Il suo incubo
Quando la campanella suonò, gli studenti si affrettarono a gettare le loro cose alla rinfusa negli zaini e poi si avviarono verso la porta.
Tutti salutarono il professore allegramente. "Bella, prof!"
"Ehi, Marco!" rispose quello alzando il pollice in su.
L'ultima persona a uscire fu la ragazza dallo chignon disordinato. Stava fissando il suo telefono.
"Sei riuscita a finire il tuo compito?" le chiese il professore con tranquillità e sfoggiando un debole sorriso.
"Oh..." disse lei alzando gli occhi e voltandosi verso di lui, quasi come se non si fosse accorta della sua presenza. Aveva gli occhi grandi e azzurro-grigi, con appena un po' di mascara "Sì." rispose con semplicità. "Sì, ho scritto tutto."
"Sono ansioso di vederlo" le disse lui con un sorriso.
"Oh... sì..." disse lei distrattamente. "Be', a domani."
"A domani".
Il professore la guardò uscire e scendere le scale, poi, una volta solo, riordinò le sue cose e si mise il cappotto.
Scese le scale senza far rumore, salutò le bidelle timidamente una volta all'ingresso, senza accorgersi di averle fatte arrossire violentemente, e poi uscì fuori dall'edificio, il viso investito immediatamente dal vento freddo.
Chissà com'era andato...
"Non male per essere il primo giorno, non è vero?" si disse.
Ti considereranno ridicolo...
"Mi pare di essergli piaciuto..."
Patetico...
"Be', almeno non mi odieranno..."
Chi lo sa...
Si sentiva lo stomaco annodato...
Non dovevi tornarci, Alessandro, ti stai distruggendo...
"E cosa avrei dovuto fare?" disse ad alta voce, con una nota di isteria.
Rimanere a casa, dormire parecchio, mangiare poco, vivere per nulla.
"E come pensi che possa superare tutto questo senza nemmeno provarci?!" disse, cominciando ad alzare la voce, il tono esasperato.
Ma tu non puoi farlo. Sei troppo debole. Non ci riuscirai mai. Devi rassegnarti, farti avvolgere... scomparire dietro il tuo dolore...
"NO!" gridò. Quasi senza accorgersene si ritrovò a correre. Scese in fretta i gradini che portavano alla stazione della metropolitana, urtando le persone, senza farci troppo caso.
Prese il primo treno che vide e, nonostante molti sedili fossero vuoti, preferì rimanere in piedi accanto alle porte.
Il silenzio era assordante, e, così, immobile, Alessandro si sentiva vulnerabile. Scacciò dalla testa ogni pensiero e prese a tamburellare freneticamente con le dita sul sostegno che aveva afferrato, come se un qualsiasi movimento potesse distrarlo e impedirgli di pensare, potesse salvarlo dal vuoto che sentiva avvolgerlo e intorpidirlo lentamente.
Si precipitò fuori non appena le porte si aprirono, e si diresse a passo deciso verso l'uscita della metropolitana.
Aveva la testa così piena di pensieri che non si fermò nemmeno a salutare Bob, che stava fumando ciò che restava di una Marlboro Gold che aveva trovato per terra.
Attraversò la strada, svoltò l'angolo e camminò lungo la strada, superando le gente sul marciapiede.
Cercò nervosamente le chiavi nella tasca del cappotto, imprecando sottovoce, e, quando le trovò, aprì con uno scatto l'entrata dell'appartamento. Richiuse con forza la porta alle sue spalle e vi appoggiò la schiena, chiudendo gli occhi e concedendosi un lungo respiro.
L'ossigeno ridiede lucidità alla sua mente e, con volto insepressivo, Alessandro camminò a passi decisi per l'appartamento buio. Le stanze erano spoglie, fredde e impersonali, e Alessandro non entrava quasi mai nella maggior parte di esse.
Si diresse verso quella che frequentava di più: lo studio. Era una stanza grande, dai muri bianchi e spogli, assolutamente minimale: il pavimento era in parquet scuro, una parete era occupata interamente da una grande libreria in legno, e l'unica, seppur grande, finestra si trovava sulla destra; sulla sinistra, vicino alla parete, si trovavano una sedia e una piccola scrivania in ebano, dalle curve semplici e classiche, ma eleganti; sopra c'erano una stilografica, una lampadina da tavolo, una piccola scatola in legno, un bollitore e una tazza lasciata lì il giorno prima, piena fino a metà di tè ormai freddo; dall'altro lato della stanza c'era un divano in pelle chiara, su cui Alessandro dormiva la maggior parte delle notti per evitare di doversi spostare nella camera da letto.
Vi appoggiò sopra il cappotto e la valigetta e si tirò su le maniche del maglione sopra i muscolosi avambracci. Prese a camminare in tondo al centro della stanza con il braccio destro abbracciato al lato sinistro del torace e con la mano sinistra che si grattava la barba, come faceva sempre, nel tentativo di calmarsi; ma i pensieri si erano già acquietati. Rimase immobile per qualche secondo al centro della stanza, poi, con uno scatto prese la valigetta dal divano e si sedette alla scrivania. Prese i fogli dalla valigetta, la appoggiò a terra e accese la lampada, direzionando la luce verso i fogli. Incurvò la schiena per sgranchirsi le vertebre ed esaminò il contenuto della tazza accanto a sé. Buttò giù con un sorso i resti del tè e poi alzò il coperchio della scatola che aveva davanti e, dall'interno rivestito di latta, tirò fuori una bustina di tè nero. Accese il bollitore e attese che l'acqua si scaldasse mentre riordinava i fogli allineandone i bordi con un gesto veloce.
Si sgranchì la schiena di nuovo, stavolta portando le braccia dietro la testa. Inspirò a fondo ed espirò rumorosamente. Era esausto. Delle quattro o cinque ore che dormiva ogni giorno (quando andava bene), quella notte aveva chiuso gli occhi per una ventina di minuti, senza mai addormentarsi veramente. Temeva che sarebbe crollato da un momento all'altro e doveva cercare in tutti i modi di impedirlo.
Quindi con un gesto rapido, si mise a leggere i testi che quel giorno i suoi studenti gli avevano consegnato, combattendo contro la stanchezza.
"Mi chiamo Peter, ma per tutti i miei compagni di classe sono Il Frocio..."
Alessandro lesse la prima frase senza comprenderne il senso più volte. Il suo cervello era completamente scollegato e strizzò gli occhi per resistere alle palpebre brucianti che reclamavano riposo.
"... per tutti i miei compagni di classe sono Il Frocio. Mi hanno affibbiato questo soprannome poco carino in seconda media, quando..."
Le parole sembravano sfiorare appena il suo cervello e andarsene senza che questo potesse afferrarlo. Si strofinò gli occhi e continuò a leggere.
"... quando ad una festa, al gioco della bottiglia, un ragazzo è stato obbligato a baciarmi..."
No, non poteva continare a leggere così, ma l'eventualità di addormentarsi lo terrorizzava.
"... Ho creduto di piacergli davvero, e quando pochi giorni dopo ho tentato di baciarlo, lui si è messo a ridere davanti a tutti..."
Sentiva di star perdendo la percezione dello spazio, e impiegò tutte le sue ultime energie per leggere la frase successiva.
"... Forse quell'appellativo mi dà così fastidio perché è vero: io sono gay."
Dopodiché la sua testa crollò esausta sulla scrivania.
Si trovava sulla strada che conosceva bene. Un inconscio senso di ansia gli attanagliò lo stomaco alla vista di quel marciapiede. In lontananza, dall'altro lato della strada, vide due figure in lontananza. Le chiamò da lontano e le salutò con un gesto del braccio, senza che loro lo vedessero.
Le due figure fecero per attraversare la strada, ma quando misero piede sull'asfalto, ci affondarono come se si fossero gettate in acqua e ne vennero inghiottite all'istante. Lui spalancò gli occhi, paralizzato da quella visione. Poi una di loro riemerse con la testa; ebbe il tempo di gridare: "Aiuto, non sappiamo nuotare!" prima di venire sommersa nuovamente.
Alessandro si tolse le scarpe per avere più libertà di movimento e fece per gettarsi in acqua con lo scopo di poterle salvare; ma il lampione accanto a lui, come si fosse tramutato in un elastico, lo aveva avvolto in una strettissima presa che gli impediva di respirare: un serpente con la sua preda. Terrorizzato, guardò l'asfalto incresparsi per i movimenti delle due persone che cercavano di tornare a galla, ma la cosa che lo terrorizzò ancora di più fu vedere l'asfalto tornare liscio e calmo, e dopo qualche secondo, i corpi affiorare a galla con lentezza.
Alessandro urlò, urlò con tutte le sue forze, combattendo la stretta che lo imprigionava all'altezza del torace, ma dalla sua gola non uscì alcun suono.
E allora cominciò a piangere, piangere come non aveva mai fatto, fino a ritrovarsi la vista offuscata...
Si svegliò con il viso bagnato di sudore e di lacrime. Il bollitore elettrico si era spento e l'acqua aveva già cominciato a raffreddarsi. La cambiò, la mise nuovamente a scaldare e vi mise la bustina in infusione, mentre leggeva i testi che gli avevano consegnato i suoi alunni. Quando il tè fu pronto gliene era rimasto soltanto uno da leggere. Tolse la bustina dalla tazza e la appoggiò al lato della scrivania.
Con la tazza nella mano sinistra, bevve in un sorso metà del tè bollente. Poi lo appoggiò. Prese l'ultimo foglio e ne lesse il nome, scritto in una grafia obliqua ed elegante, suppur priva di inutili fronzoli: Marina Lanci. Era di quella ragazza dagli occhi grandi e grigi e quel buffo chignon disordinato.
Prese la tazza e bevve l'altra metà del tè con un sorso solo. Poi, con la tazza ancora in mano, girò il foglio.
Era bianco.
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