Capitolo 1 - Dimentichi niente?


Benvenuti al primo capitolo di questa nuova avventura!

L'emozione per questa pubblicazione è molto alta: un capitolo che non è solo l'inizio di una narrazione, ma un vero e proprio viaggio. Un viaggio che non coinvolgerà solo Chloe, la nostra protagonista, ma anche noi, lettori e lettrici, pronti a seguirla in ogni sua scelta, dubbio, caduta e rinascita.

Chloe sta per partire. Una valigia pronta, un biglietto stretto tra le dita, e nel cuore una sensazione che non riesce del tutto a decifrare. La sua vita, ultimamente, è stata un susseguirsi di difficoltà. È come se qualcosa le mancasse, anche se non saprebbe dire con esattezza cosa. Forse serenità. Forse un cambiamento. O forse, sta cercando se stessa.

E voi? Siete pronti a partire con lei? A scoprire cosa significa davvero ricominciare, quando tutto intorno sembra incerto e l'unica cosa sicura è quel passo avanti che Chloe non può più rimandare?

Un nuovo inizio vi aspetta. Preparatevi a vivere emozioni, a ritrovarvi nei suoi pensieri, nei suoi momenti più fragili e in quelli più forti. Chloe potrebbe non sapere esattamente cosa cerca, ma una cosa è certa: questa è la sua occasione. E forse anche la nostra.

Pronti a iniziare questo viaggio insieme? 🌟


********

Chloe

«Chloe, hai preso il cappotto rosso?» chiede mamma, appoggiando quello con la pelliccia sul letto, accanto alla valigia che ho iniziato a riempire solo stamattina.

«Mamma, te l'ho già detto, a Boston fa meno freddo che a Montréal.»

Non fa che preoccuparsi. È sempre stata apprensiva, e ultimamente le ho dato dei validi motivi per esserlo.

«L'inverno scorso è sceso sotto zero anche lì.» Afferra un maglione senape e prova a infilarmelo in valigia.

«Forse perché era inverno?» rispondo, indisponente. Mamma mi guarda sbigottita.

«Quando inizierai a prendere le cose più seriamente, Chloe?» Sospira, poi va verso il cassetto per recuperare i calzettoni di lana.

Non resisto. La blocco posando una mano sul cassetto.

«Mamma, ho ventidue anni. Posso fare la valigia da sola.»

In quel momento una voce interrompe la tensione.

«È permesso?»

Papà è sulla soglia, con un sorriso divertito mentre osserva il caos nella mia stanza: vestiti sparsi, scarpe che spuntano da sotto il letto, i libri ancora ammucchiati sulla scrivania e una sciarpa che penzola dal lampadario senza motivo apparente.

«Abigail, perché non mi dai una mano giù? Sto cercando di fare il caffè ed è un disastro» dice papà, sfoderando un sorriso.

«Robert, tu e tua figlia vi siete messi d'accordo per farmi impazzire oggi?»

Mamma lo fulmina con lo sguardo, poi, senza aggiungere altro, lascia la stanza con un gran sospiro.

«Sai che tua madre si preoccupa per te, no?» Papà mi guarda con dolcezza e mi sento in colpa per come l'ho trattata.

«Hai ragione. È che ultimamente sono intrattabile» mormoro, lasciandomi cadere sul letto. Papà si siede accanto a me.

Credevo che trasferirmi fosse più semplice: riempire una valigia e lasciare tutto alle spalle. Invece, questa è la mia città, qui c'è la mia famiglia, i miei amici, i miei ricordi. Mi fa male restare, e fa male andarsene.

«Ci mancherai, Chloe. Dopo che tua sorella Rebekah è partita, ci siamo concentrati su di te. Adesso questa casa sarà più silenziosa.» Papà ha gli occhi lucidi e la sua malinconia rende tutto più difficile.

«Anche voi mi mancherete» rispondo, abbracciandolo. Poi si alza e, senza più guardarmi, lascia la stanza.

Mi avvicino alla scrivania e prendo due foto incorniciate: Hazel e Kurt, i miei migliori amici. Non posso lasciarle indietro. Le infilo in valigia e guardo la stanza, il mio rifugio.

Sul muro, i vecchi vinili che io e Hazel abbiamo appeso un pomeriggio per renderlo "più nostro". Sul soffitto, le lucine che Kurt ha installato perché sembrassero stelle. Accanto alla sedia a dondolo che papà ha costruito, c'è "Bear," il peluche che mi regalò mia sorella. Sulla scrivania, la trousse del mio tredicesimo compleanno, e sopra di essa il poster di Justin Bieber, che Hazel ha appeso nel suo periodo "solo-Justin-Bieber" per vederlo sempre anche da me.

Sorrido, ripensando a ogni dettaglio. E poi, sulla mensola, il carillon che mi regalò nonna Jewel. Io e Rebekah siamo cresciute a casa sua; lei è stata come una seconda madre. Mentre mi infilo le scarpe, so che devo ancora andare da lei. Non posso lasciare Montréal senza salutarla.

Scendo le scale lasciando la valigia a metà; ho tempo fino a stasera. Passando davanti alla cucina vedo i miei, seduti con una tazza di caffè. La voce di mamma mi ferma.

«Dove vai?»

«Da nonna Jewel.» Restano in silenzio per un istante, poi papà accenna un sorriso.

«Non fare tardi.»

Afferro le chiavi e infilo il cappotto. Appena fuori, il vento freddo di ottobre mi spinge a stringermi nella sciarpa. Sembra già dicembre e non so se il riscaldamento dell'auto riuscirà a scaldare l'abitacolo in questo tragitto breve.

Guidando, fisso le strade familiari, percorrendo la solita via per arrivare da nonna. Supero la svolta verso la casa di Kurt e poi il Mariposa, il nostro bar. Sorrido ricordando i pomeriggi passati a ridere e a cantare al karaoke, con Hazel che urlava nel microfono mentre Kurt cercava di portarglielo via. Quando il semaforo torna verde, riprendo a guidare, lasciando che i pensieri mi accompagnino per il resto del tragitto.

Arrivo al cancello e parcheggio, poi mi fermo un istante a osservare ogni dettaglio, consapevole che non so quando tornerò. Attraverso il viale alberato e incrocio un uomo con un mazzo di fiori. Infine, raggiungo l'albero mio e di nonna e mi siedo, appoggiando la schiena al tronco.

«Ciao, nonna. Sono passata a salutarti, anche se non ho portato fiori. Sto facendo la valigia, vado via.» Sospiro. «Non riesco a restare qui. Mi hai sempre detto che sono forte, ma mi sento persa. Nessuno riesce a colmare il vuoto che ho dentro, nonna. Proprio nessuno.»

Sento dei passi avvicinarsi. Mi volto e vedo Kurt.

«Cleo...» mi chiama con quel soprannome buffo che usa per farmi sorridere.

Provo a rispondere con un sorriso. «Sto bene, Kurty, avevo solo bisogno di stare con la nonna.» Guardo la lapide e mando un bacio nell'aria verso di lei. Mi manca troppo.

Hazel si siede accanto e mi stringe la mano.

«Manca anche a noi. Ti ricordi i biscotti che ci preparava il sabato?» La sua voce è dolce, e i ricordi ci avvolgono. I sabati a casa di nonna Jewel, le merende e il giorno in cui ci chiese di aiutarla a fare una torta perché Kurt era giù. Gli avevano fatto male a scuola e nonna si accorse subito che qualcosa non andava. Quella giornata ci aiutò a stare meglio, a lui più di tutti.

Passiamo dieci minuti immersi nei ricordi, tra risate e silenzi. Alla fine mi alzo e capisco che è ora di tornare.

«Dovremmo andare.»

Hazel mi si avvicina mentre Kurt mi guarda, esitante.

«Vieni con noi?» chiede, sperando che questa volta accetti. Ma io scuoto la testa. Non posso, non ancora.

«Vi aspetto qui.» Guardo Hazel e Kurt allontanarsi verso la lapide. Anche se sono passati alcuni mesi, so che vedere la foto su quel marmo renderebbe tutto troppo reale e non sono pronta ad affrontarlo. Vedo le labbra di Kurt muoversi: ogni volta gli parla, ma non ho mai chiesto cosa gli dice. Hazel gli prende la mano, restano in silenzio per un attimo. Lo vedo asciugarsi una lacrima; nemmeno lui ha ancora accettato la sua assenza, ma almeno riesce a venire a trovarlo. A volte mi sento in colpa per non riuscire a fare lo stesso, come se restassi aggrappata all'idea che lui sia ancora qui con noi, che ride e scherza.

Devo andarmene. Come se mi avessero letto nel pensiero, vedo Hazel e Kurt tornare verso di me, ancora mano nella mano. Appena mi raggiungono, prendo la mano di Kurt. So che ogni volta questo luogo lo lascia svuotato. Lasciamo un ultimo saluto alla nonna, poi percorriamo il viale verso l'uscita in silenzio. È l'ultima volta che passo qui quest'anno. Mi manca, e mi mancherà sempre.

Arrivati alle auto, decidiamo di fermarci al Mariposa per salutare Ryan, l'unico barista che si rifiuta sempre di servirci alcolici ma che ci vizia con tazze di cioccolata e brioche. Ryan è il titolare e ha sempre apprezzato l'allegra confusione che portiamo con noi.

Parcheggiamo poco lontano e, una volta dentro, vedo Ryan dietro al bancone: sorride e già riempie le nostre tazze di cioccolata, come sempre nelle giornate fredde.

«Allora, sei in partenza?» chiede, posando le tazze sul bancone.

«Sì, anche se non ho ancora finito le valigie.» Sorrido, prendendo un sorso.

«Mi stupirei del contrario» ribatte. Anche Hazel e Kurt ridono, sanno bene che non sono mai puntuale con le valigie. In questi anni siamo diventati molto amici, soprattutto negli ultimi tre mesi. Ryan mi è stato vicino come pochi e con lui ho condiviso cose molto personali.

«Ma stavolta sono a buon punto» preciso, mentre tutti ridono di me. Li lascio scherzare, e mi perdo a guardare il locale, questo posto pieno di ricordi. Osservo i tavolini di legno allineati in fondo, ognuno con una candela rossa al centro, le tantissime lampadine che Ryan ha appeso ogni volta che raggiungeva un nuovo obiettivo, il menu scritto a mano sulla lavagna, il piccolo palco per le esibizioni. Quante serate di karaoke abbiamo passato qui. E quante volte Ryan stesso è stato la colonna sonora della serata con il suo pianoforte.

«Guarda chi è passato a salutare» esclama una voce familiare. Ci voltiamo e vediamo Emma che si avvicina a Ryan. Lui la guarda nello stesso modo di quando si sono conosciuti; si sono sposati due anni fa e sono innamorati come allora.

«Immagino che tu abbia ancora le valigie aperte sul letto, vero?» Emma mi sorride. A quanto pare, mi conoscono bene.

«Potrei dirti di no, ma non mi crederesti» rispondo, ricambiando il sorriso.

«Come stai?» Le guardo la pancia ormai evidente. Ricordo quando ci hanno dato la notizia della gravidanza: Ryan quel giorno ha appeso un'altra lampadina al soffitto. Hazel era raggiante e Kurt non smetteva di parlare, mentre lui mi sorrideva. Sento di nuovo la tristezza farsi strada, ma la ricaccio indietro.

«Bene, la creatura cresce. Manca poco.»

Mi mancheranno queste scene, mi mancherà questo posto che è stato testimone di così tanti momenti felici... e di quelli più dolorosi. Ho davvero bisogno di andare, anche solo per riuscire a respirare senza che questi ricordi mi travolgano.

Quando mi accorgo che si è fatto tardi, abbraccio forte Emma e Ryan. Mi raccomandano di tornare per la nascita del bambino e, dopo aver salutato, esco dal Mariposa con Hazel e Kurt. I miei amici hanno deciso che non vogliono perdersi nemmeno un minuto della mia presenza in città e mi seguiranno come un'ombra fino al momento di salire sull'aereo.

Durante il tragitto verso casa, sbircio nello specchietto retrovisore e sorrido vedendo l'auto di Kurt, quel rottame che tanto ama e che, contro ogni logica, continua a mantenere funzionante. Arrivati, parcheggio e aspetto che anche lui faccia lo stesso. Lo vedo scendere dalla macchina – miracolosamente ancora intera – e non riesco a trattenermi.

«Kurt, la tua macchina è diventata maggiorenne?» commento con un sorriso.

Si avvicina stringendo gli occhi con un'aria (poco) minacciosa. «Non dire un'altra parola sulla mia macchina. Vuoi che parliamo della tua? Potremmo restare qui fino a domani.» Sorrido, perché so quanto si scalda ogni volta che parliamo della sua auto e Hazel, naturalmente, scoppia a ridere.

«Beh, almeno la mia non ha ventidue anni» ribatto.

Kurt, fingendo serietà, replica: «Anche tu hai ventidue anni, eppure non ti sostituirei con un'altra amica.» Il che significa che quella macchina sarà sua per sempre, finché non lo lascerà a piedi.

Ridiamo tutti e tre mentre entriamo in casa. I miei genitori ci salutano dal divano e noi saliamo in camera mia, dove le valigie aspettano ancora di essere riempite. Prima di rimetterci al lavoro, ci sediamo sul tappeto accanto al letto, il nostro posto per studiare, ridere e ascoltare musica. Era sufficiente stare lì, insieme.

Hazel fissa il poster di Justin appeso al muro e chiede: «Quello lo lasci qui, vero?»

«Pensavo di portarlo con me» scherzo. «Abbiamo passato tante notti insieme, non vorrei che si sentisse solo.» Kurt ci guarda sorridendo e in quel sorriso c'è tutta l'affettuosa complicità che ho sempre amato.

«Non oserai» ribatte Hazel, stringendo la mano di Kurt.

«Sarà un ottimo motivo per venirmi a trovare e rivedere il tuo caro Justin.»

So che non le interessa né del poster né del cantante; è solo un modo per nascondere la tristezza di doverci salutare.

Kurt fa una smorfia: «Chloe, muoviti a finire le valigie prima che Hazel scoppi a piangere.»

Mi alzo e li abbraccio stretta. Il pomeriggio vola in un turbinio di risate: Kurt che critica i miei vestiti, Hazel che prova a infilarsi una delle mie magliette e io che cerco invano di mantenere un minimo d'ordine. Grazie a loro, ogni attimo di questo pomeriggio è perfetto. Mi mancheranno da impazzire.

***

«Le valigie sono in macchina, il passaporto ce l'hai. Hai dimenticato qualcosa?» chiede mamma mentre usciamo di casa. Kurt e Hazel sono già vicini alla macchina, papà sta chiudendo il baule e io e mamma siamo le ultime.

«Ho tutto, ho spuntato la tua lista due volte» le rispondo, sorridendo. Mia madre prepara sempre un elenco dettagliato per ogni viaggio; questo occupa due intere pagine di raccomandazioni.

Lancio un ultimo sguardo alla casa in cui sono cresciuta, dove ho imparato a camminare e ho passato giorni indimenticabili. Questa volta, però, non provo tristezza; sento, invece, che sta per cominciare un nuovo capitolo.

«Chloe, andiamo, è tardi» mi chiama papà, e salgo in macchina.

I miei siedono davanti, io sono con Kurt e Hazel dietro. Durante il breve tragitto verso l'aeroporto, li osservo nello specchietto retrovisore e sorrido, pensando che per un po' non vedrò più quel vecchio rottame che Kurt tanto ama guidare.

Arrivati, scarichiamo le valigie e ci avviamo verso l'ingresso. Mamma, visibilmente nervosa, mi lancia un'occhiata.

«Il biglietto ce l'hai, vero?»

Le mostro il biglietto nella tasca della giacca e si rilassa, ma non per molto. Quando ci avviciniamo al check-in, parte con le solite domande.

«Sei sicura del peso della valigia? Le misure vanno bene? Hai preso la sciarpa?»

Dopo la terza domanda, mi limito ad annuire. Mi avvicino alla hostess per il check-in e papà cerca di tranquillizzare mamma. Sbrigo le formalità e ci rechiamo tutti fino ai controlli di sicurezza, dove è arrivato il momento dei saluti.

Hazel mi abbraccia per prima e so che per lei è dura; è la prima volta che ci separiamo così a lungo.

«Mi mancherai tantissimo.»

«Anche tu, ma sai che puoi venire a trovarmi quando vuoi.» Restiamo strette fino a che Kurt ci avvolge entrambe in un abbraccio. Mi volto verso di lui e vederlo con gli occhi lucidi mi sorprende.

«Kurty, prenditi cura di lei» gli dico sorridendo.

«Lo farò, e tu prometti di non diventare pelle e ossa» mi risponde, dandomi un bacio sulla fronte.

Poi abbraccio i miei genitori. Mamma ormai non trattiene più le lacrime e anche papà è commosso. Li stringo forte, cercando di rassicurarli.

«Mamma, ci sarà Rebekah ad aspettarmi all'aeroporto» mento, sapendo che mia sorella ha la macchina guasta e non potrà venire. Sono sicura che ce la farò da sola, ma so anche che mia madre, in questo momento, non vuole sentirlo.

Dopo un ultimo saluto, mi allontano verso i controlli di sicurezza, mentre loro agitano la mano e io rispondo con un sorriso. Una volta al gate, mi siedo ad aspettare e mando un messaggio a mia sorella, avvisandola che sto per partire.

Leggo un libro, nell'attesa, e le pagine mi assorbono così tanto che quasi non mi accorgo di essere chiamata all'imbarco. Mi alzo, metto via il libro e mi accodo agli altri passeggeri. Una volta a bordo, spengo il telefono e guardo fuori dal finestrino. Sto lasciando Montréal per un tempo indefinito e, anziché nostalgia, sento un leggero sollievo. Mi sembra di poter finalmente respirare.

Con il rombo del motore, l'aereo si prepara al decollo. Il cuore batte un po' più forte quando ci fermiamo all'inizio della pista. Poi, sento l'accelerazione e in pochi istanti siamo in volo. Dall'alto, le luci della città dove sono nata si allontanano; sono pronta a voltare pagina.

Prima di chiudere gli occhi, il mio ultimo pensiero è per lui.

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