L'Isola dell'Upupa
Helloooo, it's me again!
Non sono morta anche se, vista la mia lunghiiissima assenza, potrebbe essere sembrato il contrario. Scusatemi per i due mesi di assoluto silenzio, ma ho avuto un casino di cose da fare e non ho avuto nemmeno un secondo libero per scrivere e aggiornare... ma ora sono tornata, e sto cercando di rimettermi un po' in carreggiata con la scrittura.
Vi consiglio di andarvi a rileggere il capitolo precedente - io stessa ho dovuto farlo perché non mi ricordavo assolutamente un'acca di dove diavolo fossi arrivata a scrivere - perché questo qui è connesso al precedente ed è pieno di cose e persone e casini.
Comunque sia, se non vi va di rileggerlo tutto vi faccio un sunto io: ci eravamo lasciati con Rowan che, stufa di essere priva di poteri e stanca di essere sempre fragile e terrorizzata, decide di fidarsi di Lùg e chiedere il suo aiuto per recuperare i suoi poteri. Il Generale acconsente ad aiutarla ma, per poterlo fare, ordina a Rowan di prelevare il suo sangue dal Mausoleo degli Eroi, localizzato sull'Isola dell'Upupa, e di evocarlo di fronte al fuoco. Rowan si reca quindi a Gorias e al porto si imbatte nel Traghettatore, colui che conduce i defunti all'Isola dei Morti, anche nota come Isola dell'Upupa. La nostra Row scopre quindi che si dovrà imbucare ad un funerale per poter raggiungere l'Isola e recuperare il sangue di Lùg... e qui si concludeva il capitolo precedente, quindi ora vi lascio a quello nuovo.
Come al solito, spero il capitolo vi piaccia; fatemi sapere cosa ne pensate e... buona lettura!
A presto!
***
«Torno subito» mentii al timoniere e, afferrando il mantello nero che Morven mi aveva donato quella mattina stessa, saltai giù dalla barca con passo aggraziato.
Ignorando il borbottio della fata alle mie spalle, mi diressi con finta sicurezza verso il gruppetto di persone radunato sul molo, camminando con la schiena diritta e con un'espressione dura sul volto, mentre cercavo di ignorare la vocina nella mia testa che mi stava strillando che, prima o poi, la mia impulsività mi avrebbe fatta uccidere.
Mi accostai alle fate in lutto e, con il cappuccio calato in testa e il mantello stretto attorno al corpo, attesi insieme a loro l'arrivo della barca che ci avrebbe portati sull'Isola dell'Upupa.
Nessuno parve prestare attenzione a me, come se fossi un'ombra immobile e intangibile, ma quando finalmente una chiatta iniziò ad attraccare al molo, sentii più di uno sguardo posarsi sulla mia figura coperta. Ignorai tutte le occhiate e mi comportai come se avessi tutto il diritto di trovarmi lì insieme a quella famiglia in lutto e, quando le fate iniziarono a salire a bordo, io mi accodai a loro.
«Chi sei tu?» mi bloccò una voce burbera, e una presa ferrea si strinse al mio avambraccio.
Ricacciai la paura nella parte più recondita di me e assunsi l'espressione più da stronza del mio repertorio: «Chi sei tu?» sbottai, scostandomi leggermente il cappuccio dal volto e fulminando l'uomo che mi aveva fermata, con gli occhi ridotti a due fessure.
«Saraid?!» esclamò quello, indietreggiando immediatamente con un'espressione di stupore mista a orrore in viso, «Voi eravate morta!».
Incrociai le braccia al petto e ghignai come avevo visto fare da Lùg: «Ti sembro forse morta?» lo derisi. Gli diedi quindi una leggera spallata e lo sorpassai, mettendo finalmente piede sulla chiatta: «Voglio porgere i miei ossequi al defunto, me lo vuoi forse impedire?» domandai con voce morbida, senza smettere di fissarlo negli occhi.
La fata sostenne per qualche secondo il mio sguardo, ma poi chinò la testa e mormorò: «Certo che no, mia Signora. Siamo grati della vostra presenza qui».
Annuii senza rispondere e, mentre mi avvicinavo al parapetto, sentii gli sguardi di tutti i presenti studiarmi con sospetto, ma ignorai le loro occhiate e mantenni una postura autoritaria, cercando di imitare il modo di muoversi sciolto e sicuro di Saraid.
La barca iniziò a muoversi improvvisamente e io ringraziai di essermi appoggiata alla ringhiera, altrimenti sarei cascata per terra come una pera facendo una figura ben poco signorile.
Osservai il molo allontanarsi rapidamente e mi sentii leggermente in colpa per aver mentito così spudoratamente al timoniere; sperai che Morven non se la prendesse con lui per le mie decisioni poco assennate.
«Perché siete qui, mia Signora?» mi domandò una voce dopo svariati minuti di viaggio passati in silenzio, «Voi non conoscevate Albiun... perché venire alla cerimonia del suo trapasso?».
Sollevai lo sguardo su una fata dalla pelle color caramello, apparentemente di mezz'età, con i capelli rossi e mossi e gli occhi di un innaturale rosa confetto; la studiai con calma per qualche secondo e poi risposi: «La morte mi ha fatto vedere le cose sotto una luce diversa».
Lei aggrottò le sopracciglia e vidi i suoi occhi concentrarsi sull'anello che portavo al collo: «Non vi lascerò riportarlo indietro» sibilò, e l'ira le infiammò le guance.
Lasciai comparire un indolente sorriso sul mio viso: «Non ho bisogno di lui, non vi preoccupate... ho già i miei fedeli amici, che mi seguono ovunque io vada» mormorai, ammiccando.
La donna impallidì e iniziò a guardarsi attorno con discrezione, cercando i miei scheletri fra le ombre della nave e nei punti ciechi del ponte, ed io non riuscii a trattenere un ghigno compiaciuto: impersonare Saraid si stava rivelando... divertente. Il terrore che il mio volto – il suo volto – incuteva era genuino e il rispetto con cui tutti mi trattavano era spolverato di inquietudine, ed io... adorai non sentirmi in pericolo, impaurita e inerme. Il potere che derivava dall'impersonare una creatura come Saraid era straordinariamente... inebriante.
Nessuno mi rivolse più parola per la restante parte della traversata. Rimasi sola sul ponte, con le braccia poggiate al parapetto e i capelli scompigliati dal vento lacustre, osservando distrattamente le increspature scintillanti dell'acqua.
La barca procedette silenziosamente, con il solo sciabordio delle onde sullo scafo come sottofondo, e rallentò soltanto quando una leggera nebbiolina iniziò a strisciare a pelo d'acqua. Scandagliai l'orizzonte e il mio sguardo si perse in un banco di nebbia lontano, che divorava il lago e il sole, e un brivido di gelo mi increspò le braccia.
Ben presto fummo avvolti da una spessa coltre fumosa e non riuscii più a distinguere nulla a più di un metro di distanza, così mi strinsi al parapetto e cercai di concentrarmi sull'udito, ma nemmeno un suono proveniva dalla nebbia.
Improvvisamente, la barca ebbe uno scossone e si arenò in quella che pareva sabbia vulcanica, nera come l'inchiostro, e una voce echeggiò fra la nebbia: «Siamo giunti all'Isola dell'Upupa. Vi consiglio caldamente di rimanere uniti e di non vagabondare, perché chi si perde in questo luogo rischia di appartenergli per sempre... e non seguite gli spiriti, se non volete perdere il senno!».
Dopo l'inquietante monito, le fate si avviarono silenziosamente giù dalla barca ed io mi accodai a loro, mascherando la paura che provavo dietro ad un'espressione annoiata.
I miei piedi affondarono nella sabbia vulcanica e, quando la nebbia si diradò un poco, scoprii di trovarmi in un'ampia spiaggia a mezzaluna abbracciata da una fitta vegetazione di spine e rovi.
Un sentiero di candele indicava la strada da seguire e il danzare delle fiammelle creava giochi di luce fra i filamenti di nebbia, disegnando sagome quasi umane nella mia visione periferica. Superammo la spiaggia e ci inoltrammo fra gli sterpi; con un certo shock, mi resi conto che qua e là, disseminate fra gli arbusti, vi erano lapidi ingrigite dalle intemperie e spaccate dal tempo, avvolte dai rovi e abbandonate alla foresta.
«Quando un defunto viene dimenticato, quando nessuno fra i vivi pronuncia più il suo nome, la sua lapide viene reclamata dall'isola e diventa parte della stessa» sussurrò la medesima voce che poco prima ci aveva messi in guardia, provenendo da tutte le direzioni eppure non appartenendo ad un corpo fisico.
Rabbrividii quando mi resi conto che le tombe senza nome occupavano l'intera foresta, spuntando ai piedi degli alberi come funghi o nascondendosi fra i rovi dei cespugli spinosi, e mi domandai quante fate fossero state seppellite lì e poi dimenticate nel corso dei millenni.
Raggiungemmo quindi una radura costellata di lapidi lucide e aguzze, sottili pezzi di pietra scolpita che rappresentavano una vita spezzata, e compresi che avevamo raggiunto la parte dell'isola più "recente", quella dov'erano seppellite le fate che ancora venivano omaggiate e ricordate dai vivi.
Prestai attenzione ai nomi incisi sulle tombe, in cerca di quella che avrebbe potuto appartenere a Lùg, ma non riuscii a scorgere il suo nome quindi proseguii seguendo ancora il sentiero di candele.
Attraversammo un nuovo boschetto di rovi e, fra le fitte fronde degli alberi spinosi, baluginò la luce di un fuoco. Affinai lo sguardo, seguendo il bagliore aranciato, e quando infine emersi dalla vegetazione rimasi basita nel trovarmi di fronte un maestoso tempio costruito in una pietra nera come la notte.
Il tetto era a punta e sostenuto da imponenti colonne intarsiate, alle quali erano agganciate torce che ardevano di un fuoco perpetuo; le fiamme aranciate illuminavano il timpano del tempio, che recava incisioni in una lingua a me sconosciuta.
Il pianto di una donna distrasse la mia attenzione dalla costruzione e, voltandomi verso il macabro suono, mi resi conto che le altre fate erano andate avanti e che avevano raggiunto quella che sarebbe stata, per l'eternità, la dimora di Albiun, il loro caro defunto. La singhiozzante moglie stava accarezzando dolcemente una lapide bianca come un osso, mentre gli altri parenti si sostenevano l'un l'altro, sussurrandosi parole di incoraggiamento.
Osservai la scena da lontano per qualche istante, poi i miei occhi corsero nuovamente all'immenso tempio che si erigeva di fronte a me... e compresi che quello era il Mausoleo degli Eroi, una struttura magnifica ed eterna, perennemente illuminata dal fuoco perché gli eroi erano leggende viventi e non avrebbero mai abbandonato i racconti delle fate, non sarebbero mai stati dimenticati.
Lùg era una fata leggendaria, le cui gesta venivano narrate dai genitori ai figli prima di dormire e ricordate dai soldati attorno al falò prima della battaglia; sussurrate nei freddi inverni nevosi e nelle calde nottati estive. Indipendentemente da quante battaglie avesse vinto in passato o da quante ne avrebbe combattute in futuro, da quante vite avesse strappato o salvato, da quanti altri giorni, o anni, o millenni ancora avrebbe vissuto, il suo nome non sarebbe mai stato dimenticato... quindi il suo posto, una volta che egli fosse morto, sarebbe stato lì, nel Mausoleo degli Eroi.
Silenziosa come un'ombra, mi diressi verso il tempio e quando il mio piede si posò sulla pietra nera del primo gradino percepii una scossa penetrarmi la carne, come ad avvertirmi che quel luogo non era fatto per i vivi.
Nonostante l'inquietudine che mi rendeva i palmi delle mani umidi di sudore freddo, proseguii ed entrai nel tempio. Grandi bracieri rischiaravano l'ambiente, rendendolo quasi accogliente, così riuscii chiaramente a distinguere una decina di nicchie incassate nel muro, ciascuna dedicata ad una fata in particolare.
Sapendo però di non avere il tempo per curiosare, mi diressi verso il fondo del tempio, dove una stretta scalinata si inabissava nella penombra delle catacombe sottostanti, luogo in cui Lùg mi aveva detto che avrei trovato il suo loculo.
Guidata dalle tremule fiammelle provenienti dalle torce appese alle pareti e con i denti che battevano a causa del gelo che via via aumentava mentre proseguivo nella discesa, scesi i gradini finché giunsi in fondo alla scalinata. Di fronte a me si estendeva un'ampia sala dal soffitto a botte costolonata e, sollevando la torcia verso l'alto, vi vidi dipinto un immenso affresco che rappresentava il cielo notturno, impreziosito da luccicanti pietre che scintillavano come stelle nella volta celeste.
Una brezza innaturale che sapeva di bosco e d'inverno mi scompigliò i capelli, ed io pensai che non mi sarebbe dispiaciuto passere l'eternità in un luogo come quello.
Mi addentrai timorosamente fra le catacombe, sbirciando le nicchie di eroi antichi e temuti, osservando l'oro, le spade e le tele contenuti al loro interno, ma fu solo di fronte all'ultima che mi fermai: un immenso cancello d'argento ne bloccava l'ingresso, ed io seppi con certezza che quello era il luogo in cui Lùg aveva nascosto il suo sangue.
Cercai di aprire manualmente il cancello ma quello non si mosse nemmeno di un millimetro, come se le inferriate fossero fissate alle pietre del pavimento, così presi un breve respiro e mormorai in un soffio: «Luce Stellare».
Le sbarre del cancello si ritrassero di colpo nel pavimento e nel soffitto, ed io mi resi conto che il meccanismo di apertura era assimilabile allo spalancarsi delle fauci di un animale feroce, del quale le inferriate rappresentavano gli acuminati denti.
«Maledetto Lùg» sibilai, e il mio respiro si condensò in una nuvoletta di vapore a causa del gelo delle catacombe.
Con passo incerto mi addentrai quindi nella nicchia del Generale e mi sorpresi nel trovarla completamente vuota: il suo luogo di riposo per l'aldilà non era altro che una fredda stanzetta semicircolare, il cui unico arredo era un altarino sul quale era abbandonata una fialetta di vetro opaco.
Mi avvicinai con circospezione e, dopo aver preso coraggio, afferrai la boccettina e quasi la lasciai cadere a terra dal tanto che era gelida. La sollevai davanti alla luce delle torce e osservai il denso liquido scuro, praticamente nero, incresparsi sulle pareti di vetro della fiala, rilucendo in modo minaccioso al bagliore del fuoco, e mi parve di sentire il respiro di Lùg soffiare sulla delicata pelle del mio collo.
Rabbrividii inconsciamente e, senza pensarci troppo, mi ficcai la maledetta fialetta di sangue del Generale nei vestiti, nascondendola sotto il corsetto affinché nessuno potesse vederla né percepirmela addosso.
«E adesso leviamo le tende» borbottai a me stessa, girando i tacchi e andandomene il più in fretta possibile. Le inferriate del cancello si chiusero alle mie spalle con uno schianto spaventoso che mi fece sussultare, ma io non mi voltai e corsi su per le scale, desiderando solo di potermene andare da quel mausoleo gelido e da quell'isola cupa e nebbiosa.
«Dov'eravate finita?» mi sorprese una voce irata non appena sbucai fra la nebbia e le lapidi e, sollevando lo sguardo, mi ritrovai a fissare un perfetto sconosciuto dalla pelle scura e i capelli d'oro. Mi limitai a fissare il tale con un sopracciglio inarcato, ma quello non demorse: «Vi ho vista uscire dal Mausoleo degli Eroi, che ci siete andata a fare?!».
Mantenni un'invidiabile compostezza e riuscii addirittura a fare un sorriso sornione: «Mi hanno detto che il mio compagno è ancora vivo, quindi volevo solo assicurarmi che mi fosse stato detto il vero... sai, sincerandomi che Lùg - il mio compagno - non fosse in realtà sepolto là sotto» spiegai con calma glaciale, fissando l'uomo senza sbattere le ciglia.
Il mio sguardo dovette comunicargli qualcosa, infatti la fata indietreggiò con titubanza ma non si arrese: «Non mi convincete. Avete qualcosa di strano, anche se non ho ancora capito cosa» sibilò, ed io ringraziai gli dèi che egli non fosse in grado di percepire il mio odore umano.
Sperando che la sorte non mi abbandonasse proprio in quel momento, feci spallucce e lo oltrepassai con passo sicuro, dandogli molto coraggiosamente le spalle e raggiungendo la tomba del defunto Albion.
«Il suo passaggio nell'Aldilà sarà sereno» mormorai alla vedova e i suoi occhi arrossati dal pianto mi fissarono con stupore: «Come lo sapete, mia Signora?» domandò con voce rotta dall'emozione.
«Lo sento nella Landa delle Anime» mentii, cercando di ingraziarmi la donna nel tentativo di non far saltare la mia copertura.
«La... Landa delle Anime?» ripeté perplessa lei, e io le sorrisi: «Esatto. È il luogo che attraversano i defunti prima di raggiungere l'Aldilà, e io ci sono rimasta bloccata per tutto questo tempo... e ora una parte di quel luogo mi è rimasta dentro, è per questo che sento che il tuo Albion starà bene» ammisi.
La donna trasalì: «Dunque è la verità... siete morta e siete tornata!».
«Fesserie» ringhiò la fata che mi aveva bloccato poco prima, «Nessuno torna dalla morte!».
Raddrizzai le spalle e assottigliai le labbra, assumendo l'espressione di superiorità che ogni tanto assumeva Lùg e che io tanto odiavo, e sbottai: «Credi che il Fuoco Celeste sia stato un evento casuale, sciocco che non sei altro? Non credi, forse, che il fatto che sia avvenuto proprio la notte in cui io sono tornata in vita possa significare qualcosa?» la mia voce si fece via via più tagliente ad ogni affondo, e vidi la fata impallidire progressivamente.
«Voglio essere clemente con te, ragazzo, quindi ti do la possibilità di rimanere in silenzio per il resto della giornata... se lo farai, io me ne andrò per la mia strada e tu te ne andrai per la tua senza alcun problema. Se, invece, deciderai di importunarmi nuovamente con le tue sciocchezze... scoprirai quanto la Signora di Murias sappia essere vendicativa» mormorai, arrotolandomi distrattamente una ciocca di capelli sul dito.
Il terrore che si dipinse negli occhi sgranati della fata e il pallore mortale che assunse il suo viso mi infusero un profondo senso di soddisfazione, un sentimento talmente genuino che per qualche secondo quasi mi spaventò... ma che poi si trasformò in euforia.
Era meraviglioso impersonare Saraid.
Come avevo previsto, l'uomo non mi importunò più. Restammo sull'Isola dell'Upupa finché le tenebre iniziarono a calare, poi seguimmo a ritroso il sentiero di candele e tornammo alla barca, che era rimasta ormeggiata sulla nera spiaggia vulcanica.
Il viaggio di ritorno mi parve molto più rapido di quello d'andata e non appena fummo fuori dallo spesso banco di nebbia grigia mi sentii immediatamente meglio, come se un peso fosse stato tolto dal mio cuore. Tirai un sospiro di sollievo e mi rallegrai nel vedere le luci accendersi in città, ma il sentimento scemò in fretta non appena mia accorsi del subbuglio che agitava le vie del porto: guardie in armatura sfrecciavano lungo le strade brandendo torce accese, strillando ordini e setacciando ogni anfratto della baia, come se fossero alla ricerca di qualcosa... o qualcuno.
Quando la nostra barca entrò in porto, il tumulto si acquietò e tutti rimasero a fissarci immobili, storditi dal gelo che avevamo portato con noi dall'Isola dell'Upupa.
«Stiamo cercando una ragazza umana» strillò una guardia dalla banchina, «Il Principe in persona ci ha dato l'ordine di riportarla al castello».
Le parole del soldato mi scivolarono come un rivolo di ghiaccio lungo la schiena: la mia gitarella nell'isola dei morti non era passata inosservata, e Morven era furioso.
Scattai in piedi come una molla e, sotto gli sguardi furenti delle fate ancora a bordo della nave, scesi rapidamente la passerella che conduceva alla banchina: «Sono qui!» esclamai, facendomi largo verso le guardie.
Fui prontamente afferrata per un braccio e trascinata a bordo di un'altra barca, che pullulava di uomini in divisa. Uno di questi, vedendomi, mi scoccò un'occhiataccia e suonò un immenso corno a fiato, che produsse un basso e roboante suono che si diffuse in città richiamando tutti i soldati che erano stati dispiegati per la mia ricerca.
«Siete una sciocca, ragazzina» mi rimproverò una guardia, scrutandomi con pungenti occhi verdi stretti in severe fessure.
«Mi dispiace, io...» borbottai, ma quello mi interruppe: «Tenete le vostre inutili scuse per il Principe... non credo sarà contento di vedervi, dopo tutto lo scompiglio che avete causato nella sua città».
Impallidii e mi resi conto di averla fatta grossa. Morven non mi avrebbe fatto del male, però... però non ne ero del tutto sicura.
Mi mordicchiai nervosamente le unghie finché non attraccammo al molo di fronte al castello e, per qualche secondo, rimasi perplessa nel vedere un centinaio di persone accalcarsi davanti al portone principale; poi però notai che tutte indossavano abiti eleganti e arzigogolate maschere sul viso e un ricordo mi folgorò la mente: quella sera, Morven aveva organizzato un banchetto... ed io ero l'ospite d'onore, che non si era presentata alla sua stessa festa.
La guardia che mi accompagnava mi strattonò giù dalla barca senza troppe cerimonie e mi fece entrare nel castello tramite una porta secondaria, spingendomi poi su per una scalinata a chiocciola ripida e stretta. Sbucai in una sorta di ballatoio sopraelevato, tramite il quale riuscii a scorgere l'intera sala dei ricevimenti, che in quel momento era gremita di fate che chiacchieravano e bevevano, mentre una soffusa musica vibrava fra le pareti della stanza. I miei occhi corsero al trono e là, svaccato come un vero e proprio sovrano, vi era Morven: per la prima volta da che l'avevo conosciuto, aveva abbandonato il suo onnipresente mantello nero e l'aveva sostituito con un paio di eleganti pantaloni neri e una sorta di panciotto smanicato rosso e nero, che lo facevano apparire elegante e sanguinario.
Come se avesse percepito il mio sguardo su di sé, il Principe sollevò lo sguardo e ancorò i suoi occhi gialli ai miei... e la sua espressione rimase immobile, gelida come il vento del nord. Morven era veramente furente, e nel suo sguardo mi parve di leggere una velata minaccia, come se egli mi stesse dicendo: "dammi un buon motivo per non dissanguarti qui ed ora, mezzosangue". Deglutii vistosamente e chinai il capo in segno di scuse, poi fui di nuovo trascinata via dal capo delle guardie, che mi ricondusse nella mia stanza borbottando: «Muoviti, umana. Oggi hai già messo sufficientemente alla prova la pazienza del Principe... fossi in te non tenterei ulteriormente la sorte». Mi spinse quindi oltre la soglia della mia stanza e, dopo aver sbattuto violentemente la porta alle mie spalle, lo sentii urlare: «Cambiatevi e affrettatevi a scendere!».
I miei occhi corsero ad un abito delicatamente steso sul mio letto e pronto per essere indossato: una marea di seta rossa che si espandeva sul materasso come una macchia di sangue, immagine che riesumò in me la consapevolezza che Morven me l'avrebbe fatta pagare, in qualche modo.
Il Principe di Gorias era notoriamente molto vendicativo e poco magnanimo e io non avevo giustificazioni valide che avrebbero potuto mitigare la sua ira, a meno che... a meno che non avessi giocato la mia carta migliore in quel preciso momento.
Avevo reperito il sangue di Lùg e un allegro fuocherello stava scoppiettando nel camino della camera... quindi avevo tutti gli elementi che mi sarebbero serviti per poter evocare il Generale delle Fate in persona.
Rimuginando sul da farsi, mi diedi una rapida ripulita nella gelida acqua della tinozza del bagno, poi mi rivestii e tornai in camera, dove mi afflosciai su una poltrona di fronte al fuoco con i gomiti piantati nelle ginocchia e il volto affondato fra le mani, dilaniata dall'indecisione.
Ero stata talmente focalizzata sulla ricerca del sangue di Lùg che non mi ero mai chiesta... non mi ero mai chiesta quando avrei dovuto evocare il Generale, una volta recuperata la fiala, e ora stavo pagando le conseguenze della mia scarsa pianificazione.
«Perché mi infilo sempre in situazioni più grandi di me?» piagnucolai, fissando le fiamme rossastre divorare un ciocco di legno con aggressiva ferocia.
Frugai fra le pieghe del mio vestito e ne tirai fuori la boccettina di vetro che avevo trovato sull'Isola dell'Upupa, poi, rigirandomela fra le dita, osservai il modo in cui le lingue di fuoco facevano brillare il sangue all'interno di un cupo rosso vinaccia.
Mi alzai in piedi senza distogliere lo sguardo dal liquido denso che pareva brillare oltre il vetro, quasi chiamandomi, come se sapesse cosa stava per succedere... ed emisi un lento sospiro, avvicinandomi al camino.
«Non fatemene pentire, dèi» borbottai mentre stappavo la fiala.
Versai il sangue antico di millenni fra le fiamme e lo vidi sfrigolare sulle braci; nel mentre, le mie labbra si mossero spinte da volontà propria, pronunciando parole che non avevano mai preso forma nella mia mente: «Io ti invoco, Lùg, Figlio del Sole e Generale delle Fate, e ti evoco al mio cospetto per mezzo del tuo sacro sangue».
Il focolare esplose in un bagliore di luce e lapilli, poi si spense. Una nube di cenere densa e grigiastra invase la mia stanza e, quando iniziò a depositarsi sulle superfici, delineò una figura umana accovacciata di fronte al camino.
Impaurita, indietreggiai di un passo e trattenni il fiato ma, quando l'uomo sollevò la testa verso di me, riconobbi immediatamente i penetranti occhi argentei che mi stavano fissando intensamente: Lùg si era appena materializzato di fronte a me.
La fata rimase accovacciata un paio di secondi, con un ginocchio a terra e l'altro flesso – come un cavaliere medioevale pronto per l'investitura – e si guardò rapidamente in giro con fare guardingo.
Quando si fu sincerato che nessuna minaccia era presente nella stanza, rilassò il collo e fece scrocchiare le articolazioni delle spalle, e infine si alzò in piedi... mostrandosi in tutta la sua statuaria nudità.
Con il calore che affluiva alle guance, chiazzandole di rosso, mi obbligai a mantenere lo sguardo incatenato alle sue iridi argentee, evitando che l'occhio mi scivolasse lungo il suo corpo nudo e coperto di cenere. Lùg, fortunatamente, non si accorse del mio imbarazzo, infatti fece un passo verso di me con estrema naturalezza e, rivolgendomi un sorriso che mise in bella mostra i suoi acuminati e lucenti canini, mormorò: «Che piacere rivederti, Mezzosangue».
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