11. Cambiamenti

«E questo chi è?» Mi sussurrò Alec una volta che li avemmo raggiunti.

«Colui che mi farà vincere una scommessa.» Risposi sussurrando anche io, mentre osservavo Liam e Kevin squadrarlo e sussurrandosi piccoli commenti riguardo il suo aspetto.

«Di che scommessa parli, Lily?»

«Chi si innamora per primo, perde.» 

Non so cosa sia l'amore, quindi non posso provarlo, mi ripetevo.

Si dice che chi non è cresciuto con l'amore, non riesca a riconoscerlo. Mia madre me ne ha dato così tanto e mio padre pure, in forma minore, ma c'era. Lei mi ha abbandonata e da all'ora ho perso l'amore che dovevo ricevere da parte di entrambi. Ero troppo piccola per riconoscerlo e ne ho solo sentito parlare tra il mio gruppo in Norvegia e l'ho letto nei libri. Lì sembra così reale, ma qui... nella realtà... no, basta! L'amore è solo un sentimento prodotto dal cervello.

«Capisco... beh, giochiamo!» Gridò l'ultima parte facendomi sussultare.

«Stronzo...» Massaggiai il povero orecchio sinistro.

«Hudson, giusto?»  Il ragazzo annuì. «Bene, Hudson giocherà al posto di Kevin nel secondo tempo.» Decise Liam e il ragazzo dalla felpa rosa sgranò gli occhi.

«Ehi, amico! No. Fallo tu il pezzo di scarto.» Mise il broncio in modo giocoso e incrociò le braccia sul petto tonico e asciutto.

«No!» Iniziarono a battibeccare.

Hudson mi guardava annoiato.

Alec aveva l'aria arrendevole. 

Quei due litigavano per ogni minima cosa. L'altra volta si erano presi a cazzotti perché Liam aveva pestato il piede di Kevin e avevano iniziato a litigare fino a risolverla in una rissa con vincitore Kevin.

«Siete due bambini. Non gioco io il secondo tempo, ma state zitti.» 

«Scusaci...» Sussurrarono e Hudson scoppiò in una risata che di divertente non aveva niente.

«Ma davvero? Chiedete scusa a lei? Non vi darà i soldi del suo caro paparino o della sua cara mammina.» Ghignò.

Mia madre era l'unica cosa che non doveva toccare.

«Non parlare di mia madre.» I denti stridevano tra loro.

«Perché? Girano un sacco di pettegolezzi su di lei. Si dice che vi abbia abbandonato per un altro uomo. Oppure che si sia stancata della figlia e del troppo lavoro del marito e se ne sia andata. Ora capisco perché sei cresciuta... così.» Il suo volto si increspò in una faccia disgustata.

«Non parlare di lei, Hudson, ti avverto.» Le mie unghie nere si stavano conficcando nei palmi.

«La verità fa male? Sono sicuro che la madre di Jaxon valga molto di più di quella sciacquetta di tua madre, mi sbaglio? No, certo che no.» Il suo sguardo compiaciuto era quello che mi mandava il cervello in nero. Perché parlava in questo modo di una persona che neanche conosceva?

«Evidentemente tu e mio padre avete gli stessi gusti.» Guardai i ragazzi. «Giochiamo.»

Correvo rapidamente verso l'altro lato del campo con in mano la palla. 

Ogni volta che cadeva sul pavimento rossiccio la mia mente faceva apparire un'immagine di lei.

Ogni rintocco della palla mi faceva ritornare alla mente immagini che volevo dimenticare.

Era diventata una tortura.

Cambiai direzione.

Virai verso destra fino a raggiungere Hudson.

«Tieni.» Lanciai la palla a spicchi e iniziai a correre verso uno dei buchi più vicini.

La rete era arrugginita e il foro troppo stretto. Ci passai in mezzo così rapidamente che non feci in tempo a spostarlo con la mano e una maglia sporgente mi graffiò lo zigomo destro. Sentii il calore del sangue che scorreva denso sulla mia pelle raffreddata dall'aria serale, ma non mi fermai.

Non mi fermai nemmeno quando sentii i richiami di Alec.

Dovevo stare sola o sarei impazzita.

Vagavo per le strade di Manhattan da ore. 

Ero sola, come ogni volta. 

La mia guancia destra era incrostata dal liquido rosso che scorre per il nostro corpo. 

Le unghie e le dita avevano assunto un colore ramato ed erano, anch'esse, incrostate. 

Manhattan non mi era mai sembrata così silenziosa – ero troppo persa nei miei pensieri – e non avevo sentito nessuno commentare il mio modo di vestire. 

Presi il telefono e lo accessi. 

Il display si illuminò e centinaia di notifiche presero a scorrere e a vibrare. 

Cinquanta chiamate perse dai ragazzi del Bronx e altrettanti messaggi. 

Solo due chiamate da mio padre. Dovevo aspettarmelo. Lui era fatto così ed era abituato alle mie scappatelle. 

Aveva inviato un solo messaggio: speravo fossi maturata

Nulla in più, nulla in meno. Tre semplicissime parole colme di significato e delusione.

Cercai un locale in cui passare il resto della notte. Per sole due ore alle cinque sarei rimasta in giro. Avrei trovato una pasticceria, comprato delle ciambelle ripiene di crema – le preferite di Samir – e sarei tornata a casa con la speranza di farmi perdonare.

L'attico era così silenzioso. 

Raggiunsi la sala da pranzo dove incontrai una delle tante domestiche intenta ad apparecchiare la tavola con tazze e succhi di frutta. 

«Mettile a tavola e non dire niente a mio padre. Le hai prese tu questa mattina. Capito?» Le appoggiai sulle mani la scatola di un rosa tenue con su scritto il nome del locale. Nemmeno ricordavo in quale pasticceria fossi entrata.

«Si, signorina.» Notò le mie mani sporche di sangue e poi la sua testa scattò a me. «Signorina le è successo qualcosa? Ha bisogno di cure?»

«No. Taci anche su questo.»

Salii le scale silenziosamente e chiusi la porta con estrema lentezza per non fare rumore. Tirai un sospiro di sollievo quando la serratura scattò. 

Mi girai e per poco non tirai un urlo. Mio padre era seduto sul letto e mi guardava con un cipiglio in volto.

«Pa... pave» Deglutii. «Che succede?»

«Succede che sei peggio di quando abitavamo a Oslo! Capisco le difficoltà e le paure, ma sei grande e devi accettare i cambiamenti. In più le domestiche mi hanno riferito di aver trovato delle lenzuola nella pattumiera. Indovina di che colore? Nere. Chi è che le ha di questo colore? Solo tu. Erano sporche di sangue, Lilith!» Il suo viso prese a colorarsi di rosso e le vene sul suo collo pulsavano.

«Mi è arrivato il.»

Mi bloccò. «No, signorina! Doveva arrivarti a metà mese e siamo ancora all'inizio! Chi è stato?»

Merda.

Merda.

«Non è come credi tu...» Sussurrai.

Posso fare la persona forte e insensibile quale sono davanti a tutti, ma davanti a lui non riesco. Continuava a guardarmi negli occhi e io avevo il cuore che pompava così tanto da volermi uscire dal petto.

«Sei in punizione.» Strabuzzai gli occhi. «Uscirai solo con Jaxon fino alle due di notte una sola volta a settimana. Niente scappatelle notturne come in Norvegia.»

Risi sarcasticamente. «E' un attico, come faccio a calarmi giù?»

«Lilith, non farmi arrabbiare. Non voglio più che passi notti fuori o con qualcuno. In più ti è vietato tornare ne Bronx.» Mi lanciò ai piedi una rivista. Come prima immagine c'era il campo da basket e io senza cappuccio con i ragazzi intorno. «Ho dovuto dire che eri lì per conoscere la moda di strada e non penso che nessuno mi possa credere e in più ho dovuto giustificare le tue ciocche rosse dicendo che erano i lacci della felpa.»

La figlia di Samir Morningstar è stata avvistata nel Bronx con tre ragazzi. Chi saranno? Seguiteci per scoprirlo. Quella frase frullava nella mia testa rapidamente e in continuazione.

«Pave... vær så snill...» Sussurrai.

«De ter nok, ti ho dato molte possibilità e le hai sprecate. Una ciambella alla crema non risolverà le cose.» Lo sapeva. «In bagno hai l'occorrente per tingerti i capelli del tuo colore naturale. Fallo.» Mi passò accanto e uscì.

Quella sera provai dolore. Dopo anni di assoluta apatia, provai nuovamente il dolore. Compresi di averlo ferito e deluso. 

Per me era appena cominciata la caduta verso il fondo. Perché se avevo pensato anche solo per un istante che mio padre non mi avrebbe fatto nulla, che mi avrebbe sempre sgridata, ma mai punita, beh, mi sbagliavo. La caduta era appena cominciata e non sarebbe finita tanto presto.

Lucifer mi si strusciò tra le gambe, ma io lo scansai e mi chiusi in bagno. 

Aprii il getto d'acqua e lo impostai per farla diventare bollente. 

Avevo bisogno di sentire il caldo che provavano le anime obbligate alle fiamme eterne. 

Avevo bisogno di pensare a qualcosa che non fosse la delusione nei suoi occhi. 

Dovevo pensare a qualcosa che non fosse perdere le mie ciocche rosse.

Con solo l'intimo nero e la pelle arrossata, mi trovavo di fronte al grande specchio del bagno. Sul ripiano del lavandino vi erano le varie ciotoline per tingermi i capelli. 

Mi fissai intensamente negli occhi e dall'occhio sinistro cadde una singola lacrima.

La lasciai scorrere fino al mento – e la seguii con gli occhi – fino a quando non cadde nella ciotolina nera per la decolorazione. 

Presi quel pennello dalle setole piatte e coprii le mie ciocche rosse di bianco. Rifeci i soliti movimenti per un altro paio di volte, finché i capelli non furono abbastanza chiari da poter essere tinti. Dopo due ore, ero fuori dal bagno con indosso una felpa oversize nera e pantaloni neri della tuta incastrati in pesanti calzini neri.

Quella non ero io.

Mi sedetti a tavola con Samir, Jaxon e Cassandra. 

Quest'ultima mi guardava con un sorrisino compiaciuto mentre strusciavo la sedia sul pavimento e mi ci lasciai cadere a peso morto.

«Lilith, cara. Quest'oggi usciremo da sole e andremo a fare un po' di sano shopping.» Il tono zuccheroso. «Che ne pensi? Una bella idea, vero? Madre e figlia che girano per i lussuosi negozi di Manhattan.» Bevve un sorso del suo cappuccino con una spruzzata di cacao sopra.

Mi si gelò il sangue. «Come?» La fissai e dovetti nascondere i pugni sotto al tavolo per non sporcare la tovaglia di sangue.

«Shopping tra madre e figlia. Tuo padre ha detto che devi cambiare modo di vestire e porti, quindi iniziamo dai vestiti e dal trucco e poi passeremo al carattere, ti piace come idea? Vedo che hai già cambiato look ai capelli, perfetto.» Batté le mani entusiasta.

Mi girai lentamente verso mio padre.

Ero certa di aver preso la stessa tonalità della tovaglia e che Jaxon avesse fatto cadere la sua ciambella alla crema nella tazza colma di cappuccino caldo.

«Devi cambiare, Lilith. A gennaio compirai diciotto anni e sei già maggiorenne. È ora che questa fase macabra finisca. Divertitevi, vado al lavoro.» Si pulì le labbra con un tovagliolo ed elegantemente si alzò dalla sedia.

Lanciai una rapida occhiata alla sua ciambella.

Non l'aveva toccata.

«Forza Lilith alzati, dobbiamo andare. Non mangiare nulla o non riuscirai a entrare in una taglia XS neanche se trattieni il fiato. Hai già il corpo tondo.» Si alzò e i suoi tacchi a spillo risuonarono nel silenzio.

Ho messo su peso? Mi ripetevo davanti allo specchio della cabina armadio, mentre indossavo il semplice intimo. Eppure, ero convinta di pesare cinquanta chili quando siamo partiti.

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scusate il ritardo:(

spero che questo capitolo vi piaccia e vorrei sapere cosa ne pensate di Samir e i suoi comportamenti.

piccolo glossiario:

vær så snill: per favore
De ter nok: basta

buonanotte:3

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