Il Lupo e la Signora delle Maledizioni
«Muoviti, voglio farmi una nuotata prima che si sveglino tutti gli altri!» un'acuta voce femminile mi riscosse dal sonno. Strizzai le palpebre appesantite dal sonno e cercai di muovermi, ma il corpo di Labhraidh mi schiacciava contro la sdraio impedendo ogni mio spostamento.
«Rían, forza! Spicciati!» strillò di nuovo la voce, che riconobbi come quella di Grania, e la donna comparve qualche secondo dopo sul ponte della nave indossando solo uno striminzito costumino bianco.
«Oh, ci siete anche voi» commentò, avvicinandosi con andatura sinuosa e scrutandoci con interesse.
«Ma chi è che fa così tanto casino... per gli dèi» borbottò Labhraidh, rigirandosi su di me e affossandomi ulteriormente nella sdraio senza nemmeno sollevare una palpebra.
«Avete dormito qui?» chiese Grania, sedendosi con grazia sulla sdraio di fianco alla nostra, che era rimasta inutilizzata tutta la notte.
«Circa» bofonchiai, iniziando quindi a scuotere Labhraidh, cercando di levarmelo di dosso per poter tornare a respirare decentemente.
«Che c'è? Che succede?» borbottò lui, sfregandosi la faccia e mettendosi finalmente a sedere.
«Oh, scusami tanto, Row... non volevo usarti come cuscino» mormorò subito dopo, arrossendo leggermente.
Sistemandomi la fin troppo corta maglietta del pigiama, gli feci l'occhiolino: «Tutto dimenticato» gli risposi, sapendo quanto si stesse vergognando, in quel momento, per ciò che era successo la sera precedente.
«Rowan? Labhraidh?» domandò in quel momento Rían, comparendo in quel momento sul ponte con un paio di calzoncini neri e null'altro addosso.
Per un secondo balenò davanti ai miei occhi l'immagine di Lúg ma, più Rían si avvicinava a noi, più le similitudini fra i due si facevano sottili: Rían era umano, magnificamente umano, con i capelli mossi biondi come il miele e gli occhi grigi come il mare, mentre Lúg... Lúg era ultraterreno. Spaventoso come la morte in persona, con quegli occhi argentei da predatore e le orecchie a punta.
Scossi la testa e l'immagine di Lúg sbiadì davanti ai miei occhi, tonando ad assumere le fattezze di Rían.
Lo sbirciai furtivamente al di sotto delle ciglia, carezzando con gli occhi i suoi pettorali dorati, gli addominali accennati e poi giù, fino alle due linee a V che scomparivano oltre l'orlo dei pantaloncini, e mi maledissi quando mi resi conto dello sguardo gelido che mi stava rivolgendo Grania, la quale non si era persa la mia reazione alla vista di Rían.
Abbassai rapidamente lo sguardo a terra, fissando i miei piedi pallidi come la luna, e nascosi il volto dietro ad un ciuffo castano.
«Certo che sei veramente rumorosa, eh?» brontolò Labhraidh rivolto a Grania, stiracchiandosi e facendo scrocchiare sonoramente le giunzioni della colonna vertebrale.
«Non pensavo ci fosse qualcuno quassù a quest'ora» ribatté lei, ed io sentii i suoi occhi castani affilati come lame puntarsi sulla mia testa.
«Volevamo farci un tuffo» spiegò Rían, scompigliandosi i capelli biondi, «Voi però ci avete preceduti».
«Oh, amico, noi siamo qui da ieri sera» ribatté Labhraidh e, voltandosi verso il sole appena sorto – ma che già scottava sulla pelle – si sfilò la maglietta dalla testa e incrociò le mani dietro la nuca, godendosi i primi bollenti raggi con un'espressione beata sul viso.
Vedendo la sua postura rilassata e sciolta, non riuscii a trattenere anche io il sorriso: Labhraidh si era apparentemente ripreso, e io non avrei potuto chiedere di meglio.
«Oh, avete... dormito qui?» domandò Rían, fissando alternativamente me e Labhiraidh con una smorfia perplessa.
«Sì, in realtà... nessuno dei due riusciva a prendere sonno, giù in cabina» mormorai, osservando distrattamente la "L" che ancora capeggiava sul mio polso, che pareva quasi brillare di rosso nella calda luce del mattino.
«Capisco» rispose piano lui, ed io capii che, molto probabilmente, egli capiva davvero.
Mi domandai se fosse opportuno rivelargli delle visite notturne di Lúg, ma dopotutto... io stessa non ero sicura fossero reali. Certo, la "L" di Lúg era impressa sulla mia pelle... ma era davvero una "L"? Avrebbe anche potuto essere una semplice coincidenza, ovvero due graffi, due semplici unghiate che mi ero autoinflitta a causa del brutto sogno.
«Quasi quasi me lo faccio anche io un bagno!» esclamò in quel momento Labhraidh e, riemergendo dai miei pensieri, lo vidi calarsi i calzoncini e rimanere in un paio di boxer grigi.
Si voltò quindi verso di noi e domandò: «Come ci arriviamo in acqua?».
Tre paia di occhi furono calamitati al centro del suo petto, laddove la minuscola impronta nera di una mano deturpava la pelle ambrata del suo ampio petto. La mia mano era lì, impressa a fuoco sul suo corpo e posata sul suo cuore, ed io sentii una morsa stringermi la gola: Labhraidh era... marchiato, ed ero stata io a fargli ciò.
Proprio come Lúg aveva marchiato me, io avevo marchiato Labhraidh.
«Ti posso calare io, non ti preoccupare» rispose dopo qualche secondo Rían, cercando di dissipare la tensione che si era improvvisamente creata.
«Vi piace il mio nuovo tatuaggio?» scherzò quindi Labhraidh, capendo perfettamente la ragione dietro l'improvviso silenzio che ci aveva avvolti.
«Puoi toccarlo, sai?» disse poi, rivolgendosi a Grania con un ghigno strafottente.
«Dammi la mano, forza» la spronò, afferrando le sue dita affusolate e portandosele sullo sterno, dove queste andarono a coprire completamente la mia impronta.
«Ti fa male?» domandò curiosa Grania, accarezzando il punto dove la pelle del mio migliore amico passava da un caldo color ambra a un nero carbone più scuro della pece.
«No. È solo una macchia... anche la sensibilità è rimasta invariata» spiegò lui, lasciando poi andare la mano di Grania, che ricadde inerte lungo il fianco della ragazza.
Mi alzai in piedi e, avvicinandomi ai due, borbottai: «Te la toglierei, se sapessi come fare».
«No, grazie» ribatté Labhraidh, «Sono morto e tornato indietro, questo segno è come una ferita di guerra. Per di più...» continuò, «... mi sento come Cenerentola».
«Eh?» sbottai, domandandomi perché diavolo Labhraidh dovesse essere sempre così criptico.
«Tu sei la mia scarpetta, Row. Fra tutte le mani del mondo, solo la tua combacia alla perfezione: io sono Cenerentola e tu sei la mia scarpetta» esclamò ridacchiando, afferrando la mia mano e portandosela all'altezza del cuore.
«Sei veramente un...».
Una scossa mi intorpidì le dita.
«Ehi!» sbottai, «Non darmi la scossa, Cenerentola!» brontolai, ritirando rapidamente la mano e sventolandola in aria.
«Ops» commentò Labhraidh, ridacchiando sereno e scompigliandosi i folti capelli castani.
«Allora, questo bagno? Ci tuffiamo?» domandò poi, saltellando da un piede all'altro con un'eccitazione bambinesca.
Rían sogghignò divertito: «Sono settanta metri, da qui all'acqua. Credi di farcela?» indagò, scoppiando poi a ridere nel vedere il volto di Labhraidh impallidire di colpo.
«Un po' troppi, temo. Mi dai un passaggio?».
Rían non gli rispose nemmeno, e un paio di secondi dopo Labhraidh fluttuava di qualche metro da terra.
«Wow, sto... volando! Rowan, fammi un video! Fammi un...» ma la sua voce si perse nel vento caldo dell'estate mentre Rían lo calava giù dalla nave – rapidamente, ma non abbastanza per farlo spiaccicare in acqua.
«Rowan?» mi interpellò quindi Rían, fissandomi con un sopracciglio inarcato e un'espressione interrogativa in volto.
Chiudendo gli occhi, ordinai al mio corpo di trasformarsi in un soffio di vento e i miei piedi si staccarono immediatamente dal suolo, lasciandomi fluttuare senza peso a qualche centimetro da terra.
«Credo di farcela» mormorai e, senza nemmeno attendere la sua risposta, mi lanciai giù dal ponte della nave.
Il vento mi avvolse il corpo e mi frustò il volto, facendomi lacrimare gli occhi, e un fremito di pura eccitazione mi percorse la schiena nel vedere l'immensa massa d'acqua cristallina farsi sempre più vicina. Una spericolata parte di me mi suggerì di procedere a tutta velocità e di planare solo all'ultimo metro prima dello schianto, ma l'idea di far venire il crepacuore a Rían di prima mattina mi trattenne dall'attuare il mio sconsiderato piano.
Rallentai quindi dolcemente l'andatura e arrivai a sfiorare l'acqua con le dita, meravigliandomi di quanto apparisse cristallina nella prima luce del mattino.
Grania e Rían si tuffarono poco lontano da me, riemergendo con i capelli incollati alla schiena e il viso luminoso di minuscole goccioline d'acqua; Labhraidh, invece, nuotava a stile libero un centinaio di metri più a sud, procedendo spedito come se avesse una destinazione da raggiungere.
«Non vieni?» mi domandò Rían, fissandomi dal basso con gli occhi luminosi e le ciglia imperlate di brillanti di goccioline.
«No», distolsi lo sguardo da lui e mormorai: «Voglio volare un po'. Mi è sempre piaciuta più l'aria che l'acqua» spiegai, rammentando ancora che l'ultima volta in cui avevo fatto il bagno nel mare era quando ero quasi affogata a causa dell'attacco delle Moruadh... ed ero stata salvata dalla loro regina solo perché le ricordavo Saraid.
Al ricordo dei miei polmoni che si riempivano di acqua e della vista che mi si oscurava, rabbrividii nonostante il caldo afoso della mattina e mi allontanai di qualche metro dal mare.
«Me lo ricordo» commentò Rían e, dall'ampio ma malinconico sorriso che gli era comparso sul volto, compresi che aveva rammentato tutte le volte in cui lo avevo implorato di portarmi a volare giù dalla scogliera. Lui brontolava sempre, dicendo che non sarebbe stato utile al mio allenamento... ma alla fine mi accontentava sempre. E io lo ricompensavo riempiendolo di baci.
Distolsi lo sguardo dai suoi occhi grigi – in quel momento più azzurro mare che grigi – e risalii rapidamente fino al ponte.
Proseguii in alto, sempre di più, finché la nave apparse minuscola come un modellino giocattolo, e a quel punto scesi in picchiata.
Copiose lacrime iniziarono a rigarmi le guance, e io non seppi dire se fossero dovute alle violente raffiche di vento che mi sferzavano gli occhi o al peso al cuore che mi opprimeva il petto ogni qualvolta pensavo a Rían e a ciò che noi eravamo stati.
Volteggiai nel cielo, seguendo le correnti più fresche e poi tuffandomi in quelle più calde, lasciandomi avvolgere dal vento e colmare dalla magia.
Era così tanto tempo che non mi lasciavo andare in quel modo...
Un brivido di piacere mi scosse le membra quando mi resi conto che la mia magia stava tornando, e che nessuno me l'avrebbe più tolta. Era mia, mia soltanto, ed era potente.
Molto più di quanto avessi immaginato.
Volai finché le membra non mi fecero male, fino a che il sudore non mi ebbe inzuppato la maglietta del pigiama, finché il sole non mi ebbe scottato il naso e gli zigomi, e infine mi concessi un tuffo in acqua solo per non beccarmi un'insolazione. Sguazzai per qualche minuto nella calma acqua turchese, immergendo la testa solo per qualche secondo, e, quando mi fui rinfrescata, risalii sul ponte.
«Per gli dèi, ragazzi! Quanto amo volare!» strillai, sprizzando gioia da tutti i pori, atterrando dolcemente vicino alle sdraio dove gli altri stavano oziando, supini a rosolare sotto il rovente sole estivo.
«Rowan!» mi richiamò Rían, avvicinandomisi con un asciugamano stretto sulle spalle, «È arrivato un messaggero di Alastair per dirci che siamo invitati a cena. Ci saranno anche gli altri tre Principi, sono pronti a riceverci».
«Allora è giunto il momento della verità» borbottai, passandomi una mano sugli occhi arrossati dal vento e dal sale.
Dieci ore dopo stavamo salendo le bianche scalinate che conducevano al palazzo, stretti in abiti tradizionali di Falias e adornati con scintillanti gingilli che tintinnavano ad ogni movimento.
«Solo io sto sudando in preda ad un'ansia micidiale?» furono le prime parole che Labhraidh pronunciò da che avevamo lasciato la nave.
«Io avrei preferito combattere contro tre fate contemporaneamente, piuttosto che presentarmi a questa cena» lo rincuorò Neacht, accarezzandosi con dita irrequiete la spessa treccia nera che le scendeva morbida sul seno.
Grania, la bellissima Grania, si lisciò l'abito sui fianchi e riprese a salire la lunga scalinata, dicendo: «Oh, suvvia, è solo una cena. Cerchiamo di convincerli ad aiutarci e poi torniamocene sulla nave... rapido e indolore».
«Almeno lei è ottimista» borbottò Labhraidh, andandole dietro.
Sbuffai piano e ripresi ad arrancare su per quella maledetta scalinata, liscia e scivolosa come se fosse stata cosparsa di sapone appositamente per scoraggiare i visitatori a salire fino in cima.
Quando infine giungemmo all'ultimo piano della costruzione, trovammo il portone spalancato.
Due bracieri accesi erano stati posti su ciascun lato dell'ingresso e, sbirciando all'interno, mi accorsi di quanto la sala fosse cambiata rispetto al giorno precedente: i tavolini in ferro battuto e i divanetti erano scomparsi, lasciando il posto, al centro della stanza, ad una grande tavola rotonda già imbandita. In direzione dei quattro punti cardinali vi erano quattro sedie più eleganti e abbellite delle altre, con intarsi d'avorio, d'oro e d'argento, e supposi quelli fossero i posti destinati ai Principi delle Terre Lontane.
La sala era già gremita di persone che, ad uno sguardo più attento, riconobbi come inservienti e camerieri: vi era chi reggeva calici di un liquido ambrato e denso e chi trasportava casseruole fumanti, chi aggiustava i fiori posti come centrotavola e chi sistemava le sedie con attenzione maniacale.
«Oh, i miei ospiti! Siete veramente magnifici!» esclamò in quel momento la gioviale voce del Principe Alastair, e lo vidi attraversare a grandi falcate il pavimento mosaicato per venirci incontro.
Conneleugh era al suo fianco, agghindato di tutto punto e con i ricci capelli neri legati in una elaborata crocchia dietro la testa.
«Le delegazioni da Est e da Ovest sono appena giunte in città, e presto ci raggiungeranno per cena» ci aggiornò, poi si sfregò le mani con soddisfazione e aggiunse: «Sono davvero incuriosito da questa cena. Ci avete decisamente sorpresi, venendo qui».
Sentendo gli occhi di Conneleugh fissi su di me, mi schiarii la voce e, sentendo il sangue affluire rapidamente alle gote, balbettai: «Siamo... siamo mortificati per essere giunti in modo così rocambolesco nelle Vostre terre, mio... mio Principe. Non era nostra intenzione arrecarvi disturbo».
Il sorriso del Principe spiccò luminoso in contrasto con la sua pelle olivastra, tanto ampio da esporre completamente i suoi canini: «Che deliziosa sorpresa! Parli la nostra lingua, creatura? Qual è il tuo nome?» mi domandò con voce morbida, avvicinandomisi pericolosamente.
«Rowan, mio Principe» sussurrai, imbarazzata dal rovente sguardo che Alastair mi stava rivolgendo.
«Piacere di conoscerti, Rowan» mormorò di rimando, scandendo lentamente il mio nome e lasciandomi un leggerissimo bacio sul dorso della mano. Sollevando poi gli occhi scuri screziati di verde su di me, cominciò: «E dimmi, Rowan...»
«Alastair, maledetto balordo, dove ti sei cacciato?!» strillò in quel momento una stentorea voce femminile, attirando l'attenzione degli astanti ed interrompendo la domanda che Alastair mi stava per porgere.
«Daireen, modera il linguaggio. Abbiamo ospiti, come ben sai» sbottò di rimando il Principe arricciando le carnose labbra in una smorfia scocciata.
La donna che ci si avvicinò aveva le sembianze di una dea. Aveva la pelle nera come la notte, che nella ormai fioca luce del tramonto riluceva di un'intensa sfumatura di blu, e i suoi capelli erano candidi come la neve, lisci e acconciati in un corto caschetto che le arrivava appena sotto il mento. Aveva una bocca piccola e carnosa, un minuscolo nasino dritto e proporzionato e grandi occhi d'oro, contornati da lunghissime ciglia bianche.
«Vi presento Daireen, Signora delle Maledizioni e Principessa di Findias» declamò Alastair ed io mi inginocchiai come avevo fatto qualche ora prima.
«Alzati, ragazza. Le formalità a me non interessano» fu però il rapido ordine di Daireen, al quale io schizzai in piedi come una molla.
«Vorrei approfondire meglio la questione che mi hai presentato oggi nella missiva, Alastair» andò dritta al punto la Principessa, ma fu prontamente interrotta: «Tempo al tempo, cara. Attendiamo gli altri, poi discuteremo» le consigliò il Principe, offrendole poi un calice di cristallo ricolmo fino all'orlo di liquido dorato che riconobbi come il sidro fatato che la sera precedente aveva mandato fuori di zucca Labhraidh.
La Principessa tracannò l'intero contenuto del bicchiere e, dopo averne rapidamente afferrato un altro, borbottò: «Morven è già arrivato. L'ho visto puntare una delle tue cameriere poco fa».
Gli occhi di Alastair lampeggiarono di rabbia ed egli si allontanò a grandi falcate senza dirci alcunché, lasciandoci in balia della Principessa.
«Dunque... chi di voi è il possessore della Spada?» domandò melliflua, e il suo sguardo di ghiaccio scivolò su ognuno di noi, per poi fermarsi su Donegal, il quale aveva fatto un passo avanti e aveva mostrato il fodero legato alla cintura.
«Bene, bene» mormorò lei, passandosi la lingua sul labbro superiore e fissando la fata con una certa bramosia, «Sapremo divertirci, tu ed io».
«Non sapevo Voi aveste preso il posto di vostro padre, Principessa» proferì Conneleugh, distogliendo l'attenzione da un impacciato Donegal.
Daireen sbuffò sonoramente: «Balthair è morto circa cinque fuochi celesti fa, e Neirin... diciamo che mio fratello si è dimostrato incapace di governare. Ora la sua testa è infilzata su una picca».
«Oh, mi... mi rincresce, Principessa» ribadì Conneleugh, stringendosi le mani in grembo.
«A me no» Daireen sorrise, e i suoi canini luccicarono sinistri alla luce delle candele, «Dopotutto, sono stata io a infilzarcela».
Deglutii sonoramente nel notare la tranquillità con la quale la Principessa narrava il fratricidio che aveva compiuto, e mi domandai distrattamente se, in quel mondo, ottenere il potere tramite l'omicidio fosse la prassi, così come lo era fra le casate europee nel medioevo.
«Mortali, vi presento il Principe di Gorias, Morven Testa di Lupo».
Alastair tornò da noi, accompagnato da un uomo sulla trentina avvolto in un mantello nero che sfiorava il pavimento, che lo avviluppava come un'ombra. Il Principe Morven aveva i capelli rasati a zero, arcuate sopracciglia di un castano rossiccio e immensi occhi gialli. Osservandolo con più attenzione, mi parve addirittura di vedere la sua pupilla leggermente allungata in verticale, come quella di un predatore... di un lupo.
Un ghigno sinistro incurvò le sottili labbra di Morven: «Siete i benvenuti nelle Terre Lontane... almeno per ora».
Il modo in cui ci guardò mi fece rabbrividire nonostante il caldo tropicale della serata: quel Principe ci stava fissando come se non vedesse l'ora di saltarci al collo e dilaniarci la giugulare.
«Fa troppo caldo in questo posto, Alastair» si lamentò poi il Principe e, con uno scocciato gesto della mano, diede origine ad una gelida corrente che serpeggiò fra gli ospiti sollevando gonne e scompigliando acconciature, per poi soffiare gelida sulle mie guance accaldate.
Quello sfoggio di magia fece sorgere in me un campanello d'allarme, come se quell'energia strana e potente avesse sinceramente spaventato la strega che era in me.
«Li sapete fare anche voi questi giochetti, mortali?» domandò placido Morven, strascicando le parole in modo tale che la sua parlata fosse simile al sibilo sussurrato di un serpente.
Conneleugh tradusse, e Grania evocò il vento senza dire una parola.
Una brezza profumata di fiori aleggiò nella stanza andando a carezzare il pesante mantello nero di Morven, che ondeggiò sul pavimento mosaicato, increspandosi come un'onda nera.
«Oh, molto bene. Meglio di quanto mi aspettassi, per lo meno» commentò il Principe, rivolgendo un ghigno ferino a Grania, che arrossì sotto il suo guardo predatorio.
Riconobbi il coraggio di Grania nel notare come non distolse lo sguardo Morven: se gli occhi gialli del Principe si fossero posati su di me con quell'intensità, probabilmente sarei scappata via a gambe levate senza guardarmi indietro.
«Cos'avete detto di essere? Mezzosangue?» chiese di nuovo Morven, apparentemente incuriosito dal nostro lignaggio.
«Sì, sono mezzosangue. Metà umani e metà fate, anche se la proporzione delle due specie varia da individuo a individuo» rispose per noi Conneleugh, agguantando poi un calice di sidro e sorseggiandone piano il contenuto.
«Interessante» mormorò Morven, tornando a studiarci con un morboso interesse negli occhi.
«Dov'è quel maledetto Domhnall?» sentii in quel momento Alastair ringhiare.
A quel suono, basso e minaccioso, mi si rizzarono i peli sulle braccia: fino a quel momento, Alastair era stato estremamente cordiale, a tratti inquietante ma pur sempre cordiale, e quello scoppio di nervosismo servì a ricordarmi che il Principe era letale almeno quanto Morven, anche se all'apparenza non si sarebbe detto.
«Domhnall?» domandò Conneleugh, confuso, «Che ne è stato di Madoc?».
Un ghigno macabro incurvò le labbra di Morven: «Oh, Fenice, ti sei perso molte cose interessanti, negli ultimi millenni» gongolò, dondolandosi sui talloni con evidente entusiasmo.
«Potresti elaborare?» borbottò Conneleugh, incrociando le braccia al petto con espressione perplessa.
Si intromise Daireen che, sogghignando sommessamente, disse: «Madoc ha il cervello più fritto di un cosciotto di agnello. Non è morto, ma non si può nemmeno dire che sia vivo... È un vegetale, ormai».
«Il Principe Reggente ora è Domhnall, il generale dell'esercito» aggiunse Morven, piegando il collo a sinistra e facendolo scricchiolare in modo fastidioso.
«Un momento... quel Domhnall? Lo Spezza Cuori?» domandò Conneleugh, la cui espressione si era fatta improvvisamente sospettosa.
«Ed ecco la reazione che aspettavo» commentò Morven, rivolgendo un sorriso freddo alla Fenice.
«Il vecchio Principe diventa un vegetale e il suo generale, uno Spezza Cuori, prende il suo posto... un po' losca la cosa, non credi anche tu?» insinuò, facendo roteare con lentezza il liquido ambrato nel suo bicchiere.
«Che cosa...» mi schiarii la voce e feci un passo avanti, «Che cosa è uno Spezza Cuori?».
Conneleugh si voltò verso di me e fece un sospiro profondo, probabilmente esasperato dalle mie incessanti domande, ma, prima che mi potesse rispondere, una voce profonda proferì: «Io sono uno Spezza Cuori».
Mi voltai di scatto e, qualche metro più indietro, vidi un vichingo. Un maledetto vichingo.
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