Effetti indesiderati

Buon 2023 a tuttiii🥰
Come è andata ieri sera? Avete passato un buon Capodanno?

Il capitolo di oggi è quasi in tema con Capodanno... Perché scorreranno litri e litri di alcool.
E, come sempre succede quando la quantità di alcol nel corpo supera quella di sangue, ci saranno DIVERSE scelte sbagliate e DIVERSE scene cringe.
Ah, fra parentesi: capitolo a rating... Rosa? Si può dire rosa? Esiste un rating rosa?
Alcune di voi mi vorranno prendere a bastonate, e avrebbero anche ragione nel farlo, quindi... Preparatevi al peggio.
Come sempre, fatemi sapere cosa ne pensate (non siate troppo cattive vi prego 😂) e scusate l'estrema lungheeeezza del capitolo.
Buona lettura❄️

***

La taverna era gremita di gente. Non appena varcai la soglia d'ingresso, l'odore di alcol e il calore dei corpi accaldati mi fece quasi barcollare, tanto che una saggia parte di me mi suggerì di voltarmi e tornarmene al palazzo, ma, purtroppo, qualcuno mi individuò prima che potessi fare retromarcia: «La nostra nuova concittadina è arrivata!».

Urla di giubilo si levarono dagli astanti e, senza che me ne rendessi conto, mi ritrovai con una pinta di sidro stretta fra le mani. Venni trascinata dalla folla all'interno del pub e, quando mi resi conto che gli avventori stavano inneggiando il mio nome con foga spropositata – per ormai la trentesima volta, quella sera – arrossii violentemente e nascosi il viso nel liquido ambrato, prendendone un grosso sorso e sperando che l'alcol cancellasse al più presto la vergogna dalle mie guance.

«Sei una celebrità» mi prese in giro Labhraidh, posandomi una mano sulla schiena e indirizzandomi verso uno sgabello libero in un angolino del bar vicino al bancone.

«Mi guardano tutti» borbottai prendendo un secondo sorso di sidro, cercando inutilmente di non fare caso a tutte le fate che mi stavano fissando con esagerato interesse.

Labhraidh sorrise e i suoi denti bianchi brillarono nella luce soffusa del locale: «Sei la prima Cittadina mezzosangue, Rowan, è logico che la gente ti fissi».

Mugugnai parole poco comprensibili e il mio sguardo, perso fra la folla, individuò un omone grosso e imponente farsi strada verso di me. Cercai di nascondermi sotto il bancone per evitare il suo sguardo color ambra, ma quello non perse interesse e si piazzò di fronte a me con le gambe divaricate e le mani posate sui fianchi stretti.

«Allora, ragazzina...» la sua voce raspante mi fece accapponare la pelle, ma un sorriso gentile comparve sul viso della fata quando continuò: «...C'è una botte che ti aspetta».

Senza che avessi nemmeno il tempo di chiedergli che diavolo significassero le sue parole, quello mi afferrò per la vita come se non pesassi nulla e mi caricò sulle sue spalle.

La folla si aprì per farci passare e io, dondolando sulla schiena della fata come una bambola di pezza, pregai Labhraidh con sguardo implorante di tirarmi fuori da quella situazione, ma il mio migliore amico si limitò a ridermi in faccia e a seguirci, sorseggiando il suo sidro con soddisfazione.

La fata mi depositò a terra solo quando avemmo raggiunto una piccola saletta privata, inondata da una soffusa illuminazione rossa. Mi guardai intorno perplessa e vidi una trentina di fate raggruppate intorno ad un'ampia botte di legno nero, i loro occhi fissi su di me come se fossi l'attrazione principale dello spettacolo.

«Bevi direttamente dalla Fonte degli Dei, Cittadina!» mi ordinò l'energumeno che mi aveva barbaricamente prelevato dal bancone.

«Un momento, un momento!» feci un paio di passi indietro, «Cos'è questa roba?» domandai, poi i miei occhi sospettosi corsero alla botte: «Non è... sangue, vero?».

Le risate vibrarono nella saletta e una bella fata dai capelli argentei mi si avvicinò: «La botte contiene il Nettare Divino... ci fu donato dagli dèi per celebrare i nuovi Cittadini della città di Murias. È tradizione che ogni nuovo cittadino ne prenda un sorso, dopo aver superato la prova con la Veggente».

«Gli dèi in persona ve l'hanno donato?» domandai scettica, squadrando con una smorfia il legno consunto della botte.

«Così dice la tradizione» ribadì la fata, facendomi l'occhiolino.

«Ottimo...» borbottai con sarcasmo, avvicinandomi con sospetto al barile.

L'energumeno che mi aveva trascinata nella stanza mi ordinò di sdraiarmi sotto il rubinetto della botte e di aprire la bocca ed io, sentendo gli sguardi colmi di aspettativa degli astanti fissati su di me, non me la sentii di rifiutare. Mi sdraiai quindi con una smorfia di disgusto sull'appiccicoso pavimento del pub e schiusi le labbra, pregando gli dèi affinché non mi venisse una qualche malattia esotica nel bere la robaccia che doveva sicuramente essere contenuta nella botte.

La fata dai capelli argentati aprì il rubinetto e un liquido d'oro piovve nella mia bocca, caldo, denso e... e maledettamente alcolico.

Le mie guance si riempirono di quello che sembrava fuoco liquido e io, per non soffocare, mi trovai costretta ad inghiottirlo fino all'ultima goccia, combattendo contro i conati di vomito.

Mi misi quindi in ginocchio e tossii fino alle lacrime, sputacchiando: «Questa... è... maledetta benzina! È cherosene! Voi mi volete ammazzare!».

L'omaccione mi tirò in piedi sollevandomi per la collottola e mi diede una poderosa pacca sulla schiena, facendomi barcollare in avanti: «Cittadina!» tuonò, e tutti i presenti gli fecero il coro.

Io mi districai fra le braccia delle fate e raggiunsi Labhraidh, relegato in un angolino a godersi lo spettacolo.

«Da' qua, per favore!» gli dissi, agguantando il suo boccale di sidro e tracannandone più della metà al solo scopo di cancellare dalle mie papille gustative l'orrenda sensazione di avere ancora quel fuoco bollente in bocca.

«Piano, piano!» rise il mio migliore amico, riprendendosi la pinta prima che me la potessi scolare tutta.

«Che diavolo era quella roba?!» strepitai, pulendomi forsennatamente le labbra nel sentire un diffuso calore che ancora persisteva sulla mia pelle.

«Qualcosa di forte, direi» osservò Labhraidh, sorreggendomi per un braccio nel vedermi ondeggiare leggermente.

«Sto bene, sto... ohhh!» esalai in un lungo sospiro, mentre la testa iniziava a vorticare come se avessi appena avviato una centrifuga per il mio cervello.

«Ma che diavolo mi hanno fatto bere...» borbottai, sbattendo rapidamente le palpebre mentre le luci rossastre della saletta iniziavano a sfavillare come sfere stroboscopiche.

«A Rowan O'Brien, la mezzosangue di Murias!» udii qualcuno inneggiare e, mentre un coro trionfante echeggiava nel bar, una potente musica di tamburi e cornamuse iniziò a pulsare tutt'intorno a me.

Sentii il ritmico suono del tamburo affondarmi nel petto e il mio cuore si sintonizzò sul suo rapido ritmo, mentre il mio corpo ondeggiava sinuoso seguendo la melodia delle cornamuse. Sollevai il viso verso il soffitto e mi sentii inondare dalla calda luce rossa delle fiammelle, mentre i miei capelli scivolavano come una cascata lungo la schiena, ondeggiando come serpenti sulle mie spalle nude.

«Voglio ballare!» strillai a Labhraidh, afferrando la sua mano e avvicinandolo a me. I suoi occhi scuri brillavano del rosso delle luci e apparivano immensi e seducenti, mentre giochi d'ombra facevano apparire i suoi zigomi affilati e i suoi capelli una lucida chioma di tenebra.

Allacciai le braccia attorno al suo collo e ondeggiai contro di lui, mentre le sue calde mani scivolavano sulla mia schiena lungo il sottile tessuto del vestito di seta che indossavo.

Il confortevole calore del suo corpo mi attrasse ancora più vicina, come un moscerino con una lampada e, per qualche secondo di troppo, io... io desiderai il tocco di un uomo sul mio corpo.

«Devo bere» sentenziai non appena feci quella realizzazione e, staccandomi da Labhraidh talmente in fretta da barcollare, marciai verso il bancone del bar, passandomi le mani sulle braccia nude per far scomparire il maledetto brivido di desiderio che mi aveva fatto venire la pelle d'oca.

Il sangue che avevo bevuto dalla coppa di Domhnall, l'incontro con Morven e i suoi affilati canini, il sidro che avevo bevuto, la musica assordante che mi vibrava fin dentro le ossa... l'insieme di tutti questi fattori mi stava dando alla testa, facendomi provare cose che non avrei dovuto provare.

I bagliori rossi delle candele parvero esplodere nella mia visione periferica come fuochi d'artificio e lo spazio sembrò dilatarsi fra me e tutti gli altri; il calore dei corpi e delle fiammelle mi avvolgeva come una coperta e tutto sembrava brillare: i bicchieri di vino e i boccali di birra, le bottiglie sugli scaffali, gli occhi delle fate presenti e i loro sorrisi languidi. Le mie membra parvero diventare liquide ed io scivolai fra la folla con una grazia innata nonostante l'alcol che mi scorreva nelle vene, con la testa leggera e il cuore accelerato nel petto.

Non appena raggiunsi il bancone mi fu prontamente offerta una pinta di sidro da una fata che mi aveva riconosciuto come Rowan, la Mezzosangue Cittadina, ed io ingollai il liquido ambrato nella speranza che la sua freschezza raffreddasse i miei bollenti spiriti.

«Vacci piano, amica» mi ragguagliò Labhraidh, parlando al di sopra della mia spalla. Non mi girai verso di lui e, anzi, tracannai un altro sorso di sidro.

Solo dopo essermi passata il dorso della mano sulle labbra riuscii a rispondere un secco: «Ne ho bisogno».

«Va tutto bene?» mi domandò perplesso lui, affiancandomi e posandomi una mano sulla spalla.

«Sì, sì» risposi in fretta, «Ho solo caldo».

«Caldo, eh?» indagò scettico, con le sopracciglia alzate in un'espressione perplessa.

Annuii in modo convinto: «Sai cosa? Credo che andrò in bagno» sentenziai quindi, poi gli allungai il mio sidro e domandai: «Mi curi il boccale, per favore?».

Labhraidh afferrò il manico di legno del boccale ma non parve troppo contento, infatti borbottò: «Dammi un minuto, così lo finisco e vengo con te».

«No!» strepitai, «Stai tranquillo, resta qui. Non mi perdo mica sulla strada per il bagno!» ridacchiai, dandogli una pacca sulla spalla e sgattaiolando via.

Dovevo sciacquarmi la faccia e rinfrescarmi il collo, assolutamente: forse l'acqua gelata avrebbe mosso a tacere quella smania frenetica che mi stava bruciando nelle vene e l'avrei piantata di pensare alle mani di qualcuno sul mio corpo.

Scivolai verso il bagno con andatura sicura ma, non appena il rombo dei tamburi riprese a martellarmi nella cassa toracica, il bisogno di ballare tornò a farsi sentire con prepotenza.

Sollevai il volto al soffitto e mi sentii invasa dalla luce rossa, quella maledetta luce rossa che pareva avvolgermi in una seducente foschia di desiderio, e iniziai ad ondeggiare a ritmo. Mi spostai verso il centro della sala, dove le fate danzavano sfrenate, e mi lasciai invadere dalla musica e dall'energia vibrante dei loro corpi accaldati.

Gettai la testa all'indietro e sollevai le mani in alto, ondeggiando come un giunco al vento, e quando riaprii gli occhi mi ritrovai di fronte una fata dai capelli d'oro, che mi sorrideva con le voluttuose labbra tinte di rosso.

«Balliamo!» mi gridò la donna e, senza attendere la mia risposta, mi strinse i fianchi con mani sottili ma forti.

Un sorriso genuino mi comparse sul viso ed io le gettai le braccia al collo, avvicinandomi a lei fino a sentire il calore del suo corpo vibrare attraverso il vestito rubino che indossava, e chiusi gli occhi, abbandonandomi alla musica che mi faceva vibrare come una corda di violino.

Quando infine sollevai di nuovo le palpebre, il mio sguardo si scontrò con un paio di occhi color ambra, appartenenti a un maschio Daoine Sidhe che ballava avvinghiato ad una bella brunetta, appena oltre le spalle della fata con la quale stavo ballando io.

Gli occhi d'ambra del Daoine Sidhe rimasero fissi su di me ed io non riuscii a distogliere l'attenzione da lui, anzi, non potei che studiarlo avidamente. La fata era ben piazzata, le braccia erano fasci di muscoli gonfi e scattanti e ogni centimetro di pelle visibile era ricoperta di tatuaggi. Aveva i capelli rasati, di un castano chiaro, e quegli occhi color ambra che era impossibile non fissare.

Rabbrividii nel rendermi conto di quando egli somigliasse a Morven.

Una brunetta si strusciava estasiata fra le sue braccia con la guancia posata sulla sua spalla, e la mano di lui stringeva possessivamente il fondoschiena di lei.

Come al rallentatore, vidi il Daoine Sidhe sorridermi in modo accattivante, e il luccichio dei suoi canini attirò la mia attenzione. Con gli occhi sempre fissi nei miei, lui si leccò le labbra e con un gesto lento e seducente affondò i denti nel collo della brunetta.

Vidi le labbra di lei schiudersi in un gemito, la sua schiena si inarcò tanto che il suo seno si premette contro il petto di lui e il suo viso si distese per il piacere, come se stesse avendo un vero e proprio orgasmo.

Le parole di Morven riecheggiarono nella mia mente ed io mi resi conto che egli non aveva mentito: la fata stava godendo con i canini del Fae nella gola, e la sua sottomissione aveva un ché di intrigante.

Il Fae si staccò dal collo della brunetta e si pulì con un dito l'angolo della bocca, dov'era rimasta una goccia di sangue vermiglio, per poi infilarselo in bocca e succhiarlo in modo sfacciato.

Rabbrividii, e un brivido di piacere mi fece stringere le gambe.

Mi rivolse quindi un sorriso seduttore e sollevò una mano verso di me, rivolgendomi un silenzioso invito ad unirmi a lui.

Come se fossi in trance, mi staccai dalla donna con la quale stavo ballando e scivolai verso il Daoine Sidhe, alla ricerca di un maledetto sollievo per il feroce calore che mi stava bruciando fra le gambe.

Quando le sue mani mi sfiorarono la pelle delle braccia, tremai.

Accarezzai i suoi forti pettorali e lui mi strinse i fianchi, avvicinando prepotentemente il mio corpo al suo. Reclinai il collo all'indietro e lessi la bramosia nei suoi occhi d'ambra, talmente chiara da farmi accelerare il battito del cuore.

Lui sorrise e suoi canini brillarono di nuovo nella luce rossa del locale, e io fremetti davanti al desiderio di sapere cosa si provasse nell'averli conficcati nella carotide.

«Che diavolo stai facendo, maledizione?!».

Mi sentii tirare indietro, e il volto estremamente incazzato di Labhraidh invase la mia visuale.

«Sei fuori di testa?!» ringhiò il mio migliore amico, stringendomi con forza il braccio e trascinandomi lontano dalla fata con gli occhi d'ambra.

«No, aspetta, Labhraidh...» protestai, dibattendomi e cercando inutilmente si sfuggire alla sua presa.

«Cosa devo aspettare, Rowan? Che quello ti ficchi i canini nella gola?! Per favore, spiegamelo, perché io non sto capendo» ringhiò lui, obbligandomi con la forza a sedere su un divanetto in penombra e troneggiando su di me con espressione furente.

«Io...» balbettai, abbassando lo sguardo sulle mani che tenevo in grembo, imbarazzata, «Io voglio solo... divertirmi. Non posso?».

L'imbarazzo si dissipò e la rabbia prese il sopravvento sul buon senso, tanto che ringhiai: «Voglio ubriacarmi, ballare e perché no, forse anche scopare con una di queste fate. Non me ne frega di quello che pensi tu, questo è quello che voglio fare io questa sera!».

«Lo so benissimo che cosa vuoi. Lo sento, dannazione, è come un maledetto tarlo che mi pulsa nel corpo» ringhiò lui di rimando, passandosi la mano fra i folti capelli scuri.

«Che cosa...» tentai, confusa dalle sue parole, ma lui mi impedì di continuare: «No, adesso tu taci. Sta' zitta e ascoltami, maledizione» sibilò.

Si chinò alla mia altezza e mi puntò il dito contro il viso: «Tu adesso te ne stai qui immobile, non parli con nessuno e aspetti che io ti vada a prendere un bicchiere di acqua. Non so che diavolo ti abbiano fatto bere da quella botte, ma non ho intenzione di vederti fare scelte di cui sicuramente domattina ti pentiresti» sbottò.

I suoi occhi scuri mi fissarono severi per qualche istante, poi lui si girò e scomparve fra la folla, mentre io gli strillavo contro un paio di insulti poco gentili.

Chinai la testa sul tavolo ed esalai un lungo sospiro. Il briciolo di razionalità che mi era rimasto mi suggeriva che Labhraidh aveva ragione, maledettamente ragione, ma il mio corpo... il mio corpo bruciava. Era come se ogni terminazione nervosa fosse iper-stimolata, come se ci fosse questa meravigliosa forza sconosciuta che mi spingeva a fondermi con la musica, a toccare la pelle di qualcuno ed essere a mia volta toccata, a sentire ogni cosa.

Chiusi gli occhi e sospirai piano, imprecando contro le fate e le loro feste sregolate e folli.

Posai la guancia sull'appiccicaticcio tavolino di legno, traendo un minimo di sollievo dal fresco contatto con la superficie. Per una manciata di secondi mi parve di essere in caduta libera, poi i miei muscoli si contrassero automaticamente ed io sussultai sul divanetto.

Riaprii gli occhi e mi accorsi che la musica era cambiata: non era più un assordante martellare di tamburi: ora si era trasformata in un ritmico intreccio di suoni bassi e note veloci, un alternarsi di cetre, liuti e tamburelli, fusi a creare una melodia antica che mi fece accelerare il battito cardiaco.

Per circa trenta secondi cercai di resistere alla musica, stringendo con forza il bordo del tavolino di fronte a me come per imporre a me stessa di restare ferma lì ad attendere Labhraidh, ma la mia autodisciplina si sciolse in fretta, come neve al sole: iniziai a seguire il ritmo con la gamba, poi ad ondeggiare con il busto e infine mi ritrovai in piedi, a ballare da sola in un angolo della stanza gremita di fate.

Chiusi gli occhi e mi lasciai pervadere dalle note, adorando il modo in cui il mio corpo era in grado di seguire alla perfezione la melodia, quasi come se mi fossi allenata specificamente per quel ballo.

Mi passai le dita fra i capelli e sollevai le braccia al cielo, ancheggiando lentamente, finché qualcuno fece scivolare le ampie mani sui miei fianchi. Un corpo bollente aderì alla mia schiena ed io mi inarcai all'indietro, sorridendo nella penombra con gli occhi socchiusi.

Le mani dello sconosciuto scivolarono pigre e sicure sul mio corpo, aderendo al mio vestito di seta e sfiorandomi i fianchi con una lentezza estenuante.

Premetti la schiena contro il suo petto muscoloso e un sospiro mi sfuggì dalle labbra quando le sue dita mi accarezzarono il ventre con movimenti lenti e circolari. Sollevai le braccia e le allacciai dietro alla sua testa, affondando le dita nei suoi capelli lunghi e setosi e inarcando la schiena per dargli il libero accesso ad ogni centimetro del mio corpo.

Lo sconosciuto mi strinse un braccio attorno alla vita e le sue dita si fecero maledettamente vicine al mio inguine, mentre con l'altra mano risaliva il mio costato sfiorandomi il profilo del seno.

Percepii i capezzoli indurirsi contro la sottilissima seta del mio vestito e abbandonai la testa contro la sua spalla, mentre un gemito spezzato mi sfuggiva dalle labbra.

«Non prendere fuoco, mezzosangue».

Il sussurro freddo che mi accarezzò la pelle del collo mi fece raggelare.

Spalancai gli occhi e, girando rapidamente la testa all'indietro, verso lo sconosciuto, mi ritrovai a fissare le iridi d'argento di Lúg.

Strizzai le palpebre e chiusi di nuovo gli occhi, sapendo benissimo che Lúg non poteva essere davvero , in quella maledetta taverna di Murias, ma quando li riaprii mi ritrovai di nuovo a fissare il suo penetrante sguardo di ghiaccio.

Lo sentii aumentare leggermente la presa sul mio corpo, quasi come se si aspettasse che fossi sul punto di divincolarmi, ma io rimasi immobile... succube del calore delle sue mani.

Nel rendermi conto di trovarmi completamente esposta a Lúg, inarcata contro il suo corpo e coperta solo di uno straccio di seta nera, il mio cuore accelerò i battiti in un misto di paura ed eccitazione che mi fece tremare le gambe.

Il Generale mi fissò negli occhi e fece deliberatamente correre un dito lungo il profilo del mio seno, ed io fui costretta a mordermi le labbra per non gemere.

Una parte di me, minuscola e molesta, avrebbe voluto divincolarsi dalla sua presa bollente e correre via, il più lontano possibile dai suoi occhi, ma un'altra parte, in quel momento predominante, non desiderava altro che sentire le sue mani scivolare sui miei fianchi e il suo corpo premere contro il mio.

Rabbrividii fra le braccia del Generale e mi spinsi contro la sua mano, desiderando un contatto più forte, anelando le sue dita sulla mia nuda pelle. Esalando un lento sospiro, posai la nuca sulla sua spalla e sollevai lo sguardo su di lui, trovandolo intento a fissarmi con un sorriso predatorio in volto. I bianchi canini baluginarono nella luce soffusa della taverna, spiccando chiari in contrasto con il rosso cupo delle sue labbra, ed io fui scossa da un fremito di desiderio.

Mi sollevai sulle punte strusciando inconsciamente il sedere contro i suoi fianchi e, stringendo con più forza i suoi capelli setosi, fui sul punto di sussurrargli di affondare i denti dentro di me... ma tenni la bocca chiusa, conscia del fatto che a parlare fosse il mio corpo incendiato dal desiderio, non la mia mente.

Il Generale aumentò la presa sul mio ventre, premendomi contro di sé; mentre l'altra sua mano risalì il mio fianco in una carezza bollente, andando poi a stringersi con delicatezza alla mia gola.

«Che cosa vuoi?» domandò Lúg in un sussurro, la sua voce un sibilo di ghiaccio fra i miei capelli.

Rabbrividii fra le sue braccia, non per la paura ma per via del suo pollice calloso che lento mi sfiorava la carotide.

Un guaito mi fece vibrare la gola e mi protesi verso di lui con il corpo in fiamme: «Io... io non lo so» mentii con una voce che suonò alle mie stesse orecchie come supplicante; nel mentre, la mia mente traboccava di immagini in cui lui mi sbatteva contro la parete e affondava i canini dentro di me, sottomettendomi al suo volere.

«Perché sono qui, Rowan?» sussurrò lui di nuovo, sfiorando la mia tempia con le labbra mentre parlava.

«Non lo so!» squittii con il cuore a mille, «Io voglio... volevo solo...» ma i miei mugolii incoerenti furono sostituiti da un gemito che mi sfuggì dalle labbra nel sentire le sue unghie graffiare in una rude carezza la mia gola.

Lúg trasse un profondo respiro, inspirando il mio odore, e ringhiò a denti stretti: «Per gli dèi».

Affondò il volto nel mio collo e io annaspai, ma lui si limitò a sfregare il naso contro la mia pelle, stuzzicandomi la cute con l'ispida barba delle guance.

Continuando a stringermi la gola in una morsa delicata, con il mio sangue che pompava furioso sotto i suoi polpastrelli, Lúg mi afferrò una mano e la abbassò all'altezza del mio addome.

La sua mano guidò la mia verso il basso, lungo il fianco e poi sulle spine iliache superiori, e poi ancora giù, verso il monte di venere.

Fremiti di piacere mi increspavano la pelle laddove le dita di Lúg lasciavano la loro calda carezza, e il mio respiro si fece più pesante.

Man mano che le nostre dita intrecciate procedevano leziose sulla mia pelle, il mio sangue diventava via via più bollente nelle arterie, alimentato dal respiro caldo del generale che si infrangeva sulla mia gola.

Le labbra di Lúg sfiorarono la pelle delicata del mio collo quando egli mormorò con voce roca: «Toccati».

Al suo ordine, un gemito selvaggio mi sfuggì rauco dalla gola e le mie dita scivolarono incontrollate fra le mie cosce, con il solo sottilissimo tessuto di seta a separarle dal centro pulsante in mezzo alle mie gambe.

La lingua di Lúg accarezzò piano il mio collo e, mentre i suoi denti mi sfioravano la pelle senza scalfirla, io mi toccai.

Tremai fra le sue braccia e lui mi strinse con più forza, respirando il mio odore e accarezzando la mia gola, sussurrando con voce torva: «Non fermarti».

Mi morsi il labbro quasi fino a farlo sanguinare e obbedii ciecamente ai suoi ordini, toccandomi di nuovo e abbandonando completamente il mio corpo a lui, la mia schiena contro il suo petto e il suo respiro sulla mia carotide.

Gemetti piano contro la sua spalla e fui sul punto di toccarmi di nuovo, oppure di toccare lui, non lo sapevo, quando iniziai a sentire il suo corpo farsi meno solido alle mie spalle. Sollevai lo sguardo su di lui e vidi i suoi occhi argentei farsi sbiaditi, così, in un moto di cieco desiderio, afferrai con forza la sua mano, posata in modo quasi possessivo sul mio ventre, e lo implorai: «Non osare, non adesso».

Purtroppo, non vi era nulla che Lúg potesse fare per trattenermi nel sogno, così i suoi contorni si fecero via via sempre più sfocati e il suo corpo divenne evanescente, finché il suo calore non scomparve completamente ed io mi risvegliai con la guancia pressata contro l'appiccicaticcio tavolino del pub, con Labhraidh che mi scuoteva violentemente per una spalla.

Saltai a sedere sulla panca, stordita, e il gelo invase le mie vene facendo raffreddare i miei bollenti spiriti.

«Stavi facendo un bel sogno?» borbottò Labhraidh con una smorfia, senza guardarmi negli occhi.

Io mi passai una mano sul viso e mi sistemai il vestito, la cui spallina mi era scivolata lungo la spalla; poi mi schiarii la voce e presi un profondo respiro, ringraziando gli dèi nel rendermi conto che il pulsare fra le mie gambe si stava lentamente attenuando.

«No» gracchiai, rabbrividendo nelle spalle nel rendermi confusamente conto di ciò che era accaduto... e di ciò che sarebbe potuto accadere se Labhraidh non mi avesse svegliata.

Scossi la testa e un feroce senso di colpa mi strinse la gola in una morsa d'acciaio: ero stata debole, succube della magia delle fate che mi aveva annebbiato la mente e che aveva offuscato il mio giudizio.

Mi strinsi la testa fra le mani e bofonchiai: «Io me ne vado a letto».

Mi alzai e, malferma sulle gambe, mi avviai verso l'uscita del pub. Labhraidh cercò di sostenermi per un braccio ma io mi scansai da lui e, vedendo la sua espressione offesa, spiegai: «Ce la faccio, sto bene. Mi è passato quello... quello che avevo prima, qualunque cosa fosse».

Il mio migliore amico non commentò, ma mi seguì fuori dal pub come una fedele guardia del corpo, accompagnandomi fino alla carrozza nera che ci aveva portati in quella bettola nei sobborghi di Murias.

«Resta qui... divertiti un po'» gli suggerii, chiudendomi lo sportello della carrozza alle spalle e impedendo a Labhraidh di venire con me.

«Ma io...» tentò di opporsi lui, ma io lo interruppi: «Mi dispiace per come mi sono comportata, sono stata una sciocca. Ti chiedo scusa. Ora me ne andrò dritta a letto, ma tu resta qui a divertirti almeno un altro po'... ti mando indietro la carrozza appena arrivo a palazzo».

Labhraidh mi scrutò per qualche istante, poi mormorò: «C'è... c'è una cosa di cui ti devo parlare, Rowan».

Intuendo che il tono della sua voce non prometteva nulla di buono, arretrai quasi inconsciamente nel buio della carrozza: «Può aspettare domani? Ho davvero molto sonno» pigolai, non avendo nessuna intenzione di subirmi una ramanzina (meritata, lo sapevo benissimo), almeno non quella sera.

Il mio migliore amico esalò un profondo respiro, probabilmente trattenendo gli insulti, ma alla fine borbottò: «Sì, va bene».

La carrozza partì e io mi nascosi nelle ombre della notte. Fissai lo sguardo nel buio dell'angusto abitacolo e lasciai andare un respiro tremante, passandomi le mani sul viso teso.

«Che cazzo ho fatto?» mormorai piano, e passai la lingua sul labbro ancora dolente a causa del morso che mi ero autoinflitta nel sogno.

Mi tirai un ceffone sulla guancia, cercando di darmi un contegno, e giurai a me stessa che non avrei mai più pensato a ciò che era accaduto in quel dannatissimo sogno... dopotutto, forse era stato solo e soltanto quello: un sogno, puro e semplice. Un incubo, forse, ma comunque qualcosa di cui nessuno sarebbe mai venuto a sapere, qualcosa a cui non avrei pensato mai più.

Mai più, giurai a me stessa, non ci avrei pensato mai più... eppure, quando arrivai nella mia camera e mi ritrovai avvolta solo dalle lenzuola di seta e dalle ombre della notte, mi toccai fino a venire, con gli occhi argentei di Lúg impressi a fuoco dietro le palpebre.

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