1.

*Wira*

È un rumore soffice, quello che fa la spazzola quando passa fra i capelli, le setole che grattano la mia testa in maniera rigida.

Oggi è il giorno della mietitura

Il pensiero resta attaccato al mio cervello come carta bagnata, le setole che si muovono in una maniera quasi ossessiva lungo le lunghezze.

Oggi è il giorno della mietitura.

Fisso il mio riflesso nello specchio, i grandi occhi a mandorla che ricambiano con il mio stesso sguardo nervoso, la spazzola si blocca ad un nodo.

OGGI È IL GIORNO DELLA MIETITURA.

Prima ancora di accorgermene ho lanciato la spazzola contro la parete, lunghi fili neri impigliati nel corpo volante, che produce un breve rumore contro la superficie grigiastra.

Cazzo.

Cazzo, cazzo, CAZZO!

Continuo a fissare il mio riflesso nello specchio per quelle che possono essere poche frazioni di secondo prima di serrare le palpebre con forza, una mano stretta sul petto, il tessuto dell'abito fra le dita, lunghi respiri rumorosi che lasciano la mia bocca, in un vano tentativo di mantenere la calma.

È il giorno della mietitura, e non esiste la possibilità di essere calma, non quando il mio nome è ripetuto in quella boccia per trentacinque volte, grazie mille tessere, sul serio, e grazie mille Capitol city.

"Wira...?"

Una voce sottile ed acuta blocca il mio flusso di pensieri, e, contemporaneamente, mi costringe ad aprire gli occhi, drizzando la schiena, le mani che lisciano il vecchio vestito verde.

La vedo con la coda dell'occhio ancora prima di girarmi, la piccola figura sull'uscio della porta, grandi occhi castani come i miei che sembrano conficcarsi immediatamente nei miei pensieri.

Deve aver sentito il rumore della spazzola, perché mia sorella ha perso interesse nella mia stanza, e non posso nemmeno darle torto; non c'è nulla che una bambina di nove anni possa considerare interessante qui dentro, non una foto, un effetto personale di qualche rilievo; le fabbriche di elettronica del distretto 3 non rendono così tanti soldi da potersi effettivamente permettere qualcosa solo perché bello, soprattutto quando pagano te ed i tuoi genitori meno di quanto vi serva per vivere in quattro.

"Eletia... Che ci fai qui? Non dovresti prepararti?"

Mia sorella sbatte le palpebre, come se avessi appena detto qualcosa di fuori dal mondo.

La seguo con lo sguardo mentre raccoglie la spazzola e, con andatura dondoleggiante, si avvicina e me la porge.

Si volta verso lo specchio, un pezzo di vetro rettangolare attaccato al muro abbastanza lungo perché lei possa guardarsi ma troppo distante dal pavimento in cemento perché chiunque possa guardarsi le scarpe.

"Mi spazzoli i capelli?"

Non riesco a trattenere un sorriso.

Obbedisco, cominciando a tracciare lunghi tratti lungo i capelli scuri di Eletia, una mano poggiata sulla sua spalla

"Non dicevi di essere abbastanza grande da farlo da sola?"

"Non dovresti essere in fabbrica?"

Lascio che un sospiro lasci la mia gola, i miei genitori hanno insistito per farmi lasciare il lavoro prima, oggi, volevano che mi prendessi del tempo per prepararmi al grande evento della giornata, un'oretta o poco più perché la mia mente fosse pronta alla mia ultima mietitura.

Scrollò le spalle, distoglie per un attimo la mia attenzione dal caschetto nero di mia sorella.

"Oggi ho finito prima, sto diventando più veloce con le macchine"

È una mezza verità, sto migliorando nel mio lavoro, assemblo i pezzi per le tastiere dei computer da appena ho potuto varcare il portone della fabbrica, ed il mio ritmo è passato da un pezzo ogni due ore a tre pezzi in due ore, ma, ovviamente, non è nemmeno lontanamente abbastanza per finire la mia dose di lavoro un'ora prima degli altri, ma non servirebbe a niente parlarle di questo tipo di ansia prima del tempo.

Eletia, Els, ha nove anni, e non riesco a non guardarla, nella sua gonna coloro tortora, senza pensare che tra tre anni potrà cominciare a richiedere le tessere e, di conseguenza, sarà eleggibile per gli Hunger Games.

Scuoto la testa, ricominciando a passare la spazzola per le lunghezze.

"Perché hai lanciato la spazzola?"

Non rispondo alla domanda.

Mi limito, invece, ad appoggiare l'oggetto in questione sul materasso, osservando il mio operato, e ad annuire, porgendole la mano, il sorriso più forzato che esista stampato sulle mie labbra.

"Forza, andiamo, non possiamo fare tardi alla mietitura, mamma e papà ci raggiungono"

. . .

"... brica?"

Stacco gli occhi dalla fine della strada, un nastro grigiastro che si snoda rigidamente in mezzo a tante case grigie dalla forma cubica, senza nulla a distinguerle significativamente.

"Cosa?"

Eletia mi guarda con le sopracciglia aggrottate, probabilmente scocciata dalla realizzazione del fatto che non la stavo minimamente ascoltando, la mente troppo fissata sulla mietitura che ormai si terrà tra qualcosa come una decina di minuti.

"Com'è la fabbrica?"

Rimango in silenzio per qualche secondo a quella domanda, leggermente sorpresa dall'improvviso interesse per il mio lavoro

"Perché vuoi saperlo?"

"Ho provato a chiederlo alla mamma, ma ha detto che sono argomenti da grandi"

Poco prima di tornare a guardare il grigiore uniforme della strada, il distretto 3 non è riconosciuto per i suoi vasi di fiori colorati, posso vederla roteare gli occhi in una maniera che quasi riesce a farmi ridere, nonostante tutto.

"Beh... Non ha tutti i torti, ma se proprio vuoi saperlo..."

Mi fermo un attimo, per pensare a come metterla in modo che lei possa trovare la cosa interessante e che non abbia l'impressione di andare verso una noia mortale condita di possibili incidenti sul posto di lavoro, ciò che effettivamente è.

"È...grande, passiamo il tempo costruendo i computer che usano a Capitol City, e questo rende le tue dita molto più veloci, e poi... Ah, sì, ci sono tutte queste macchine, come i nastri trasportatori e... Bracci meccanici?"

Mi fermo per un attimo, quando mi rendo conto di non avere la minima idea del nome di metà della roba che vedo al lavoro.

Scrollo le spalle, svoltando a destra, comincio a scorgere un piccolo gruppo di gente, che si ingrandisce ad ogni passo, riportandomi improvvisamente con i piedi per terra riguardo dove sono e perché indosso un vestito vecchio di mie madre.

"Mi ci fai fare un giro?"

Mi mordo l'interno della guancia fin quasi a sentire il sangue, il battito del cuore che rimbomba fin dentro alle orecchie, siamo quasi arrivate, tra pochi passi dovrò lasciare la mano di Eletia.

"Va bene"

"Davvero?"

La guardo, sta sorridendo, e le sorrido a mia volta, mentre, le dita che cominciano a tremare, mollo la sua mano, sperando che non senta il sudore sul palmo.

"Domani, Els, domani ti faccio fare un tour della fabbrica"

Scorgo con la coda dell'occhio due individui sulla cinquantina, sono i nostri genitori, grigi in volto, e con tante rughe di sorrisi quante di preoccupazione; dò un colpetto sulla schiena ad Eletia, dicendole di andare da loro, e riservo un imbarazzato cenno con la mano ai due, che si limitano ad un saluto intriso della stessa dose di disagio.

Stacco gli occhi dalla mia famiglia e li punto sulla fila delle ragazze, ormai di fronte a me, in attesa di fare il test del sangue che determinerà l'ovvio, ossia che io sono io, che sono sana, e che anche quest'anno nessuno ha voluto prendere il mio posto come possibile tributo.

Arrotolo nervosamente una ciocca di capelli attorno all'indice, i denti stretti attorno all'interno guancia mentre mi guardo intorno senza un motivo preciso, occhiate veloci a chiunque sia nelle due file: una ragazza con il labbro leporino, un ragazzo grosso con gli occhiali, un'altro con una barbetta vergine sporca di briciole che ancora mastica quello che deve essere stato il risultato della fame nervosa.

I passi fino alla postazione per il test del sangue sono corti e veloci, e l'esame in sé lo è ancora di più, tanto che, prima ancora che io me ne accorga, sono di fronte al municipio, elevato di poco più di un metro dal terreno in quello che risulta come un triste palco, pigiata in mezzo a tante altre ragazze tutte adolescenti, tra i dodici ed i diciotto anni, tutte possibili candidate per i giochi della fame, impacchettate in graziosi abiti per il possibile macello.

Sul palco, dietro un microfono montato per l'occasione, Lacerta Argaez, il responsabile della mietitura qui al distretto 3; viene direttamente da Capitol City, ma non ci sarebbe nemmeno bisogno di dirlo per capirlo; i lavori di chirurgia plastica lo hanno reso completamente diverso da un essere umano e più simile ad un rettile, con la sua squamosa pelle viola e, soprattutto, i suoi grandi occhi privi di sclera, completamente verdi, fatta eccezione per le pupille verticali, simili, appunto, a quelle di un serpente, abilmente nascosti dietro ad un paio di piccoli occhiali da sole rosa, la cui montatura dorata riflette la luce come uno schermo spento.

Le pompose maniche della maglia di rete semitrasparente, indossata sopra all'altrettanto eccentrica camicia color pompelmo, scintillano d'oro, quando il responsabile allarga le braccia, un largo sorriso che fa scintillare i denti bianchissimi contro alla luce del pomeriggio.

Non riesco a non pensare a quanto ogni singolo colore di Lacerta Argaez, dalla pelle fino ai capelli pel di carota ordinatamente divisi in grosse trecce sulla sua testa, cozzi con la bandiera cremisi di Capitol City dietro di lui, appesa al muro del municipio.

"Benvenuti, benvenuti, mie giovani promesse!"

Il suo tono é allegro, e non posso fare a meno di rabbrividire.

"Benvenuti alla mietitura dei cinquantanovesimi Hunger Games!"

Segue una breve pausa, riempita da un silenzio imbarazzante, le braccia di Lacerta Argaez ancora aperte, come si aspettasse degli applausi.

Passa qualche secondo e, quando sembra rendersi conto che non arriverà nessuna ovazione, batte le mani, il sorriso leggermente più tirato rispetto a prima, palesemente deluso dalla scarsa collaborazione del suo inespressivo pubblico.

Lo troverei comico, se non stessi stringendo la gonna del vestito tanto forte da farmi sbiancare le nocche

"Siete emozionati? No?"

Avrei tanto voluto dirgli che ero emozionata, ma non nel modo che intendeva

"Ma ovvio che lo siete! Siete pronti per cominciare?"

Lo chiede senza aspettarsi nessuna risposta, perché riprende a parlare subito dopo.

"Ne sono sicuro... Ma, come sapete, prima di cominciare, abbiamo un rito da seguire, no? Esattamente.
Vi auguro felici Hunger Games, e possa la fortuna essere sempre a vostro favore!"

Per un attimo sembra che sia davvero pronto ad estrarre i tributi, gli altri tacchi sottili che emettono un suono rimbombante, da quanto silenzio si è formato.

Fa per estrarre un nome dalla boccia di sinistra, quella delle ragazze, e per un attimo mi scordo come si faccia a respirare.

"Però..."

Solleva la mano vuota dalla boccia in un gesto teatrale, ed il fiato riprende ed entrare nei miei polmoni, insieme a quella che potrei definire come una punta di indignazione.

"... Ogni anno, come ormai voi saprete benissimo, Capitol City ci onora con un dono... Sono lieto di presentarvi il 'Trattato del tradimento', e poi lascio la parola al sindaco Cline..."

Detto ciò, il rettile umano si zittisce immediatamente, portando i grandi occhi verdi ad uno schermo sistemato per l'occasione, dove prodotto il solito cortometraggio di propaganda per dire che c'è stata la guerra ed i distretti hanno perso, e che per questo adesso ogni anno si tengono gli Hunger Games.

Nessuno ha delle particolari reazioni, ormai siamo abituati, ma potrei giurare di aver visto Lacerta Argaez mimare ogni singola parola con le labbra, i lineamenti tesi in un'espressione di pura estasi.

Segue il discorso del sindaco, un uomo ben pasciuto dai capelli brizzolati, che non dice nulla, se non ciò che il video ha appena esplicitato; parla dell'onore, della gloria, e del debito di sangue dei distretti verso Capitol City, tutte cose già sentite mille volte, ma che non falliscono mai nel farmi annodare lo stomaco.

Una volta concluso il discorso, l'ultimo filo di voce completamente morto nel silenzio, Lacerta batte nuovamente le mani, questa volta in un breve applauso, le labbra scure nuovamente tese in un largo sorriso.

"Grazie mille, sindaco Cline, davvero inspiratorio"

Dà una veloce pacca sulla spalla dell'uomo, che, prima di allontanarsi, lancia un'occhiata spenta ai vincitori delle precedenti edizioni, in piedi in fondo al palco.

Con un colpo di tosse, abilmente mirato ad attirare l'attenzione, il responsabile della mietitura allarga nuovamente le braccia, mentre, di nuovo, si muove attorno alla boccia di sinistra.

"Bene, miei giovani amici, la mietitura può finalmente avere inizio! E possa la fortuna essere sempre a vostro favore!
Ora, come al solito, prima le signore..."

E la sua mano si tuffa definitivamente dentro alla boccia, fino al polso, e con lei la mia capacità di respirare fa di nuovo un tuffo nel vuoto.

Lacerta fa girare per qualche secondo i biglietti, prima di riemergere, un nome stretto fra le lunghe dita viola.

"Bene bene bene... Chi sarà la fortunata fanciulla?"

Apre il bigliettino di fronte ai propri occhi, ed io, prima ancora di accorgermene, ho chiuso i miei.

"Wira Kim!"

Per un attimo, il mio intero corpo resta immobile, come congelato.

Forse ho sentito male, non ha detto davvero il mio nome, vero?

Poi mi accorgo che nessuno si sta muovendo.

"Wira Kim? Forza, tesoro, non essere timida, facci vedere il tuo bel faccino!"

Alzo lo sguardo, e noto che gli occhi da rettile di Lacerta Argaez stanno scrutando in mezzo al gruppo delle ragazze, alla ricerca di un volto che sa benissimo di non poter riconoscere.

Le ragazze attorno a me, gli occhi spalancati di sollievo e pena, si allontanano, creando uno spazio in cui io possa muovermi, per arrivare al palco.

Comincio a camminare lentamente, come in trance, il cuore che batte all'impazzata contro alle costole ed il cervello incapace di formulare un qualsiasi pensiero coerente, se non 'cammina'; le mie gambe sono pesanti, ed il mio corpo si muove il più lentamente possibile, come se qualcosa dentro di me sperasse con tutte le sue forze in qualcosa di inaspettato, una ragazza che si offra volontaria, magari, un miracolo.

Ma so che non succederà.

Sento gli sguardi di tutti puntati su di me, man mano che mi avvicino al palco; alcuni dispiaciuti, la maggior parte sollevati.

Passo in mezzo ai pacificatori ai piedi del palco.

Salgo gli scalini.

Mi posiziono alla sinistra di Lacerta, poco distante dai nomi di tutte quelle ragazze che non sono state estratte.

Da qui posso notare più particolari, il mio cervello annebbiato registra i denti chirurgicamente affilati del nostro addetto alla mietitura, il septum dorato che brilla alla luce del sole, il modo in cui essa viene riflessa dagli orecchini rettangolari.

Le sue pupille sembrano assottigliarsi quando, finalmente, posa il suo sguardo nel mio, ma sono poche frazioni di secondo, prima che si giri nuovamente, con una domanda che non riesco a decifrare, verso la popolazione del distretto, una massa grigia e non reattiva, dove, per un attimo, mi sembra di riuscire a distinguere i miei genitori, le espressioni confuse e ferite almeno quanto deve esserlo la mia.

Ma, di nuovo, è questione di poco prima che il mio udito torni a registrare le parole.

"No? Beh, peccato... Possiamo continuare... Tocca ai ragazzi adesso! Chi sarà il fortunato tributo di questa edizione degli Hunger Games? Non resta che scoprirlo!"

E si muove verso la boccia di destra questa volta; ripete il numero di prima, mescolando tutti i bigliettini con un'allegra cantilena, prima di tirarne fuori uno, un largo sorriso di rossetto nero.

"Boltz Garcìa!"

Ancora una volta, serve qualche secondo prima che qualcosa cominci a muoversi; un ragazzo con le spalle moderatamente larghe si stacca dal suo gruppo, dirigendosi con i pugni chiusi verso la propria morte.

Lo riconosco, é il ragazzo con gli occhiali che ho visto prima mentre ero in fila.

Cammina lungo il sentiero tracciato dallo spazio lasciato con una lentezza dolorosa, ma nemmeno per lui qualcuno decide di offrirsi.

Sale sul palco, ed ora riesco a vederlo meglio: non è molto bello, con gli occhi piccoli, la linea dei capelli tirati indietro che urla calvizie precoce e la barbetta vergine che ha cominciato a crescere sul suo mento, ma è abbastanza robusto, e sembra essere più bravo di me a fingere la calma.

"Ci sono volontari? No? Beh, come non detto..."

La voce di Lacerta rimbomba per pochi attimi nella piazza silenziosa, prima di riprendere, più forte di prima

"Ed ecco a voi i vostri tributi per la cinquantanovesima edizione degli Hunger Games! Fategli un bell'applauso!"

Le sue mani battono solitarie, nella vana speranza di incitare la demoralizzata piazza, di un distretto che sa di mandare ragazzi al macello nove volte su dieci.

"Bene.. Ragazzi miei, stringetevi la mano! Una dimostrazione di sana competizione è un buon modo per iniziare gli Hunger Games, non vi sembra?"

Io e Boltz ci avviciniamo al centro del palco e ci stringiamo la mano, una stretta abbastanza solida da tenerci entrambi sulle nostre gambe, e ci allontaniamo di nuovo, posizionandoci ai lati di Lacerta Argaez, che intreccia le proprie mani in un gesto simile a quello di una preghiera, i denti bianchissimi ed affilati che brillano al sole pomeridiano.

Il rettile umano ammicca alla telecamera, com aria complice, prima di dire l'ultima frase, la formula che, come ogni anno, renderà tutto spaventosamente reale.

"Perfetto... Buona fortuna, ragazzi, e che la fortuna possa sempre essere a vostro favore!"

. . .

La poltroncina di velluto me l'aspettavo più comoda.

Dopo la mietitura i pacificatori hanno preso me e Boltz per gli avambracci, come avessero paura di una nostra fuga, e ci hanno portati dentro al municipio, dove siamo stati separati in due stanze diverse dove, se non sbaglio, dovremo ricevere delle visite.

Sulla stanza non c'è molto da dire, ha un aspetto più lussuoso di qualunque cosa abbia mai visto, ma adesso, seduta sulla poltroncina di velluto rosso con le unghie affondate nei braccioli ed il piede che continua a sbattere nervosamente, non riesco a godermelo.

Il primo ad arrivare é mio padre, il viso pallido e gli occhi arrossati.

Non dice nulla, ma la prima cosa che fa appena la porta si chiude dietro di noi é abbracciarmi, una di quelle strette da orso che dava quando voleva evitare un discorso troppo scomodo.

Non mi lamento, e lo abbraccio a mia volta.

Restiamo così per qualche secondo, ok, forse più di qualcuno, prima di lasciarci, un silenzio pesante che aleggia nell'atmosfera già opprimente della stanza.

Nessuno di noi due è mai stato molto bravo con le parole.

Mio padre mi prende la mano e la porta alle labbra, guardandomi fisso negli occhi.

"Wira... Torna"

Vorrei tanto rispondergli che è impossibile, che in un'arena di ventiquattro tributi io non ho alcuna speranza.

Ma lo guardo negli occhi, e non ce la faccio.

Annuisco e, in un tacito accordo, mio padre lascia la stanza.

Quasi avrei voluto che restasse di più, ma sappiamo entrambi che non avremmo potuto reggere un altro secondo di quello strazio.

Prendo un respiro profondo e, proprio mentre ho cominciato a prendere fiato, entra lei, un uragano a piena potenza.

Mia madre.

Mi prende il viso tra le mani e, per un attimo, faccio quasi fatica a distinguere tutto ciò che dice, vomitato tanto in fretta da stordirmi.

"... sei intelligente, attenta, e so che sai usare bene le mani, ti ho visto con quelle tastiere, so che puoi vincere se giochi bene le tue carte, e... E... Sì, sei molto intelligente, e... So che ti ameranno a Capitol City, avrai tanti sponsor, e..."

Un'altro fiume di parole troppo appiccicate per essere distinte mi viene sbattuto in faccia.

"Mamma..."

"E... Puoi trovarti degli alleati, e... Fagli vedere che sai maneggiare gli attrezzi per le trappole, sarebbero impressionati..."

"Mamma!"

Le prendo il viso tra le mani, schiacciando le guance contro i palmi; la cosa sembra funzionare, perché, come ha cominciato a parlare, si zittisce immediatamente, e forse è meglio così, non posso guardarla illudersi in questa maniera, non in quelli che potrebbero essere i nostri ultimi momenti insieme.

Prendo un profondo respiro, mollandola lentamente.

"Puoi portare Els in fabbrica domani? Le ho promesso che lo avrei fatto io, ma... Sai, penso che sarà difficile"

Per qualche secondo regna un silenzio tombale, guardo mia madre, e riconosco il movimento di chi si sta mordendo l'interno della guancia tanto forte da renderlo insensibile e farlo sanguinare.

Alla fine annuisce, posso vedere i suoi occhi diventare lucidi come vetro pulito.

"Certo... Ma la porterai anche tu quando tornerai, chiaro? Gliel'hai promesso dopotutto, no?"

Prendo un profondo respiro, il cuore che sembra sprofondare dentro allo stomaco.

Perché non può accettare il fatto che le mie possibilità di tornare sono praticamente nulle?

Forzo un sorriso, ovvio che non vuole accettarlo, neanche io ci riuscirei, e starei piangendo in maniera decisamente più evidente al suo posto; mi limito, dunque, ad annuire, sapendo che sarà inutile.

"Farò del mio meglio"

Non ho nemmeno finito di dire l'ultima parola quando si getta al mio collo, le braccia strette attorno a me come avessi avuto sei anni e fossi stata al mio primo giorno di scuola.

É questione di pochi secondi, e la prima cosa che riesco a registrare dopo ciò è che sta correndo via, il rumore di singhiozzi soffocati che aleggia nell'aria.

Anche io mi sto sforzando di non piangere.

Non ancora.

Non posso piangere sia per me stessa, che per le telecamere che mi riprenderanno dopo; gli occhi gonfi non sono una gran cosa quando si cerca di sopravvivere in un gioco malato.

Mi sono appena seduta nella poltroncina, pronta a sprofondarci dentro per qualche secondo, quando la porta si apre una terza volta.

È Eletia.

Restiamo per un attimo in silenzio, immobili, mentre ci guardiamo dai due lati della stanza.

"Els..."

Anche Eletia viene ad abbracciarmi, ed io mi inginocchio, per poter ricambiare; perché lei, anche per la sua età, é bassina, e non arriverebbe più in alto del mio stomaco.

Ma stringe forte, più di quanto non abbia mai fatto prima.

E la realizzazione mi colpisce.

"Quanto ti hanno spiegato?"

Mia sorella affonda il viso nell'incavo del mio collo, e mi sembra di sentire dell'umido nella stoffa del mio abito.

"Papà ha detto che potresti non tornare..."

Brutale, ma nulla che non sia vero.

Mi dispiace soltanto che abbia dovuto avere questo tipo di spiegazione adesso, in questo modo.

La stringo un po' più forte e poi sciolgo l'abbraccio, in modo che lei sia di fronte a me, e ci guardiamo negli occhi.

Vorrei tanto poterle dire qualcosa, ma le parole mi restano bloccate in gola, ed è lei a dover fare tutto il lavoro.

"Ma non è vero, tu tornerai, giusto? Mi avevi detto che avremmo fatto il giro della fabbrica insieme"

"Eletia..."

"Me lo prometti, vero?"

Resto in silenzio per un attimo, cercando le parole migliori.

Non posso dirle di stare per morire, ma non posso nemmeno mentirle spudoratamente, non so se potrei perdonarmelo, e non so se lei potrebbe perdonare me.

Ma alla fine, decido di darmi alla seconda opzione, completamente consapevole di stare facendo qualcosa di imperdonabile.

"Lo prometto."

Dopo ciò restiamo in silenzio per un po', sedute per terra a tenerci la mano, fino a quando due pacificatori non entrano per dire che il tempo a disposizione è finito, trascinando via Eletia, che scalcia come un'ossessa.

Quando, alla fine, riescono a portarla via, altri due pacificatori entrano nella stanza e, di nuovo, mi prendono per gli avambracci.

Il tragitto verso il treno è breve, io e Boltz, che continua a mordersi il labbro inferiore, veniamo scortati sotto l'occhio vigile delle telecamere e poi, di nuovo, separati appena arrivati sul treno, in quelle che dovrebbero essere le nostre stanze.

E lì, in quella camera, ancora più lussuosa di quella al municipio, posso finalmente mettermi le mani fra i capelli, gli occhi tanto spalancati da farmi male, il respiro erratico.

Finalmente, mi lascio assorbire dal panico.

Cazzo.

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