CAPITOLO 3 - Non posso crederci
Buonsalve, belle persone 🌟
Sono felicissima di essere qui con il nuovo capitolo! È un momento importante per la storia, perché iniziamo a immergerci davvero nelle dinamiche dei personaggi. Poco alla volta, stanno venendo fuori le loro caratteristiche, le loro sfumature, i loro pregi e le loro fragilità. È come se, passo dopo passo, ci stessero permettendo di conoscerli sempre di più, di scoprire chi sono davvero e cosa li spinge a fare ciò che fanno.
Scrivere questo capitolo è stato un viaggio emozionante e non vedo l'ora di sapere cosa ne pensate! 💬
Voglio ringraziarvi, di cuore, per il supporto, i commenti e l'affetto che continuate a dimostrarmi. Sapere che siete lì a leggere e a condividere con me questa storia è qualcosa di unico.
Vi aspetto al prossimo capitolo, con nuovi intrecci, emozioni e, chissà, magari qualche sorpresa... 😉
Eeeee niente, buona lettura
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Harry
«Harry!» È la terza volta, credo, che il mio nome viene urlato da dietro la porta, ammesso che stia contando bene. Non ho idea di che ora sia e, sinceramente, non mi interessa. Ho troppo sonno per scendere dal letto, e anche se non ho bevuto poi molto ieri sera, la testa mi scoppia. Magari è per le urla che continuano a rimbombare dal corridoio.
«Harold Edward Styles!» La porta si spalanca e so già chi sta per avanzare verso il mio letto. Rimango fermo, fingendo di dormire, sperando che rinunci. «So che sei sveglio.» Le coperte mi vengono strappate con un colpo deciso, ma io non mi muovo di un millimetro. «Alzati immediatamente. Hai quindici minuti per fare la doccia, fare colazione e vestirti. Un solo minuto di ritardo e ti trasferisco all'ufficio contabilità.»
Sbadiglio e mi volto su un fianco con la velocità di un bradipo.
«Sempre dolce nei risvegli, eh, papà? Con tutto questo entusiasmo mi viene proprio voglia di alzarmi.»
La mia voce suona come se provenisse dall'oltretomba, ma non posso farci nulla: ho troppo sonno.
«Se solo ti degnassi di comportarti come un adulto responsabile, avresti anche tu un risveglio degno di tale nome. Ora muoviti, prima che dica a Brenda di cestinare la tua colazione.»
Socchiudo gli occhi, guardandolo mentre si allontana. È impeccabile, come sempre, con il suo completo su misura. Arrivato sulla soglia, però, si gira: capisco che non ha finito.
«E spiegami perché continui a dormire qui, quando hai una casa tua.» Non rispondo, ma il dito medio glielo faccio con il pensiero.
Non ho ancora messo piede fuori dal letto e sono già stufo. L'idea di un'altra giornata in quel dannato ufficio mi fa venire voglia di girarmi dall'altra parte e riprendere il sogno che stavo facendo prima che mio padre mi riportasse su questo pianeta.
Alla fine, controvoglia, mi trascino verso il bagno della mia stanza. Brenda, come sempre, ha lasciato un asciugamano pulito e il mio bagnoschiuma preferito. In cucina, mi attenderà la mia colazione preferita; nell'armadio, i vestiti già stirati e pronti. E mio padre crede davvero che voglia andarmene di qui, quando c'è Brenda che mi coccola da una vita come fossi suo figlio?
Quindi, no, papà, puoi anche scordartelo.
Scendo in cucina con addosso solo i pantaloni della tuta, messi giusto per non presentarmi in mutande. Brenda è instancabile come sempre, intenta a preparare qualcosa.
«Buongiorno, Brenda.»
Lei si volta a guardarmi con il suo sorriso affettuoso e contagioso.
«Harold, perché non ti vesti prima di scendere?» È l'unica, a parte mio padre, che usa il mio nome per intero. Le voglio bene, perché in fondo mi ha cresciuto lei e mi è stata molto più vicina di quanto non lo sia mai stato l'impeccabile genitore.
Mi avvicino e le do un bacio sulla guancia. «Perché papà rompe.»
Brenda alza gli occhi al cielo, ma sorride. Non si è ancora rassegnata a sentirmi parlare così di lui, anche se ormai ci è abituata.
«Lo sai che ti vuole bene. È solo un po'... diretto, e anche tu non sei facile.» Stavolta sono io a roteare gli occhi. Mi riempio la bocca di pancake, così almeno evito di rispondere con qualche uscita che la farebbe sicuramente arrabbiare.
«Feffo, coe oi.» Brenda mi lancia uno sguardo di rimprovero.
«Quante volte ti ho detto di non parlare con la bocca piena.»
Ridiamo entrambi e io cerco di non sputare tutto sul piatto. Per il resto della colazione mi comporto come si deve. Se c'è qualcuno che merita il meglio di me, è senz'altro Brenda.
Finito di mangiare, mi cambio con uno di quei completi da ufficio tanto amati da mio padre. Secondo lui, non sarei "credibile" in jeans. Recupero il telefono, lo infilo in tasca, indosso le scarpe e lascio a Brenda un bacio sulla guancia prima di uscire con il mio classico ritardo di cinque minuti.
Papà è già sparito, né la Mercedes né l'autista sono in vista. La sua missione di trasformarmi in una copia di sé continua, solo che non ho la minima intenzione di diventare uno che vive di lavoro, senza respirare altro. Così, salgo sulla mia Mustang nera, quella che mi ha lasciato il nonno. Papà me l'ha vietata, ma magari la prossima volta si ricorderà di dire al suo autista di aspettare cinque, fottutissimi minuti.
Appena metto in moto e il cancello si apre, il telefono squilla. Rispondo, mettendo la chiamata in vivavoce.
«Che c'è?» Già ho visto il suo nome e il mio umore scende allo stesso livello della mia voce.
«Stai arrivando?» Ruoto gli occhi, prendo una curva e sorpasso un paio di anziani che si sono messi sulla mia strada. «Ti ricordo che abbiamo una riunione importante. Hai fatto aspettare James?» Forse è l'autista intransigente.
«James?» Fingo di essere sorpreso, ormai sto quasi prendendo gusto a questa cosa. Accelerando, riesco a passare prima che scatti il rosso.
«Non sei in macchina con James?» Adesso è curioso. «Se non sei con l'autista... Harry, non avrai mica preso...»
Chiudo la comunicazione, soddisfatto. Il telefono riprende a squillare, ma ignoro la chiamata, accendo la radio e mi godo i dieci minuti di pace rimasti. Il nonno mi ha insegnato a sistemare il motore di questo gioiellino e ancora adesso mi rilasso al solo guidarla.
Arrivato, parcheggio la Mustang in uno dei dieci posti riservati alla "Famiglia Styles" e prendo l'ascensore fino al ventiquattresimo. Lì devo ritirare i documenti per la riunione. Mentre mi avvio lungo il corridoio, incrocio qualche segretaria troppo sorridente per le nove del mattino, che mi saluta con un «Buongiorno, signor Styles». Rispondo con un cenno e mi dirigo dritto verso l'ufficio di Dylan.
«Ciao, Dylan.» Deve essersi preso un colpo, perché si volta all'improvviso, sgranando gli occhi.
«Ehm... ciao, Harry. Sei già qui?» Sembra nervoso e io lo fisso perplesso, finché non si decide a parlare. «I documenti potrebbero non essere... qui.» Sorriso imbarazzato.
Abbasso le spalle, appoggiandomi alla sua scrivania con un lungo sospiro. «Potrebbero?» Se non ho quei documenti, papà userà la cosa per darmi addosso. E non che non lo faccia spesso, ma ogni volta mi irrita allo stesso modo.
«Avevo tutti i documenti, ma la valigia si è persa in aeroporto. Ho già chiamato ovunque, ma sembra che nessuno sappia dove sia finita.» So che ci sta male, ma il suo dispiacere non eviterà la scenata di mio padre.
«Cazzo! Non potevi metterli nel bagaglio a mano?» Non appena vedo il suo sguardo abbattuto, mi pento. Dylan fa già del suo meglio. «Recuperali il prima possibile, sai come mio padre... non ascolta ragioni.» Mi allontano dalla sua scrivania, ma quando sono sulla porta, non riesco a non aggiungere: «Ah, e aggiustati la cravatta.»
Sorrido, vedendolo abbassare lo sguardo per poi scoppiare a ridere: la cravatta era già perfetta. Conosco Dylan dai tempi del liceo, è un amico, e qui sta guadagnandosi la stima di tutti, oltre a pararmi il culo più di quanto non meriti.
Di nuovo in ascensore, mi preparo mentalmente per l'ultimo piano. So già che saranno tutti seduti attorno al tavolo che mi aspettano. Mentre le porte si aprono, controllo il telefono: messaggio da Lewis.
Che fine hai fatto ieri sera?
Ieri sera. Che disastro. Sempre lo stesso pub, la stessa birra, e Jessica che cerca disperatamente di attirare l'attenzione. Sono stufo di tutto questo.
Siete diventati noiosi.
Me ne sono andato prima del solito, senza salutare, quando ho visto Jessica iniziare uno strip improvvisato sul bancone.
Dice quello che ha tenuto il muso per tutta la sera.
Come ti ho già detto: siete noiosi.
Da un po' mi sento vuoto. Voglio bene ai miei amici, ma ho bisogno di novità.
Le porte dell'ascensore si aprono. Metto via il telefono, mi muovo lungo il corridoio e mi fermo davanti alla scrivania di Dana, la segretaria di mio padre. Mi sorride scuotendo la testa.
«Sei in perfetto ritardo.»
Le rivolgo un sorriso ironico mentre passo.
«Non vorrei deludere nessuno.»
Dalla vetrata vedo che tutti sono già al loro posto. Inspiro e apro la porta.
«Signori, buongiorno.»
Le teste si girano. Mio padre mi fissa e, mentre mi avvicino, sussurra: «Grazie per averci onorato della tua presenza.»
È solo un sussurro, ma pieno del solito disappunto. Si sistema sulla sedia e alza la voce.
«Harry, i documenti che ti avevo chiesto?»
Nemmeno il tempo di sedermi.
«Li avrei portati, se li avessi avuti. Purtroppo, si sono persi in aeroporto.»
Silenzio in sala. L'espressione di mio padre dice tutto, ma se ne farà una ragione.
Passo l'ora successiva cercando di seguire la discussione. Il progetto del giorno riguarda l'espansione della società: nuovi investimenti, un'acquisizione. Altri soldi per lui, sempre con me a guardare da fuori. Per mio padre sono solo un dipendente, nonostante il titolo di direttore, e se non «crescerò» resterò tale. Non mi ha lasciato nulla, tranne un ufficio e uno stipendio, e ogni mio passo è sotto la sua supervisione.
Sto per addormentarmi, quando tutti cominciano ad alzarsi. Mi preparo a fare lo stesso, ma mio padre mi fa cenno di restare. Un'altra ramanzina in arrivo.
Saluto distrattamente i membri del consiglio che escono e fisso la vetrata. Mi piace guardare il mondo da qui. Ma ogni giorno di più sento che ho voglia di cambiare qualcosa.
«Perché non puoi arrivare in orario?» La voce di mio padre mi fa voltare. Stessa domanda di sempre. Mi appoggio allo schienale della sedia e lo fisso negli occhi.
«Harry, quando metterai la testa a posto?»
Questa è troppo facile. «La mia testa è perfettamente a posto. Solo... non dove piacerebbe a te.» Incrocio le braccia e aspetto la prossima mossa.
«Come sei arrivato in ufficio, se non eri in macchina con James?» Cerca di essere minaccioso, ma con me non funziona.
«Non c'è bisogno che te lo dica, vero?» Sorrido mentre lui alza gli occhi al cielo. Mi piace infastidirlo, anche se di fondo non mi diverte affatto.
«Quella Mustang era di mio padre. Hai intenzione di distruggerla come hai fatto con la tua macchina?» L'incidente di due mesi fa è ancora un argomento caldo, anche se l'assicurazione ha confermato che non è stata colpa mia.
«Quella Mustang era di mio nonno. Ogni pomeriggio che abbiamo passato insieme a lavorarci, mi ha detto che sarebbe stata mia, un giorno. Stavolta non sto facendo niente di sbagliato e potevi dire al tuo adorato James di aspettare cinque minuti in più.»
Lui scuote la testa, esasperato.
«Harry, quando crescerai? Quando ti deciderai a essere più responsabile?»
Non ascolto il resto, so già a memoria cosa dirà.
«Sei un immaturo, tutto quello che faccio è per te e bla bla bla...» gli faccio il verso con voce bassa. Lui sospira spazientito e si volta per andarsene, ma sulla soglia si gira ancora una volta.
«Stasera c'è la serata di beneficenza. Voglio trovarti lì.» Non aspetta una risposta e se ne va.
Tiro un sospiro di sollievo.
«Finalmente!» lo dico abbastanza forte perché mi senta allontanandosi.
Esco anche io, diretto all'ascensore. Devo parlare con Dylan, poi me ne vado. Oggi mio padre non riesco a reggerlo.
Arrivato nell'ufficio di Dylan, entro senza bussare. È al telefono, mi guarda con rimprovero mentre mi siedo e appoggio i piedi sulla scrivania. Lui non toglie gli occhi di dosso, ma sa che, in fondo, sono il suo capo e può solo scuotere la testa.
«Harry!» prova a sgridarmi quando riaggancia, ma non è affatto convincente.
«Dylan!»
«Com'è andata ai piani alti?» mi chiede, lasciando perdere il rimprovero.
«La solita noia, la solita ramanzina.»
Dylan sorride mentre risponde a un'altra chiamata.
«Evans» risponde, sempre formale. Poi cambia tono. «Chloe? Ciao!» La sorpresa gli si legge in faccia e la mia curiosità si accende. Un sorriso enorme gli illumina il viso. «Sarebbe fantastico.»
Decido di andarmene, sembra una chiamata personale. Gli faccio cenno che ci sentiamo dopo, ma lui alza una mano per dirmi di restare.
«Perfetto, sono in debito con te per questo. Grazie, a tra poco allora.» Chiude la chiamata con aria trionfante.
«Le valigie sono state ritrovate. I documenti arriveranno a breve.» Lo annuncia come se avesse appena vinto alla lotteria.
«Ottimo, chiamami quando arrivano.» Mi alzo e lo saluto. Mi dirigo nel mio ufficio, dove la solita noia mi aspetta a braccia aperte.
***
Chloe
Esco di casa trascinando le valigie che il corriere mi ha lasciato, oltre alle mie. Gli ho spiegato che c'è un errore, ma mi ha risposto che il suo compito era consegnarle e basta. Per fortuna, ho trovato un numero di telefono sulla targhetta e chiamando ho scoperto che appartengono a Dylan, il ragazzo che ho incontrato per caso in aeroporto l'altra sera. Non pensavo di rivederlo, ma eccomi qui, diretta a portargliele per evitargli il disturbo.
Prendo la metro, due fermate, ma queste valigie sono pesanti. Arrivata a destinazione, trovo subito l'indirizzo. Entro e mi avvicino alla reception. La ragazza dietro il bancone mi squadra con aria seccata.
«Sono qui per vedere Dylan Evans.»
«Ha un appuntamento?» domanda con superiorità.
«No, ma...»
«Allora non può passare.» Mi interrompe prima che possa finire. Provo a spiegare, ma mi ignora. Irritata, mi allontano e chiamo Dylan.
«Pronto?» risponde allegro, e l'idea di rivederlo mi agita più di quanto vorrei.
«Ciao, Dylan, sono Chloe. Sono arrivata, ma senza appuntamento non mi fanno passare.»
Lui ride, e il suono mi colpisce in pieno petto. «Scendo subito.»
Passano pochi secondi e lo vedo uscire dall'ascensore. Cammina verso di me con la camicia bianca e la cravatta bordeaux; quando mi sorride, ricambio senza pensarci.
«Ciao.» Le parole mi escono incerte.
«Grazie per averle portate fin qui.» Guarda le valigie ai miei piedi e i suoi occhi sembrano scavare in qualche punto del mio passato.
«Di nulla.» Tento di nascondere il mio disagio, mentre il silenzio tra noi si prolunga.
«Posso offrirti un caffè per ringraziarti?» chiede, accorciando ancora la distanza.
«Non serve, hai senz'altro impegni.» Accampo la prima scusa che mi viene in mente.
«Ho tempo per un caffè» insiste, con un sorriso che rende difficile rifiutare.
Prima che possa rispondere, prende le valigie e si incammina verso l'ascensore e mi ritrovo a seguirlo. Passiamo davanti alla reception e getto un'occhiata soddisfatta alla bionda mentre entro con lui.
«Il mio capo sarà felice di riavere i documenti» aggiunge, premendo il pulsante dell'ascensore. Quando vedo che il numero 24 si illumina, spero che l'ascensore sia veloce.
Altre persone entrano nell'ascensore durante la salita e il silenzio diventa meno imbarazzante. Quando arriviamo, Dylan trascina le valigie lungo il corridoio e mi fa cenno di accomodarmi nel suo ufficio. Mi siedo e afferra il telefono per avvisare il suo capo.
Mentre Dylan parla, osservo la grande vetrata alle sue spalle che riempie l'ambiente di luce. A sinistra c'è un quadro astratto di cui non capisco il soggetto, forse arte moderna. Lui si interrompe, rivolgendomi un sorriso quando si accorge che il capo non risponde.
«Provo al cellulare.»
Gli sorrido e noto il perfetto ordine sulla sua scrivania, tranne per una piccola cornice sul lato destro. La curiosità di vedere quella foto mi sorprende, ma torno subito a concentrarmi sulla sua voce.
«Ciao, ho i documenti» lo sento dire. Sembra quasi che stia rimproverando il suo capo e l'idea mi fa sorridere. Lo immagino come un tipo un po' smarrito, forse già anziano e facilmente raggirabile. «Va bene, te li lascio in ufficio. A domani.»
Dylan riaggancia e si abbandona contro lo schienale della sedia, con un sospiro rassegnato.
«Meglio andare a prenderci quel caffè» dichiara, e questa volta non rifiuto. Lo seguo per il corridoio fino alle macchinette, in un silenzio che diventa quasi confortevole.
«Zucchero?» mi chiede, mettendo le monete nella macchinetta.
«No, lo prendo amaro, grazie.» Lui preme il pulsante, aspetta e mi passa il caffè.
«Grazie davvero per le valigie» ripete, e il suo sguardo gentile per un attimo mi ricorda un volto troppo familiare.
«Non è stato un problema. Dovevo comunque uscire per cercare lavoro» spiego, senza sapere perché l'ho detto.
«Che tipo di lavoro?» Finisce il caffè e butta il bicchiere nel cestino.
«Ho studiato lingue. Cerco qualcosa legato alle traduzioni.»
Gli racconto rapidamente di lavori precedenti come traduttrice e insegnante di inglese, e lui ascolta con attenzione. È cordiale, gentile e anche simpatico, ma sento che è ora di salutare.
«Ci rivedremo?» mi chiede, e la tentazione di rispondere sì è forte. Ma so che è solo l'ombra di un ricordo a spingermi a pensarlo.
«Non c'è due senza tre» scherzo. «Se il destino vuole, ci incontreremo di nuovo. Ciao, Dylan.» Gli sorrido un'ultima volta prima di andarmene.
Passeggiando verso casa, rifletto su questa coincidenza. Sono venuta qui per allontanarmi da Montreal, dai miei pensieri, e incontro un ragazzo che gli somiglia così tanto, persino con lo stesso nome. Mi inquieta. Non ne ho parlato con Rebekah, ma se lo sapesse, mi spingerebbe a parlare con uno psicologo, temendo che faccia qualcosa di avventato.
Arrivata a casa, accendo il computer e scorro gli annunci di lavoro online. Devo trovarne uno al più presto; ne va della mia sanità mentale. Dopo ore sul PC, sento mia sorella che mi chiama dal piano di sotto.
«Chloe, sono a casa!» Il rumore dei suoi passi risuona sulle scale e poco dopo apre la porta della mia stanza all'improvviso. «Vado a farmi una doccia, poi scegliamo insieme un vestito per stasera, okay?» Solo in quel momento mi ricordo dell'evento con i suoi colleghi.
«È proprio necessario che venga anch'io?»
Avevo giusto in mente di iniziare una nuova serie TV, stasera.
«Ti prego! Lavoro in quella società da poco, non conosco quasi nessuno e averti lì sarebbe un grande aiuto.» Mi guarda con occhi supplicanti e finisco per sorridere.
«A proposito, non mi hai ancora raccontato nulla del nuovo impiego.» Ha lasciato lo studio legale dopo il licenziamento e sono curiosa di sapere com'è il nuovo lavoro.
«Te lo racconto più tardi, promesso. Adesso devo sbrigarmi e fare la doccia, dopo tocca a te.» Esce dalla mia camera e guardo un'ultima volta lo schermo del PC prima di spegnerlo, rassegnata all'idea di accompagnarla.
Aspetto che mia sorella esca dal bagno e quando finalmente è il mio turno, faccio una doccia veloce. Appena rientro nella sua stanza, la trovo immersa nel suo armadio, intenta a scegliere un vestito.
«Questo ti piace?» Si gira verso di me con un abito rosso piuttosto corto, la parte superiore finemente lavorata e senza maniche. Lei indossa già il suo: un abito nero senza maniche, con una parte trasparente che copre appena sopra il decolleté.
«Sì, ma...» Le indico il bordo. È davvero molto corto.
«Stai benissimo, vai a cambiarti! È già tardi» insiste, e prima che possa protestare, mi spinge fuori dalla stanza. Sospiro rassegnata e mi infilo il vestito. Non sono abituata a questo genere di abito e temo che la serata sarà interminabile.
Prendiamo un taxi. Il tragitto è breve e arriviamo davanti a un grattacielo. La location è ai piani alti, con una vista incredibile sulla città illuminata. La sala è già affollata, ci sono tavoli carichi di piatti e un palco in fondo, accanto al bar, dove un ragazzo prepara cocktail per gli ospiti.
Il lusso della sala mi mette a disagio; l'aria sa di soldi e di sguardi altezzosi. Mia sorella si allontana per salutare il capo, lasciandomi da sola. Decido di prendere qualcosa da bere per calmarmi.
«Un French Martini, per favore.» Il barista mi serve il drink e ne bevo un sorso mentre mi guardo attorno, fino a che una voce maschile alle mie spalle attira la mia attenzione.
«Chloe?» Mi giro di scatto, quasi soffocando con il drink.
«Dylan?» La sorpresa mi blocca. Non posso credere di rivederlo ancora una volta.
«Che ci fai qui?» Si siede accanto a me e ora, più che mai, mi pento di non essere rimasta a casa.
«Sono qui con mia sorella... e tu?» Stasera è ancora più affascinante: il completo grigio che indossa sembra fatto apposta per lui e quella leggera barba gli dona ancora più fascino.
«Lavoro per la HS Financial Services, l'azienda che ha organizzato questa serata. Anche tua sorella lavora per la stessa società?» chiede, con una nota di sorpresa nella voce.
Merda! Così imparo a informarmi meglio, la prossima volta.
«A quanto pare...» mi osserva confuso e mi affretto a spiegare. «Rebekah...» Non faccio in tempo ad aggiungere altro.
«Rebekah Stewart?»
«La conosci?»
«Certo, è la segretaria del mio capo...»
Sta per aggiungere altri dettagli quando una voce si alza dagli altoparlanti.
«Signore e signori, diamo il benvenuto all'ideatore di questa serata, il signor Harrison Styles e suo figlio Harry.»
Un applauso riempie la sala e vedo un uomo elegante salire sul palco, accompagnato da un ragazzo. Quando i miei occhi si posano su di lui, rimango senza fiato. Il volto del ragazzo mi è fin troppo familiare. Non è possibile, eppure è lì davanti a me.
«Non posso crederci...»
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