri.
Trovo una panchina tranquilla, mi siedo e apro il fascicolo: si tratta di un libro per bambini, storie brevi con disegni. Un post-it sul retro della copertina dice di tradurre dall'inglese allo spagnolo. Cento pagine, di cui molte illustrate, niente di impossibile. Mi immergo nel lavoro e quasi non mi accorgo di quanto tempo è passato. È ora di andare.
Dopo poche fermate di metro e un breve tragitto a piedi, sono sotto l'edificio della HS Financial Services. Mando un messaggio a Rebekah che mi risponde dicendomi di salire. Respiro a fondo ed entro. Mi avvicino all'ascensore, ignorata dalla receptionist, e aspetto con pazienza. Quando le porte si aprono, entro e premo il piano. Durante la salita, continuo a sperare che lui non ci sia.
Il ding dell'ascensore interrompe i miei pensieri e, appena si aprono le porte, lo vedo lì, proprio davanti a me. Alza lo sguardo e sento il respiro fermarsi. Le immagini del sogno di stanotte mi inondano la mente.
«Ciao, Chloe.» Sorridente e sereno come sempre, mentre io cerco di non incrociare il suo sguardo.
«Ciao, sai dove posso trovare Rebekah?» Passo oltre senza fermarmi, con lo sguardo fisso nel corridoio.
«È alla sua scrivania, di là.» Mi indica la direzione. «Va tutto bene?»
Sento i suoi occhi su di me, ma non riesco a guardarlo. «Sì, tutto bene. Scusami, devo andare.» La mia voce è fredda e scostante.
Mi allontano senza il cenno di un saluto. Non se lo meritava, ma oggi non riesco proprio a stargli vicino.
Harry
Sono in piedi nell'ufficio di Bart, o Alan, o forse Alfred, mentre continua a parlare, e parlare... e parlare, senza sosta. La mia testa ciondola per la noia; ogni parola che esce dalla sua bocca è una picconata al mio cervello. Se solo mio padre non mi obbligasse a "ascoltare i problemi dei dipendenti"...
Mi volto verso gli ascensori, dove ho notato un movimento. Eccola lì: Chloe. Sta parlando con Dylan, e sembra visibilmente infastidita dalla sua presenza. Lui, al contrario, appare deluso quando lei si allontana. A quanto pare, non sono l'unico con cui è pungente. Devo scoprire cosa è successo tra quei due, quindi esco dall'ufficio in fretta.
«Signor Styles, non ho ancora finito» mi chiama lagnoso l'altro, ma alzo una mano come per salutarlo senza voltarmi.
«Direi di sì, Alfred.»
«Mi chiamo Albert!» urla dietro di me, ma ormai sono lontano per rispondere.
Cammino spedito, ancora domandandomi perché mi importi tanto di Chloe e Dylan. Ma vengo subito interrotto da... come si chiama quest'altro?
«Signor Styles, buongiorno. Posso fare qualcosa per lei?» chiede un ragazzo giovane, mai visto prima. Decido di buttare un nome a caso.
«Beh, Alan...»
«Veramente mi chiamo Aaron.»
Lo guardo per qualche secondo, serio.
«Credo che questo dica tutto.»
Mi allontano senza aggiungere altro, consapevole che, in effetti, non avrei mai tempo per lui.
Finalmente arrivo alla scrivania di Rebekah, ma è vuota. Mi guardo attorno, imbocco un altro corridoio e rido tra me pensando che forse la cara Chloe si è persa. Quando la scorgo intenta a bussare alla porta di uno sgabuzzino, mi fermo per ridere a piena voce.
«Che diavolo hai da ridere?» Mi lancia uno sguardo confuso, seria.
«La scrivania di tua sorella non si trova nello sgabuzzino.» Guardo il suo viso arrossire e i suoi occhi vagare dalla porta a me. Apro la porta per mostrarle le scope e gli attrezzi di pulizia all'interno.
È imbarazzata. Le guance si sono tinte di rosso e per la prima volta la vedo in difficoltà. Quasi mi fa tenerezza.
«Scusa, devo aver capito male le indicazioni.» Strano, penso, perché non avrebbe mai ammesso un errore, né chiesto scusa. Qualcosa è successo, ne sono certo.
«Vuoi che ti accompagni da tua lei?» Annuisce senza aggiungere altro e camminiamo in silenzio. All'improvviso, la voglia di stuzzicarla mi è passata.
Arrivati alla scrivania di Rebekah, vediamo che è alle prese con il telefono, frustrata.
«Mi scusi, ma proprio non riesco a capirla, io parlo solo inglese.»
Alza lo sguardo verso di noi, ci sta chiedendo aiuto con gli occhi.
«Che succede?» chiedo, mentre Rebekah guarda sua sorella con uno sguardo demoralizzato.
«C'è questo tipo al telefono... ma non capisco una parola.» Le sorelle si scambiano uno sguardo, mentre resto a osservare.
«Che lingua parla?» sussurra Chloe.
«Credo sia spagnolo.»
Chloe fa segno a Rebekah di passarle la cornetta e, inaspettatamente, attacca una conversazione fluente.
«Con quién hablo?» Domanda, la voce sicura.
Inizio a guardarla con interesse mentre risponde al telefono in perfetto spagnolo. «Un momento, por favor.» Copre la cornetta e mi guarda. «Dice di essere il signor Hernandez, che aveva appuntamento con te, e deve anticiparlo alla settimana prossima.»
Alzo gli occhi al cielo, già infastidito, e mi rivolgo a Rebekah.
«Puoi controllare l'agenda per la prossima settimana?»
Rebekah si mette a sfogliare l'agenda mentre lancio un'occhiata di nuovo a Chloe.
«Andrebbe bene giovedì nel pomeriggio.» Annuisco e Chloe riprende in scioltezza.
«Jueves por la tarde? Hasta luego.»
Riaggancia e accenna un sorriso verso la sorella, che la guarda con complicità.
«Il signor Hernandez ha confermato l'appuntamento per giovedì nel pomeriggio.» Sento un vago interesse crescermi dentro: lo spagnolo le calza fin troppo bene. Mi chiedo quante altre lingue parli.
«Chloe, è una fortuna che fossi qui! La nostra interprete si è presa qualche giorno di ferie e la telefonata del signor Hernandez non era prevista. Grazie». Rebekah mi lancia uno sguardo aspettando, come sua sorella, un cenno di riconoscenza da parte mia.
«Sì, bene, io devo andare.» So che si aspettavano di più, ma non sono il tipo. Non ho chiesto a Chloe di prendere quella chiamata e non capisco perché mi senta così inquieto ora. Devo fare qualcosa per sbarazzarmi di questa sensazione e so esattamente cosa.
Mi fiondo verso l'ascensore e, arrivato al piano terra, chiamo un taxi per uscire dall'edificio. Una volta dentro, prendo il cellulare per avvisare Dylan.
«Dimmi» risponde subito.
«Ascolta, sono dovuto uscire. Coprimi tu.» Lo sento sbuffare.
«Che novità... Quanto starai via?» Lo immagino con un sorriso rassegnato.
«Domani mattina, direi.» Una volta fuori, la sola idea di rientrare mi fa venire il mal di testa.
«Fanculo, Styles, mi devi un aumento.»
Se lo meriterebbe sul serio.
«A domani» taglio corto, chiudo la chiamata prima che possa ribattere. So di essere un pessimo capo... e un pessimo amico.
Il taxi non tarda ad arrivare e in pochi minuti mi trovo davanti al palazzo di Jordan. Salgo in ascensore e premo il pulsante dell'undicesimo piano. Continuo a cercare di pensare al motivo reale per cui sono venuto qui, ma non riesco a tradurlo in parole. Arrivato al piano, busso e mi ritrovo a contare i secondi prima che apra la porta.
«Non dovresti essere al lavoro?» domanda appena mi vede. Entro in casa senza salutare.
«Anche tu, ma sei qui» rispondo, mentre lui chiude la porta, roteando gli occhi al cielo.
«Il mio permesso è autorizzato. Puoi dire lo stesso del tuo?» domando retorico mentre mi lascio cadere sul divano.
«Perché non ti autorizzi una gita alla spa?» ribatto sarcastico.
«Harry, che succede?» Si piega leggermente in avanti, fissandomi con intensità.
«Cosa dovrebbe succedere? Non posso venire a trovare mio fratello?» Tentativo fallito, anche a me suona ridicolo.
«Le tue visite non sono mai disinteressate. Quando passi da me, di solito, è perché hai bisogno di qualcosa.» Già, un pessimo capo, un pessimo amico, e ora anche un pessimo fratello.
«Non stavolta, Jordan.»
«E quindi perché sei qui?»
«Sono passato a trovarti, ma se vuoi continuare quest'interrogatorio del cazzo, me ne vado subito.» Faccio per alzarmi, ma mi blocca con la sua risposta.
«Lei chi è?» Sento la mia espressione cambiare.
«Cosa?» La mia voce non suona affatto naturale.
«È troppo presto per una birra e di sicuro non sei qui per parlare di lavoro, visto che non lo fai nemmeno in ufficio, figuriamoci qui. E non si tratta di papà, altrimenti saresti entrato insultandolo e non sembri così agitato da... beh, so che non posso nominarla so che hai capito a chi mi riferisco.» La sua analisi colpisce nel segno. Non voglio sentire quel nome.
«Ora fai lo psicologo? Non ti basta fare il vice presidente dell'azienda di famiglia?» L'aria mi brucia e mi sembra di stare seduto su un letto di spine. Jordan riesce sempre a farmi perdere la pazienza... ma è anche l'unico che sappia come prendermi.
«Harry, sono più grande di te e ti conosco meglio di quanto ti conosca tu stesso. Si tratta di una donna.» Ecco, non è più nemmeno una domanda: è una certezza.
«Non so di cosa tu stia parlando.» Sto cercando di suonare convincente, ma quella stretta allo stomaco è solo peggiorata dopo l'interrogatorio di Jordan.
«Se non vuoi parlare, ci resta una sola cosa da fare.» Mi guarda con un sorriso furbo, e finalmente capisco di aver fatto bene a venire qui.
Si alza dalla poltrona, scompare in camera sua e riemerge dopo un paio di minuti con due borsoni. Uno dei due è mio, lo tengo sempre qui per momenti come questi.
«Andiamo?» domanda, fermo davanti alla porta.
«Andiamo.» Mi alzo, lo seguo, e per la prima volta da ore mi sento più leggero. So che le cose andranno meglio, ora che sono con mio fratello.
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