Nella Nebbia
«Che diavolo sta succedendo?» piagnucolai, sentendo il cuore rimbombarmi nelle orecchie, addirittura più forte delle sirene che rimbombavano impazzite nella fortezza.
Improvvisamente, le mura esterne della città di Murias si illuminarono a giorno: grossi fuochi si accesero in tutte le torrette, talmente alti e luminosi da rischiarare la notte e, grazie al chiarore delle fiamme, riuscii a vedere una decina di sagome abbandonare il castello e dirigersi verso la città.
«Il Principe ha lasciato il palazzo» mormorai a Labhraidh, tenendo gli occhi incollati sull'alta e longilinea figura che sapevo appartenere a Domhnall.
«Sta andando verso quella... cosa?» domandò piano il mio migliore amico, con gli occhi sgranati fissi sulla nebbia che si faceva via via sempre più fitta.
«Pare di sì» mormorai, mordicchiandomi nervosamente un labbro.
La sirena cessò improvvisamente di suonare e Murias fu avvolta da una pesante coltre di silenzio. Per alcuni minuti non vi fu altro che una gelida quiete mentre la nebbia continuava ad avanzare, ammassandosi oltre le mura delle città, poi iniziarono le grida.
Urla disumane squarciarono la notte, seguite da ringhi animaleschi e feroci latrati, che mi fecero venire la pelle d'oca.
Rimasi immobile a fissare quella marea grigia vibrare e ribollire di creature estranee, con la mente in subbuglio e un insano desiderio di scoprire cosa diavolo si celasse sotto quella coltre, finché qualcuno bussò alla porta energicamente.
Sobbalzai e, guardinga, mi avvicinai all'uscio: «Chi è?» pigolai, cercando di spiare dal buco della serratura.
«Mia Signora?» domandò una musicale voce femminile, «Siete qui dentro?».
«Chi sei? Che vuoi?» domandai in un tono che mi uscì molto più secco e aggressivo di quanto avessi voluto a causa della paura che mi stava stringendo la gola.
«Il Principe mi manda per dirvi che...» la sua voce parve rompersi in un singhiozzo, «...che il palazzo è stato compromesso, mia Signora. Dovete assolutamente venire con me».
Sbattei un paio di volte le palpebre, incredula.
Deglutii sonoramente e domandai: «Dove... dove mi volete portare? Che diavolo sta succedendo?».
«Siamo stati attaccati dall'Orda, mia Signora; e lei ora mi deve seguire... tempestivamente» pigolò la donna al di là della porta, con la voce vibrante di paura.
Misi la mano sulla chiave della porta ma Labhraidh mi afferrò una spalla, fermandomi: «È sicuro?» mi domandò, con le scure sopracciglia aggrottate.
Feci spallucce: «Ne so quanto te. Se vuoi possiamo restare qui e aspettare...» esitai, e i miei occhi corsero alla finestra, oltre la quale si vedeva distintamente la fitta coltre di nebbia ispessirsi fino a raggiungere le cime dei pini più bassi.
«In realtà non ho molta voglia di scoprire cosa ci sia là dentro» ribadì lui, rabbrividendo e lasciando andare la mia spalla.
Aprii quindi la porta e mi ritrovai davanti una donna anonima con i ricci capelli biondo grano raccolti sopra la testa, in modo tale da mostrare le arrotondate – e umane – orecchie.
«Presto, mia Signora, venite con me» mormorò la domestica, affrettandosi lungo il corridoio con passi minuscoli e silenziosi.
«Dove stiamo andando?» domandai, guardandomi intorno con gli occhi grossi quanto due biglie, in cerca del minimo segno di pericolo.
«In un posto sicuro» mormorò quella, «Questa fortezza pullula di passaggi segreti e camere blindate, quindi ci nasconderemo in una di queste finché la minaccia non sarà passata».
«Questa cosa accade spesso?» domandò Labhraidh e, una volta che io ebbi tradotto, la domestica gli rivolse un sorrisetto divertito: «Ci farete l'abitudine».
La seguimmo lungo un paio di corridoi spogli e freddi, illuminati solo dal baluginare delle candele dei candelabri, poi scendemmo una rampa di scale e poi un'altra.
La donna si fermò su un pianerottolo e, fissando Labhraidh, disse: «Prendi quel candelabro, per favore».
Lui, dall'alto del suo metro e ottantacinque, non si dovette nemmeno alzare in punta di piedi per prenderlo: non appena lo ebbe rimosso dal piedistallo, ci fu un sibilo sinistro e il muro in pietra si spalancò davanti ai nostri occhi.
«Per la miseria» fischiai, inspirando il pungente odore viziato di muffa e umidità che proveniva dal buio tunnel che si era aperto nella roccia del castello.
«Forza, mia Signora, si sbrighi» mi incitò la domestica, così io mi avviai lungo il tortuoso corridoio, per poi bloccarmi non appena la porta si chiuse con un tonfo sommesso alle mie spalle, lasciandomi immersa nell'oscurità più profonda.
«Non smetta di camminare, forza!».
«Labhraidh?» domandai, cercandolo a tentoni nel buio, mentre le fredde manine della donna mi pungolavano la schiena per spronarmi a procedere.
La mia domanda non ottenne risposta, così mi voltai e affilai lo sguardo, cercando il mio migliore amico fra le fitte tenebre del tunnel.
«Labhraidh?» chiamai di nuovo, scacciando le mani della domestica e procedendo a tentoni a ritroso, seguendo con i polpastrelli il profilo delle pareti della galleria.
«Il vostro amico non ci può seguire, mia Signora» mi bloccò la voce sottile della donna.
«Che significa?».
«Gli umani non meritano di stare con voi, mia Signora» continuò quella, il suo tono che si faceva via via più affilato, quasi un sommesso sibilo.
«Labhraidh non è...» tentai di dire, ma fui interrotta di nuovo: «Buona notte, mia Signora».
L'ultima cosa che vidi prima che la testa mi esplodesse di dolore e il buio calasse sui miei occhi fu il viso serafico della cameriera, le cui labbra erano distese in un ampio sorriso che rasentava la follia.
Quando mi risvegliai, la testa mi pulsava come se mi si fosse spaccata in due e luci colorate scoppiettavano dietro le mie palpebre chiuse.
«Ma che cazzo...» mormorai dolorante, portandomi una mano alla fronte e rotolando debolmente su un fianco. La mia guancia affondò nel terriccio e io inspirai polvere secca, che mi causò un attacco di violenta tosse che non fece altro che peggiorare notevolmente il mio mal di testa.
Quando infine riuscii a riprendere fiato, mi misi carponi e sbattei lentamente le palpebre, cercando di mettere a fuoco l'ambiente circostante. Per un secondo mi parve di essere immersa in una marea bianca, densa come schiuma di mare dopo una tempesta, ma, quando l'intontimento dovuto alla botta ricevuta in testa si acquietò e la mia mente si fece meno appannata, mi resi conto di essere in mezzo alla nebbia.
Un brivido di puro terrore mi fece tremare le ginocchia tanto che, se fossi stata in piedi, sarei caduta a terra.
Alberi secchi e contorti emergevano dalla coltre bianca, i loro rami come scheletriche dita protesi verso di me come se mi volessero stringere in un abbraccio mortale; e nastri di nebbia densa si avvolgevano agli arbusti del sottobosco, tanto che la vegetazione pareva fluttuare in un mare di nubi. L'umidità era tanto intensa che i vestiti mi si erano appiccicati addosso, bagnati come se fossi appena uscita dall'acqua, e la respirazione era quasi difficoltosa.
La cosa più terrificante, però, era il silenzio.
Non un solo uccello cantava, non uno scoiattolo affondava i minuscoli artigli nella corteccia di un albero, non un coniglio spezzava i rametti del sottobosco: la foresta pareva essere avvolta di un candido manto insonorizzato, come se la nebbia stessa fosse in grado di nascondere agli occhi il paesaggio e, contemporaneamente, alle orecchie i rumori.
Non sapevo come diavolo fossi finita al di fuori delle mura ma, sicuramente, sapevo benissimo che non avrei dovuto trovarmi lì per alcun motivo al mondo.
«Che gli Dei mi assistano» mormorai in un sussurro talmente sommesso da confondersi con il sibilo del vento che, gelido, soffiava debolmente da nord.
Cercai di alzarmi in piedi a tentoni ma, ancora intontita a causa della botta alla testa, il mio piede spezzò accidentalmente un ramoscello. Il rumore parve riecheggiare forte come uno sparo nella foresta muta e, in risposta, un barbarico grido si levò a qualche centinaio di metri da me. In pochi secondi, una decina di altre voci si levò dal bosco unendosi al primo richiamo, ed io seppi di essere circondata da quelle creature nefande che si celavano nella nebbia.
Una sorda paura mi attanagliò le viscere, violenta come mai l'avevo sperimentata prima, paralizzante al punto tale da costringermi in ginocchio.
Gli ululati rabbiosi, pervasi quasi da un'eccitazione del tutto umana, mi invasero le orecchie e mi affossarono il cuore nelle scarpe. Mi raggomitolai ai piedi di un albero, stringendomi le ginocchia al petto, pregando che la mia magia sapesse come difendermi da quelle cose... ma tutto ciò che provai fu un gelido terrore invadermi da dentro.
Il freddo si propagò in tutto il mio corpo come una brutta malattia e, quando sentii le fiamme della mia magia spegnersi nelle mie vene, compresi che il gelido terrore che mi aveva attanagliata non aveva nulla di naturale.
Udii guaiti e latrati e, improvvisamente, una sagoma si stagliò nera nel mare di nebbia bianco che ricopriva la foresta. La creatura si erigeva sulle quattro zampe, gli arti lunghi e umanoidi erano deformi e ricurvi, la testa era piccola e la schiena acuminata come spine di un pesce. Fece un paio di passi nella mia direzione, rimanendo comunque avvolto in un sudario candido, poi guaì con voce umana e fuggì lontano.
Rimasi immobile qualche secondo, trattenendo il respiro nel tentativo di captare anche i minimo scricchiolio nella foresta che mi circondava; poi mi voltai lentamente e scrutai fra gli alberi, alla ricerca di sinistre forme umanoidi. Vedendo che la strada appariva libera, strisciai di albero in albero muovendomi il più silenziosamente possibile, sbattendo i denti a causa del gelido terrore che ancora mi attanagliava.
Mi resi ben presto conto che non ero l'unica a percepire quella viscerale paura, infatti anche le bestie che fino a poco priva ululavano spavalde, facendo tremare le fondamenta della fortezza con le loro possenti grida, ora guaivano spaventate e parevano nascondersi, proprio come stavo facendo io. La consapevolezza che in quella foresta ci fosse qualcosa di talmente terrificante da intimorire anche quelle creature feroci mi angosciò tanto da farmi salire le lacrime agli occhi.
Presi un respiro profondo e mi imposi di mantenere la calma, poi proseguii di albero in albero, un metro alla volta, cercando di raggiungere le mura della fortezza.
Passò il tempo e smisi di percepire il terrore attanagliarmi gli organi interni: iniziai quindi a provare freddo, il normale freddo di un bosco umido, e paura, la normale paura umana. Da un lato mi sentii sollevata nel non essere più terrorizza a morte ma, d'altro canto, lontani ululati feroci ripresero a squarciare il silenzio della foresta: le creature, non più spaventate, erano tornate aggressive e violente.
Affrettai quindi il passo nel tentativo di allontanarmi il più possibile dal luogo in cui sentivo le bestie aggirarsi impazienti, quando un sibilo acuto perforò l'aria e un dolore lancinante mi colpì il braccio.
Un grido spezzato mi fece tremare la gola e, mentre mi portavo una mano all'arto trafitto da quella che mi accorsi essere una freccia di ferro, udii qualcuno esclamare: «Ne ho colpito uno! Venite, presto, credo sia ancora vivo!».
Digrignando i denti per non urlare, ringhiai: «Non mi avrai ammazzata, ma potresti avermi strappato un braccio, razza di idiota!».
In un batter d'occhi, una fata dai lunghi capelli neri si materializzò di fronte a me: «Mia Signora? Che diamine ci fate qua fuori?! Avremmo potuto... per gli dei, sareste potuta morire!».
Al fianco della giovane fata comparve poi un altro soldato, un guerriero che – viste le innumerevoli cicatrici che gli deturpavano il volto – aveva visto uno spropositato numero di battaglie: questi strattonò il compagno lontano e mi afferrò per le spalle, stringendomi in una ferrea morsa.
«Siete stata attaccata dalle bestie?» mi domandò con voce gelida, scrutando ogni centimetro del mio corpo con penetranti occhi verdi color l'acquamarina.
«Mi fate male!» annaspai, con il braccio in fiamme e le dita della fata che parevano voler scavare solchi dentro la mia pelle.
«Siete stata attaccata?!» ribadì quello, inflessibile.
«No, per gli dei! No! Mi avete trafitta voi con una di queste maledette frecce! Non so nemmeno se la mia vaccinazione antitetanica sia ancora valida, e voi sicuramente non l'avete... oh, per gli dei, ora prenderò il tetano e morirò sicuramente» blaterai, sentendo la testa sempre più leggera.
«Sta delirando, ha perso molto sangue» decretò il soldato pieno di cicatrici, «Portala al castello, Seigh, e affidala a un guaritore. Io seguirò i Maledetti, voglio capire perché si sono ritirati così in fretta» aggiunse, scaricandomi come un sacco di patate fra le mani del ragazzo dai capelli neri.
«Non vada!» lo richiamai, agguantandolo per la cotta di maglia, «Là fuori c'è qualcosa... qualcos'altro...».
Le mie dita artigliarono l'acciaio della sua armatura e, incalzata dal suo severo sguardo, deglutii: «Mi ha messo addosso una paura del diavolo, credevo di morire di terrore... o di freddo. Quei cosi sono scappati come cani impauriti, invece che attaccarmi».
Una pesante imprecazione lasciò le labbra del soldato esperto: «Un Figlio di Badb. Per gli dei, credevo fossero estinti, quei maledetti».
Con un'altra imprecazione, si scrollò di dosso la mia mano e si immerse nella fitta nebbia, muovendosi agile e veloce come una pantera a caccia.
«Cos'è un Figlio di Badb?» domandai alla giovane fata dai capelli neri, sperando che una distrazione mi avrebbe aiutata a meglio sopportare il malsano pulsare al braccio destro.
«Badb è la dea della Paura, sorella della Morrigan e di Macha. A differenza delle due sorelle, che prediligevano la loro forma umana, Badb ha solcato questo mondo solo sotto forma di corvo, e in quella forma ha generato i suoi figli: creature estremamente rare, con l'aspetto di corvi albini e la mente completamente animale, hanno come unico scopo instillare la paura negli animi. Sono esseri innocui, ma sono un'enorme seccatura se incontrati in battaglia. A voi hanno salvato la vita, quest'oggi» mi disse il soldato, trasportandomi in braccio nel fitto del bosco.
«Oh, ehm... ringrazierò Badb questa sera, allora» borbottai, i denti serrati in una morsa per non urlare di dolore.
La risata del soldato rimbombò nel suo petto e mi fece ondeggiare fra le sue braccia, ma si acquietò non appena gli ululati e le grida ricominciarono a scuotere la foresta.
Accennando con il mento alla direzione dalla quale provenivano le grida, il soldato sussurrò: «Di loro, invece, abbiate paura, mia Signora».
«Ne ho, non ci sono dubbi» mormorai, rabbrividendo e stringendomi inconsapevolmente al petto della fata.
Il trambusto si protrasse per quasi un'ora, poi, lentamente, tornò la calma. In infermeria trovai Labhraidh, che era stato informato del mio arrivo e mi stava aspettando insieme ad un guaritore, il quale mi fasciò il braccio dopo averci spalmato un unguento che, a suo dire, mi avrebbe resa come nuova in un paio di ore.
Quando infine lasciammo l'infermeria, sbirciando da una delle tante finestre del corridoio che conduceva alla sala principale, io e Labhraidh osservammo in silenzio il modo in cui i tentacoli di nebbia si ritraevano fra gli alberi e risalivano lungo la montagna, portandosi dietro le orrende creature urlatrici.
Quando finalmente vi fu silenzio, sospirai di sollievo.
«Che diavolo è stato?!» tuonai a gran voce non appena mi ritrovai nella sala comune, di fronte al rosso consigliere del Principe.
«La nebbia» fu la sua fredda risposta, al che io mi misi le mani fra i capelli: «L'ho capito!» strepitai, «L'ho vista, la nebbia! Quello che non capisco è cosa diavolo ci fosse dentro!».
«I Maledetti. La Nebbia nasconde i Maledetti» la fredda voce di Domhnall sferzò l'aria e io mi voltai verso il portone, dov'egli sostava a braccia incrociate.
Gli diedi un'approfondita occhiata per assicurarmi che fosse tutto intero, facendo scivolare gli occhi sulle sue ampie spalle coperte da una pelliccia nera e scendendo sulle sue gambe tornite avvolte in pantaloni di cuoio, e, quando mi sincerai che egli fosse effettivamente vivo, riportai lo sguardo sul suo viso.
«Che diavolo sono i Maledetti?» domandai, fissandolo dritto nei suoi profondi occhi neri.
Domhnall sospirò ed entrò ad ampie falcate nella sala, ma, notando la fasciatura al mio braccio, domandò: «Cosa vi è successo?».
Una risatina isterica mi squassò il petto: «La vostra cameriera mi ha tramortita e scaricata nella foresta, fuori dalle mura, fra quei... quei cosi! Cosa sono quelle bestie?!».
«Siete stata attaccata? Graffiata, morsa?» domandò lapidario Domhnall, la faccia cerea.
«No! Quei cosi sono fuggiti quando è arrivato un Figlio di Badb, il corvo che fa paura. Questa ferita me l'ha fatta un vostro soldato con una freccia, ma ora sto bene» sbottai, riassumendo in modo orribile ciò che mi era successo quel pomeriggio.
Domhnall, purtroppo, non apprezzò le mie doti di sintesi: volle una descrizione completa e dettagliata di tutti i fatti, sia da parte mia che da parte di Labhraidh e, dopo averci torchiati per quaranta minuti buoni, uscì dalla sala come un'ombra nera.
Tornò solo un'ora più tardi e, senza una parola, si andò a sedere al tavolo, dove piatti di pesce ormai freddo giacevano intoccati.
Sotto la forte luce del lampadario, la pelle del suo viso appariva pallida e tesa ed io mi domandai cos'avesse fatto fino a quel momento il Principe di Murias.
«Adesso mi volete dire cosa diavolo sono i Maledetti?» lo interpellai, fregandomene del suo stato d'animo apparentemente nero.
Domhnall sospirò profondamente e, mentre si rilassava contro lo schienale della sedia, i suoi occhi neri come la pece trovarono i miei, bruciandomi con la loro intensità.
«I Maledetti erano fate, proprio come noi» mormorò, versandosi un abbondante calice di vino, «Sono diventati ciò che sono ora per colpa degli umani».
«Degli... degli umani?» domandai esitante, convinta di aver capito male.
«Trovate così difficile credere che gli umani possano costituire una minaccia per noi?» mi domandò con voce suadente il Principe, inarcando un sopracciglio nero.
«Io, ecco... sì. Voi siete...» esitai, sperando di non sembrare una leccapiedi, «... siete molto potenti, e loro sono... umani, appunto».
Una risata gorgheggiò dal petto del consigliere, ma fu Domhnall a rispondermi: «Avete fatto il medesimo errore che facemmo noi ai tempi: sottovalutare gli esseri umani, uno sbaglio che si rivelò quasi fatale per la nostra specie».
«Come... com'è possibile?» domandai, fissando gli immensi occhi neri del Principe e ricordando che egli avrebbe potuto farmi scoppiare il cuore nel petto con la sua sola forza di volontà.
«Gli umani di allora erano... brillanti. Avevano sviluppato delle tecnologie che rasentavano la nostra magia» mormorò Domhnall ed io lo fissai con tanto d'occhi, incredula di fronte a quella rivelazione.
«Noi ci limitammo ad osservarli per anni, incuriositi da questi mortali che giocavano a fare le divinità, manipolando gli elementi con le loro strane macchine e dando vita a congegni umanoidi di metallo, senza immaginare le conseguenze di quelle invenzioni. Quando ci rendemmo conto dei loro belligeranti intenti era ormai troppo tardi».
Quando proseguì, la voce di Domhnall divenne dura come il granito: «Ci scaricarono addosso una pioggia di fuoco talmente intensa che nemmeno la nostra padronanza dell'acqua riuscì ad impedire ai nostri boschi e ai nostri villaggi di bruciare come foglie secche. Uccelli di metallo sorvolavano i nostri cieli con un fracasso bestiale, sganciando uova nere che si frantumavano in milioni di schegge non appena toccavano il suolo, menomando chiunque si trovasse nelle vicinanze. Fecero una carneficina».
Aerei e bombe a grappolo.
Gli umani di quel mondo erano riusciti ad inventare gli aerei e delle dannatissime bombe a grappolo, e li avevano usati per sterminare le fate.
Mi umettai le labbra secche e nascosi le mani dai palmi sudati in tasca, cercando di non apparire troppo scioccata dal racconto del Principe.
«Probabilmente gli umani avrebbero vinto la guerra, se non fosse stato per Saraid, la tua antenata, e per Lúg, il suo compagno» mormorò il consigliere, ogni traccia di ilarità scomparsa dal suo volto barbuto.
«Saraid mandò le sue legioni di non-morti a combattere contro eserciti di creature metalliche dalla forma umanoide, e ne uscì vincitrice. Annientò la fanteria di metallo e poi si scatenò contro le truppe mortali, uccidendo un numero di soldati talmente elevato che la terra del campo di battaglia rimase rossa per mesi, a causa del sangue versato. È a lei che dobbiamo la nostra sopravvivenza» spiegò Domhnall, fissandomi negli occhi con espressione amareggiata.
«E i Maledetti? Che c'entrano in tutto questo?» domandai piano.
«Ci sto arrivando» sorrise il Principe, poi continuò: «Gli umani sapevano di non avere più alcuna chance di vittoria, non con Saraid che aveva annientato i loro eserciti... così hanno fatto ciò che fanno tutti i topi quando vengono messi all'angolo: mordere. Gli umani hanno scelto di usare un'arma... mai vista prima».
«Dicono che fosse come il tramonto del Sole, ma in piena notte» si intromise un Fae a me sconosciuto, mettendosi la mano sul cuore con espressione impaurita.
«Qualunque cosa fosse, rase al suolo la Città di Velias. Un singolo ordigno fu in grado di vaporizzare una nostra intera Città, nonostante le protezioni e gli incantesimi, uccidendo quasi tutti gli abitanti, uccidendo il nostro Sovrano. Tutto ciò che rimane ora di Velias è lo scheletro del palazzo reale, che ora viene chiamato Castello Nero per via del colore che hanno assunto i muri in seguito all'esplosione».
«Oh, per gli dei» sbottai, afferrando una sedia e cascandovi sopra a peso morto.
La dimora di Finvarra era... era la capitale del suo regno, una capitale distrutta da una bomba lanciata dagli umani.
«Dille dei Maledetti!» si intromise di nuovo il consigliere, facendo sbuffare Domhnall per l'esasperazione: «Ci sto arrivando!» borbottò.
Si passò una mano fra i capelli neri e proseguì: «Quando andammo in soccorso agli abitanti di Velias ci aspettavamo che ci fosse qualcuno da aiutare, ma non... non era rimasto più nulla che valesse la pena salvare. Buona parte degli abitanti era stata completamente vaporizzata nell'esplosione: di loro erano rimaste nemmeno le ossa per dare loro una degna sepoltura; mentre i cittadini che non erano morti... loro avevano subito una fine addirittura peggiore».
Il Principe deglutì e distolse lo sguardo da me, fissandosi le unghie: «Erano diventati aggressivi. Erano violenti, incapaci di riconoscere le facce amiche... affamati. Erano sempre affamati di sangue, e attaccavano qualunque cosa potesse fornire loro un po' di nutrimento, indistintamente: umani, mezzosangue, fate... a volte anche animali. Riuscimmo ad ucciderne alcuni, ma la maggior parte riuscì a fuggire e ad organizzarsi: impararono a nascondersi nella nebbia e, da quel momento in poi, scorrazzano per il continente settentrionale indisturbati».
«Non potete... ucciderli?» domandai titubante.
Il Principe mi rivolse un sorriso triste: «Lo facciamo, quando ne abbiamo l'occasione. Io ne ho uccisi cinque questa sera stessa, ma loro... loro si riproducono più rapidamente di quanto noi li riusciamo ad uccidere».
Un brivido gelido mi corse lungo la schiena: quelle cose disumane si... si riproducevano?
«Consolati, ragazza» esclamò il consigliere barbuto, «Se il Figlio del Sole non avesse intercettato il secondo ordigno, anche Gorias avrebbe fatto la stessa fine di Velias... quindi si può dire che le cose sarebbero potute andare molto, molto peggio».
«Lúg ha fatto cosa?» sbottai, non riuscendo a credere che proprio Lúg, la fata più maledettamente egoista che io conoscessi, avesse effettivamente fatto qualcosa di buono per la comunità.
«Rispedì l'ordigno al mittente. Purtroppo l'esplosione avvenne in cielo, quindi gli umani non subirono perdite così ingenti, ma ho sentito dire che l'onda d'urto distrusse un paio delle loro belle città di vetro scintillante» gongolò il consigliere, dondolandosi sulla sedia con un sorriso smagliante dipinto sul viso.
«E poi com'è finita? La guerra, intendo» domandai, ormai completamente rapita dal racconto delle due fate.
Mi rispose Domhnall, con una voce leggera velata di soddisfazione: «Saraid inviò le legioni di non-morti a Sud, mentre Lúg guidò le sue truppe nel Nord e insieme fecero a pezzi ogni tentativo di resistenza, stringendo gli umani in una tenaglia di ferro e sangue. Finvarra, diventato Sovrano del Regno, vendicò la distruzione della capitale radendo al suolo ogni laboratorio, centro di ricerca o luogo di studio umano. Bruciò tutti i libri, uccise tutti gli scienziati e cancellò ogni traccia di tecnologia dal loro mondo. Ora loro vivono come vivevano i loro antenati nei lontani tempi antichi, affamati e stanchi, e le loro vite non sono altro che il fievole baluginio della fiamma di una candela in una nottata ventosa. Nascono in povertà e muoiono in povertà, soffocati dai loro sovrani tiranni e costretti ad una vita di stenti».
Deglutii a fatica il nodo che mi si era formato in gola, incapace di digerire una verità tanto cruda.
Le fate erano creature immortali e poco inclini al perdono, il che significava che un torto compiuto nei loro confronti sarebbe rimasto vivido nella loro memoria per interi millenni... e ciò era stato una condanna per gli umani.
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