Incubo

I miei piedi nudi toccarono il gelido pavimento di marmo ed io rabbrividii all'improvviso contatto.

Mi guardai intorno spaesata, cercando di orientarmi nel buio, ma nulla della stanza in cui mi trovavo mi era familiare.

«Labhraidh?» chiamai piano, confusa dalla situazione.

Avanzai con passi incerti finché non vidi una sottile striscia luminosa al di sotto di una porta inghiottita dal buio, così proseguii in quella direzione. Trovai a tentoni la maniglia della porta e la tirai con forza, sollevando una nube di polvere che mi fece tossire spasmodicamente.

Fui inondata da una calda luce aranciata e, con il cuore più leggero, uscii nel corridoio.

Grandi e regali candelabri erano appesi alle pareti e la fiammella di centinaia di candele rischiarava l'ampio passaggio, facendo brillare il marmo come se fosse fatto d'oro.

Sentendo numerose voci provenire da una stanza sul fondo, avanzai sul gelido pavimento con passi leggeri, senza che i miei piedi scalzi producessero alcun suono, e aprii la porta silenziosamente, affacciandomi all'interno.

Decine di persone erano sparse per la sala, chi bevendo e chi chiacchierando animatamente, agghindate con abiti da sera sfarzosi e tutt'altro che sobri.

C'era una festa... una festa in costume, a giudicare dalle maschere animalesche che indossavano tutti gli invitati.

«Rowan, finalmente sei qui!» esclamò in lontananza una voce che non riconobbi, ed io mi sollevai sulle punte per trovare il mio interlocutore.

Una figura vestita di bianco mi si avvicinò con andatura rilassata e, man mano ch'egli si faceva più vicino, gli altri invitati si facevano via via più sfocati e il loro contorno si andava sbiadendo, confondendosi con le pareti riccamente addobbate della sala.

Strizzai gli occhi, convinta di essere in preda ad un qualche effetto ottico causato dal riverbero delle fiammelle sulle maschere lucenti degli invitati, ma, non appena li riaprii, mi trovai in una sala da ballo fredda e vuota.

Tutti i presenti erano spariti, eccetto per l'uomo che si era rivolto a me poco prima. Vestito interamente di bianco e con una maschera da lupo calata sul volto, si avvicinò a me con passo baldanzoso e mi si fermò di fronte, scrutandomi attentamente.

«Sei diventata deliziosa» mormorò e, togliendosi la maschera con un movimento fluido, mi sorrise in modo ferino.

«No», il respiro mi si mozzò in gola, «Non di nuovo, no» annaspai e, voltandomi rapida come un cerbiatto, scattai verso la porta più vicina.

Mi schiantai contro il legno duro e mi appesi alla maniglia ma, per quanto spingessi o tirassi, la porta non si mosse nemmeno di un millimetro.

«Suvvia, non essere così melodrammatica!» rise Lúg, e udii lo scricchiolio delle sue scarpe contro il lucido marmo del pavimento.

«Facciamo due chiacchiere, per favore» mi propose poi, e le sue gelide dita si chiusero attorno alla mia minuscola mano.

Mi voltai rassegnata verso la sala che, fino a qualche istante prima, era deserta, ma che ora ospitava un tavolino nero in ferro battuto finemente lavorato e due sedie dello stesso tipo.

Lúg mi spinse quasi giocosamente su una delle due sedie ed io sprofondai nel morbido cuscino bianco panna, appiattendo il dorso contro lo schienale nel vano tentativo di rendermi un tutt'uno con il cuscino.

La fata si accomodò di fronte a me e, allungandosi sullo schienale, rimase in silenzio a fissarmi.

Sostenni il suo sguardo, cercando di non tremare sotto le sue iridi d'argento, e mi imposi di respirare piano, in modo regolare, per non fargli fiutare la mia paura.

Lúg era svaccato sulla sedia con le gambe divaricate e le braccia gonfie di muscoli incrociate al petto. Indossava una tunica bianca fermata sulle spalle da due grossi spilloni d'oro, rappresentanti uno il sole e l'altro la luna, e il tessuto gli scivolava morbido sul corpo, leggero al punto tale da ondeggiare lievemente anche nella totale assenza di vento. A confronto con la candida tunica, la sua pelle pareva ambrata, di alcune tonalità più scura di come l'avevo vista nei tumuli, e mi resi conto che il suo precedente mortale pallore era imputabile alla prolungata permanenza nel regno sotterraneo, laddove il sole non era che un lontano ricordo.

I suoi capelli, che nei tumuli erano di un caldo biondo grano, si erano schiariti in un tenue bianco argenteo e gli ricadevano lisci fino a metà schiena. Erano stati intrecciati con fascette di cuoio nero ed erano tenuti lontani dal viso grazie a due sottili treccine, in modo tale che fossero ben visibili le affusolate orecchie a punta adornate da decine di orecchini luccicanti.

La mascella squadrata, il naso romano e gli affilati occhi d'argento gli conferivano un aspetto predatorio, e il ghigno accennato in cui erano arricciate le sue labbra sottili lasciava trapelare una spietatezza a stento contenuta.

Lúg si raddrizzò sulla sedia e, ad un gesto della sua mano, un set da tè composto da una teiera e due tazzine in porcellana comparve sul ripiano del tavolo. Versò un liquido scuro e fumante nelle due tazze e, stringendo la sua fra le mani come se il calore della bevanda non gli desse alcun fastidio, fece scivolare lo sguardo lungo il mio corpo.

«Questo sarebbe quello che indossano le ragazze per dormire nel tuo mondo mortale?» mi domandò con un blando sorrisetto, sollevando un biondo sopracciglio in un'espressione perplessa.

I miei occhi corsero verso il basso e mi ritrovai vestita con un paio di calzoncini rosa shocking con disegnati dei fenicotteri e un top bianco con delle fette di anguria stampate sui seni.

«È il mio pigiama» borbottai leggermente stranita dalla situazione, strattonando poi il top verso il basso senza troppo successo, visto che era anni luce lontano dal coprirmi l'ombelico.

«Oh, ma che vuoi?» sbottai poi, irritata dall'espressione divertita che avevo visto comparire sulla sua faccia da stronzo.

«Voglio chiacchierare con te» mi disse, sporgendosi verso di me con sguardo attento.

«Ma vaffanculo» eruppi e, afferrando la tazzina con una mossa fulminea, gli rovesciai addosso tutto il liquido bollente contenuto al suo interno.

Mentre il tè nero inzuppava la sua tunica bianca e il tessuto aderiva al suo torace muscoloso, rincarai: «Hai ammazzato il mio migliore amico e mi hai ingannata. Ho spezzato quel maledetto incantesimo per riportarlo indietro, e adesso voi siete liberi di darci la caccia».

Una scintilla di rabbia si accese nelle iridi argentee della fata ma, quand'egli sbatté le palpebre, la cattiveria nei suoi occhi si era già acquietata.

«Ti siamo grati dal profondo del cuore per averci liberati, Rowan O'Brien» mi derise, «Ma, se devo essere sincero, anche tu dovresti ringraziare me... guardati: ora sei diventata davvero... deliziosa. Sì, deliziosa è l'aggettivo giusto per te» sogghignò, passandosi la lingua sui canini esposti, in modo volgare e disgustoso.

«Ribadisco: vaffanculo» ringhiai, incrociando le braccia davanti al petto e fissandolo con espressione truce.

«Dolce come il miele» ammiccò lui; poi allacciò le braccia dietro alla testa e domandò: «Come si sta a Falias? Hai già visitato i giardini pensili del Principe?».

«Dove, scusa?» sviai, sollevando le sopracciglia e dipingendomi in viso l'espressione più confusa del mio repertorio.

«Oh, avanti, è inutile questa recita» sogghignò, «Ammiro il tuo sfacciato tentativo di ingannarmi, ma ti ricordo che sono un Segugio» aggiunse, picchiettandosi il dito indice sulla punta del naso.

«E quindi?».

«E quindi, dolcezza, ho tracciato il tuo odore fino al nord del mondo... e ti ho persa proprio in prossimità della Porta. Non ti sembra strano?» domandò sarcastico, chinandosi verso di me e posando il mento sul dorso della mano.

«A proposito... ottima trovata andarsi a nascondere nel mondo delle fate. Ammetto di averti sottovalutata, Rowan O'Brien: se avessi saputo cosa stava tramando il tuo cervellino arguto non ti avrei mai dato tutto quel vantaggio».

«Non sono un maledetto cervo da cacciare» ringhiai, digrignando i denti e conficcando le unghie nei palmi quasi fino a farli sanguinare.

Un ghigno crudele gli incurvò le labbra: «E invece per me sei proprio quello»; parve poi riflettere sulle sue parole, e aggiunse: «Ma sei fortunata, mia cara: da che mi hai liberato, la mia voglia di ucciderti si è drasticamente ridotta».

Si alzò quindi in piedi e, silenzioso come un lupo in una nottata di caccia, mi si avvicinò e si chinò ai miei piedi.

Con le ginocchia flesse era alto quanto me seduta sulla sedia, e i suoi occhi argentei si fissarono su di me con un'insistenza tale da indurmi ad abbassare lo sguardo; mi ritrovai quindi a fissare ostentatamente la macchia scura di tè che ancora spiccava sul bianco della sua tunica e il mio cervello stanco e impaurito si ritrovò a sperare solo che quel dannato sogno finisse prima ch'egli decidesse di recidermi un'arteria.

Lúg mi afferrò la mano con un gesto lento e calcolato, e i suoi polpastrelli freddi corsero lungo le vene del mio polso, facendo fremere la mia pelle dalla paura.

«Io ti terrò in vita, Rowan...» mormorò, accarezzandomi la fragile pelle dell'avambraccio con l'unghia del pollice, affilata come un artiglio, «...Ma tu devi promettermi di non farti ammazzare prima che io ti trovi».

«C-che?» balbettai, sicura di aver mal compreso le sue parole a causa della paura, che probabilmente stava interferendo con le mie sinapsi neuronali.

«Il mondo dove siete fuggiti... è pericoloso anche per una fata, quindi puoi ben capire quanto lo sia per una come te» proseguì però la fata, pizzicando la mia pelle con le unghie come per sottolinearne la fragilità.

«S-siamo stati accolti bene» mormorai, mordicchiandomi nervosamente l'interno della guancia.

«Oh, certo, Falias è una bella città... ma chiedi ad Alastair come se la stanno passando i sudditi oltre le mura, e vedrai incrinarsi la sua bella faccia rubiconda».

«Che intendi?» sbottai, raddrizzando le spalle e fissandolo finalmente negli occhi.

«C'è una...» ma le sue parole si persero nella profondità della stanza, riecheggiando come se Lúg stesse parlando dal fondo di un pozzo. I contorni del suo viso affilato si fecero sfocati e confusi, ed io allungai una mano per trattenere il fumo che ormai era diventato il suo corpo: «Aspetta, cosa?» tentai di domandargli, ma ormai egli era già scomparso.

Scattai a sedere sul letto come un automa, risucchiando l'aria nei polmoni con quanta più forza avevo in corpo, come se fossi appena rimasta sott'acqua per svariati minuti.

Mi dibattei per qualche secondo fra le lenzuola sudate, scalciandole lontano dal mio corpo accaldato, e, quando infine sentii la fresca brezza notturna sulla pelle, iniziai a regolarizzare il respiro.

Non appena l'adrenalina smise di pompare a pieno regime nelle mie arterie iniziai a sentire freddo, e un pulsante pizzicore al polso attirò la mia attenzione.

Nel buio della camera trovai a tentoni l'interruttore dell'abat-jour e, non appena i miei occhi pesti di oscurità smisero di lacrimare a causa della luce improvvisa, serrai la mascella alla vista dell'obbrobrio che svettava sul mio avambraccio: là, sulla tenera carne del mio polso, capeggiava una piccola e sottile lettera rossa, vivida del mio sangue.

Una "L".

Una "L" di Lúg.

Mi aveva marchiata, quel maledetto bastardo mi aveva marchiata come se fossi un animale.

«Ti taglierò la gola» sussurrai cupa e, ormai completamente sveglia e incapace di rimettermi a dormire, mi alzai dal materasso e mi affacciai dal piccolo oblò della nave, che avevo lasciato aperto per lasciar entrare almeno un soffio di brezza notturna.

I miei occhi scivolarono sulla tavola scura che era il mare e si persero all'orizzonte, là dove la costa appariva come una minacciosa massa nera sotto la debole luce delle stelle. La luna era già tramontata da tempo e, in quel mondo senza inquinamento luminoso, le stelle brillavano più intensamente che nella mia Irlanda, quasi come se fossero più vicine. Anche i loro colori erano più vividi, e alcune rilucevano di un tenue azzurro, mentre altre sembravano varare su un argento rosato. La Via Lattea, o il corrispettivo che era presente in quel mondo, pareva un sentiero luminoso nel cielo, tanto chiaro da riflettersi debolmente nelle onde del mare.

Inspirai a pieni polmoni l'odore pungente della salsedine e il profumo lontano dei pini marittimi, che giungeva fino al mio oblò sospinto da un leggero vento che dall'entroterra soffiava verso il mare aperto, e rabbrividii nel percepire l'energia ancestrale che ancora vibrava nell'aria a seguito del rito della sera precedente. Subito dopo l'accensione del Sacro Fuoco ce ne eravamo andati, saltando addirittura la cena, perché la folla era diventata... frenetica, irrequieta, e Daghain aveva temuto per la nostra incolumità. Eravamo tornati senza tante cerimonie alla nostra nave, ma l'eccitazione data dalla magia mi era rimasta sottopelle, punzecchiandomi dall'interno come per sollecitarmi a farla uscire.

Scacciai dalla mente il desiderio di soddisfare la mia magia e, quando la mia respirazione tornò regolare, mi stiracchiai come un gatto e, dopo aver afferrato una felpa grigia, aprii silenziosamente la porta della mia cabina...

Ritrovandomi di fronte un Labhraidh con la mano protesa, come se stesse per afferrare la maniglia.

«Che ci fai qui?» gli domandai, richiudendomi la porta alle spalle e fissandolo con evidente perplessità.

«Io... Ho fatto un brutto sogno» balbettò e, dal rossore diffuso che scorsi sulle sue guance, compresi quanto fosse imbarazzato per essere venuto a cercarmi nella mia cabina.

«Non volevo svegliarti, solo...» esitò, passandosi una mano sul volto ombreggiato da un filo di barba, «...non lo so. Forse volevo solo starti vicino. Ho sempre paura che... che lui torni a prenderti. A prendermi» aggiunse, parlottando in modo rapido e sconnesso.

Sentendo il tormento nella sua voce non osai raccontargli che Lúg mi era apparso in sogno che era già sulle mie tracce, pronto a... prendermi, come temeva Labhraidh.

«Qui siamo al sicuro» mentii, stringendogli piano la mano nel vano tentativo di infondergli un po' di coraggio.

Lui annuì, ma non mi sembrò troppo convinto.

Raggiungemmo in silenzio il ponte della nave e, una volta arrivati in prua, ci sedemmo sul fresco pavimento e lasciammo le gambe a penzolare oltre il parapetto.

Un'ottantina di metri sotto di noi, una nera massa d'acqua si increspava contro i fianchi della nave, producendo un lento e ritmico sciabordio che mi tranquillizzò l'animo.

«Mi manca casa» mormorai, fissando le aliene luci sulla costa lontana con malinconia.

«Forse non la rivedremo mai più. Forse questa diventerà anche la nostra casa, il posto dove... dove moriremo».

«Per gli dèi, Labhraidh!» sbottai, «Tu sai per certo come farmi deprimere».

«Senti, amica mia, sono in astinenza da birra e, soprattutto, internet... quindi capisci il mio nervosismo. Te lo giuro, siamo qui da meno di ventiquattr'ore e ho già controllato il cellulare una trentina di volte per vedere se mi fossero arrivati messaggi. Ho anche tentato di cercare su Google Maps la mappa della città, e quando mi sono reso conto che non avrebbe funzionato mai più, ho sentito un vuoto aprirmisi nel petto. Mi sento quasi menomato» sproloquiò, fissando il cielo luminoso con un'espressione talmente imbronciata che mi fece sorridere.

«Effettivamente, io mi sento ignorante» assentii, rendendomi conto solo in quel momento quanto importante fosse avere un'inesauribile fonte di informazioni ficcata costantemente in tasca.

«Lo sei sempre stata, Row» mi prese quindi in giro Labhraidh, ghignando.

«Imbecille» ribadii, rifilandogli un calcio nel polpaccio.

In risposta ottenni solo un sonoro sbadiglio, così allungai una mano dietro di me e, fissando due sdraio ferme vicino al bordo della grande piscina di prua, le richiamai a me.

I lacci della mia magia si strinsero attorno alle gambe delle sdraio e si riavvolsero attorno alle mie dita, trascinandole lentamente verso di me.

«Tutto okay?» mi domandò impensierito Labhraidh, notando la ruga che era comparsa in mezzo alla mia fonte.

«Sì» mormorai, «Ho solo bisogno di un paio di giorni per rimettermi in sesto. Mi sto riprendendo, ma la mia magia è ancora... svuotata. Non pensavo fosse possibile, ma credo di averla quasi prosciugata».

«Mi dispiace...» mormorò lui senza guardarmi negli occhi, allungando però una mano verso di me per aiutami ad alzarmi.

«Labhraidh» lo richiamai, parandomi di fronte a lui con ostinazione.

Presi il suo viso ispido di barba fra le dita e lo obbligai a fissarmi dritto negli occhi: «Non pensarlo nemmeno un secondo» gli ordinai, «Darei via tutta la mia magia senza pensarci nemmeno un secondo, se in gioco ci fosse la tua vita» gli dissi con sincerità, posando poi la mano sul suo petto, laddove il suo cuore batteva feroce.

«Scusami» esalò il mio migliore amico e, come un burattino al quale erano stati tagliati i fili, si accasciò sulla sdraio. Nascose il viso fra le mani e le sue spalle sussultarono piano, mentre il suo respiro si faceva pesante.

Ci misi un paio di secondi di troppo per capire che Labhraidh stava piangendo.

In diciotto anni di amicizia non lo avevo mai visto piangere, nemmeno quando era morta Suanach, la sua prima ragazza, eppure... eppure in quel momento lo stava facendo.

Piangeva in silenzio, come se avesse paura di disturbare la quiete della notte, come se volesse soffocare il suo dolore e non mostrarlo al mondo.

Mi chinai di fronte a lui e posai con gentilezza le mani sui suoi bicipiti, disegnando lenti cerchi con i pollici sulla sua pelle nuda.

«Ehi, Labhraidh... che succede?» domandai piano, sentendo il mio cuore stringersi sempre più ad ogni singhiozzo del mio migliore amico.

Egli rimase in silenzio, ingoiando le lacrime e le parole, nascondendosi dietro le proprie mani come se avesse paura di mostrarsi a me.

«È tutto okay, tesoro, è tutto okay» mormorai, posando la fronte contro le sue gambe e aspettando pazientemente che i suoi singhiozzi si acquietassero.

«Io non... non ce la faccio» balbettò in un gemito, sfregandosi con forza la faccia.

Il suo viso pallido e umido comparve al di sotto delle mani, e i suoi occhi arrossati di pianto mi ferirono l'anima.

Tirò su con il naso e si morse con forza le labbra turgide e arrossate: «Mi dispiace. Per tutto, Rowan, non sai quanto» piagnucolò, non riuscendo a trattenere ulteriori lacrime.

«Ma per cosa? Che succede, Labhraidh?».

«È tutta colpa mia, Row. Se io fossi semplicemente... morto, sarebbe stato meglio per tutti voi. Lo so io, lo sai tu e lo sanno tutti quelli che sono qui sulla nave... lo leggo nei loro occhi. Lo vedo dal modo in cui mi guardano» blaterò, tirando su con il naso fra una parola e l'altra e sfregandosi gli occhi gonfi.

Gli strinsi le mani fra le mie e gli scoprii il volto.

«Smettila, per gli dèi, smettila di dire così» lo implorai, «Io non...».

«Lo so che tu avresti passato un brutto momento, così come Michan e gli altri, ma poi l'avreste superata. In guerra qualcuno muore sempre, ma gli altri continuano a vivere... il mondo non si sarebbe fermato, se io fossi morto» continuò, strizzando gli occhi e nascondendosi dietro alle palpebre.

«Ne è valsa la pena? Riportarmi indietro, dico: ne è valsa la pena? Io sono... non sono più quello di prima. Ho il terrore di Lúg, dei suoi occhi, della sua lama. Lo sogno ogni notte, e ormai ho paura della mia stessa ombra» sussurrò, con voce resa rauca dal pianto.

Mi sedetti al suo fianco e lo strinsi con quanta forza avevo in corpo, aggrappandomi ai suoi vestiti come se potesse sfuggirmi da un momento all'altro.

Labhraidh rimase qualche istante imbambolato, poi ricambiò la stretta con uno slancio quasi feroce, tanto da farmi cadere all'indietro sulla sdraio. Si strinse a me e affondò il viso nel mio petto, bagnando la mia maglietta del pigiama di calde e salate lacrime.

Accarezzai lentamente i suoi capelli castani e mormorai: «Ne varrai sempre la pena, Labhraidh; questo te l'ho già detto e te lo ripeterò finché il concetto non si sarà conficcato nella tua dura testolina. E ci vorrà del tempo, ma tornerai a stare bene. Non sarai più quello di prima, questo no, ma tornerai a sentirti te stesso... fidati di me».

Continuai a parlargli, non volendo che il silenzio portasse con sé brutti pensieri, e mi ritrovai a raccontare episodi del nostro passato, finché non sentii il suo respiro farsi pesante e la sua stretta su di me allentarsi un poco.

Sospirai nella brezzan notturna e, continuando a carezzare i suoi capelli ispidi di salsedine, chiusi gli occhi. Una solitaria lacrima mi solcò la guancia e, mentre questa si asciugava nella calda notte estiva, io caddi fra le braccia di Morfeo.

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