Cena indigesta

Buondì! Il capitolo di oggi è un po' noioso, lo riconosco, ma è necessario per porre le basi agli sviluppi futuri... Ancora un paio di capitoli e il libro prenderà lo slancio, promesso!
A presto,
Sara🌺

***

Il vichingo apparso alle mie spalle indossava una veste lunga fino alle ginocchia di un intenso blu cobalto, riccamente decorata all'altezza del petto e stretta in vita tramite una cintura di cuoio, spessa diversi centimetri, alla quale erano fissati due foderi per altrettante daghe. Aderenti pantaloni di pelle marrone spuntavano dalla veste e terminavano all'interno di un paio di stivali di cuoio neri dalla punta rinforzata.

L'uomo aveva i lati della testa e la nuca rasati in modo tale che fossero evidenti gli antichi simboli celtici tatuati sul cuoio capelluto, e i suoi capelli neri erano intrecciati in un'elaborata coda di cavallo fatta di treccine e fili di cuoio che gli scendeva fra le scapole.

Nonostante tutto, in lui, fosse piuttosto intimidatorio, fu solo guardandolo in volto che rabbrividii: uno spesso trucco nero era stato applicato su tutta l'area dell'orbita e, ad altezza degli zigomi, la tintura color pece si allungava sulle sue guance in tre lunghe impronte, che somigliavano in modo sinistro a profonde unghiate.

Il vichingo appariva maledettamente minaccioso.

I suoi occhi neri, talmente scuri che mi risultò impossibile distinguere l'iride dalla pupilla, si fissarono nei miei, e il cuore mi balzò in gola e la paura strisciò nelle mie vene, raggelandomi sul posto.

Un ghigno appena accennato comparve sul volto spietato dell'uomo, ed egli ripeté: «Io sono uno Spezza Cuori... e voi cosa siete, ragazza?».

La mia bocca era arida come il deserto, così mi umettai le labbra e balbettai: «Una... una mezzosangue, signore».

«Principe!» mi corressi subito, cadendo in ginocchio ai suoi piedi e implorando gli dei che il vichingo non decidesse di uccidermi seduta stante per la mia mancanza di rispetto.

Lo sentii ridere profondamente e, senza distogliere gli occhi da un tassello di mosaico del pavimento, percepii i suoi passi avvicinarsi a me.

I suoi stivali di cuoio entrarono nella mia visuale e, con un fruscio di vesti, il Principe si chinò alla mia altezza.

«Domhnall Spezza Cuori, Principe Reggente di Murias» disse la sua ruvida voce.

Lo guardai di sfuggita al di sotto delle ciglia e vidi che mi stava porgendo il braccio nel consueto saluto da strega, attendendo con pazienza la mia reazione.

Allungai una mano tremante e afferrai il suo avambraccio con presa non troppo salda, balbettando in un sussurro: «Rowan O'Brien, Mezzosangue».

«Rowan...» ripeté Domhnall e, facendo correre lo sguardo su di me e appuntandolo fra i miei seni, aggiunse: «Erede del Calderone di Dagda».

Mi portai istintivamente una mano al petto, stringendo fra le dita l'anello che portavo legato al collo e maledicendo il vestito dannatamente scollato che ero stata costretta ad indossare, che lasciava davvero poco all'immaginazione.

Annuii poi con un rapido cenno del capo e distolsi lo sguardo dagli occhi neri del Principe, non sentendomi per nulla a mio agio nell'essere scrutata così attentamente da lui.

Il Principe Domhnall mi lasciò il braccio, e quando le sue dita gelide lasciarono la mia pelle sospirai sollevata.

«Possiamo, di grazia, mangiare?» sbottò a quel punto la Principessa, attorcigliandosi con impazienza una bianca ciocca di capelli attorno all'affusolato dito indice.

«Volentieri» concordò Alastair, rivolgendole un sorriso affettato e facendole cenno di accomodarsi a tavola.

Daireen non si fece pregare, e si andò a sedere sul piccolo trono posto all'estrema destra della tavola rotonda; fu seguita a breve distanza da Morven, che prese posto di fronte a lei, all'estrema sinistra. Domnhall si sedette sul trono che dava le spalle all'ampia vetrata di mezzo, mentre Alastair diede le spalle all'ingresso.

Noi restammo imbambolati qualche secondo, non sapendo bene dove metterci, ma ad un gesto spazientito di Alastair quasi corremmo verso le sedie.

Io evitai come la peste i posti vicini a Domnhall e Morven, e finii proprio alla destra di Alastair, con Labhraidh al mio fianco. Il mio migliore amico mi strinse la mano sotto al tavolo, e la sua presa rassicurante calmò un poco il battito impazzito del mio cuore.

Ero estremamente nervosa. La mia agitazione non era imputabile ad un elemento in particolare: era la situazione, il trovarmi lì in quella sala con quelle fate millenarie che avrebbero potuto decidere della mia vita e della vita del mio popolo, a rendermi inquieta e ansiosa... e io odiavo tremendamente il battito impazzito del mio cuore, odiavo il velo di sudore freddo che mi bagnava i palmi delle mani, odiavo il rossore che mi colorava le guance e, soprattutto, odiavo il fatto che tutte le fate della stanza erano in grado di comprendere distintamente il mio stato d'animo, perché leggere il mio corpo era per loro come leggere un libro aperto.

«Dunque...» prese parola Alastair, non appena le portate iniziarono ad essere servite, «... Spiegateci la questione dell'asilo».

Daghain iniziò a narrare ai quattro Principi le nostre peripezie e, seppur con qualche difficoltà a causa della traduzione non sempre lineare di Conneleugh, la conversazione prese il via.

Mia nonna narrò di come le fate nel mio mondo erano state intrappolate sotto i tumuli millenni prima dai nostri antenati, che volevano impedire loro di razziare e terrorizzare gli umani; narrò dei primi cedimenti nella barriera e della fuga delle prime fate che, assetate di vendetta, avevano iniziato a mietere vittime in tutta Irlanda. Con mia grande sorpresa, Daghain glissò completamente il mio rapimento, raccontando direttamente di come ci fossimo messi a cercare i Quattro Tesori d'Irlanda nella speranza di avere qualche chance contro l'esercito di Finvarra e di come avessimo incontrato Donegal.

Concluse raccontando del crollo della Barriera, anche questa volta non accennando minimamente al mio coinvolgimento, ed io mi resi conto con un certo stupore di come mia nonna fosse in grado di omettere le verità... senza contraddirsi nemmeno una volta.

«E questo ci porta dritto da voi, Principi. Noi vorremmo... chiedervi asilo. Chiedervi protezione, contro Finvarra e contro Lúg» terminò Daghain, unendo le ossute dita di fronte a sé e fissando ciascun Principe con il suo gelido sguardo color giada.

«E diteci... cosa sareste in grado di offrirci, in cambio della nostra protezione?» indagò Morven con indolenza, allungandosi contro lo schienale della sedia e incrociando le braccia dietro la testa.

«Hanno offerto i loro Doni... I Tesori che forgiammo all'alba dei tempi» rispose subito Conneleugh, fissando i piccoli occhi su Rían, il quale, senza distogliere lo sguardo da Morven, estrasse la sua Lancia dal fodero e la fece tornare alle sue fattezze originali.

«La Lancia è vostra» disse l'uomo, e l'asta argentea luccicò sotto la luce delle mille candele che erano state accese per rischiarare la sala, gettando bagliori su tutte le pareti.

Morven ridacchiò con divertimento, scoprendo i canini: «Non mi serve a nulla una Lancia che non posso usare, ragazzo».

Rían aggrottò la fronte e strinse i denti, tanto che vidi il contrarsi dei muscoli sul suo viso: «Sei...» esitò qualche secondo, poi si corresse: «Voi siete il Principe di Gorias, no? Non dovreste essere in grado di usarla, visto che la Lancia è stata forgiata dal vostro antenato?» domandò, accarezzando nervosamente l'arma, facendo correre il pollice su e giù e sfiorando l'impugnatura dorata.

Il Principe scosse la testa e, con un tono accondiscendente in modo irritante, lo contraddisse: «Non funziona così, ragazzo. Certo, mio nonno forgiò la Lancia all'alba dei tempi, ma né io né nessuno del mio popolo la può maneggiare. Quell'arma...» i suoi occhi gialli scivolarono con bramosia sul manufatto, «... è stata forgiata con il sangue di Lúg, per Lúg e la sua discendenza soltanto. Tu sei l'unico, oltre al Generale, a poterla usare».

Parve rifletterci su per qualche istante, poi aggiunse: «Potrebbe maneggiarla tuo figlio, se solo ne avessi uno... ma solo se fosse sufficientemente forte. Ti consiglio di accoppiarti con una donna potente» gli consigliò poi, sogghignando e facendo l'occhiolino a Grania in un modo che non mi piacque per nulla.

Rían ignorò completamente l'allusione di Morven, e inquisì: «Quindi ti servo io. Vuoi la Lancia... e vuoi me».

Il Principe incrociò le braccia al petto e lo fissò con i suoi enormi occhi gialli, rivolgendogli un minuscolo cenno affermativo con il capo.

«Okay, ci sto» accettò Rían, senza nemmeno un fremito di indecisione nella voce, e allungò una mano verso Morven.

«Fermo, fermo» ringhiò a quel punto Grania, agguantandogli il polso e strattonandolo verso di sé,

«Non puoi... venderti» sentenziò.

Si voltò quindi verso il Principe, che sedeva proprio alla sua destra, e inquisì: «Avete detto che vi serve usare la Lancia. A cosa vi serve? Volete far fuori qualche nobile che ostacola le vostre decisioni?».

«Qualcosa del genere» assentì Morven, ma il ghigno divertito che gli distese il viso non mi rassicurò per nulla.

«Non accettare, Rían. È una richiesta troppo generica» sentii ringhiare Grania e, per una volta, mi ritrovai a darle ragione.

«Oh, avanti» il Principe Morven ridacchiò piano e si abbandonò contro lo schienale della sedia, portandosi le braccia dietro la nuca. «Vi sto offrendo la mia ospitalità, sto accogliendo il vostro intero popolo... e in cambio sto chiedendo soltanto l'aiuto del vostro ragazzo d'oro» ammiccò nella direzione di Rían, strizzandogli l'occhiolino con apparente complicità.

«Ci penseremo» si intromise in quel momento Daghain, sferzando una gelida e torva occhiata al Principe. Strinse quindi le dita fra di loro e, rivolgendosi agli altri tre sovrani, indagò «E cosa vorreste voi altri, in cambio?».

«Io voglio la stessa cosa che vuole Morven... Voglio la mia reliquia».

Daireen si sporse verso Donegal e, portandosi una ciocca di capelli liscissimi e bianchi dietro l'orecchia, gli sussurrò: «Voglio te, figlio di Nuada, e ciò che porti sulle spalle».

«Principessa» si limitò ad assentire Donegal, chinando il capo in segno di rispetto.

«E voi, Principe di Murias?» domandò di nuovo Daghain, implacabile come sempre, «Richiedete i servigi di mia nipote?».

Il vichingo giocò distrattamente con il coltello da tavola, facendolo roteare fra le dita, e sollevò gli occhi neri su di me.

«Sì» si limitò a rispondere, ed io impallidii.

Servire quell'uomo... sarebbe stata un'esperienza terrificante.

«Consultatevi pure con il vostro popolo per prendere la vostra decisione definitiva; fino ad allora, sarete i miei ospiti e verrete trattati come tali» disse poi Alastair, sorridendoci con garbo e guadagnandosi un cenno di gratitudine da parte di mia nonna.

Mi massaggiai le tempie con le mani, cercando di riordinare le idee, poi presi parola per la prima volta dall'inizio della cena: «Se noi decidessimo di aiutarvi, e di prestarvi le nostre reliquie... come proteggereste i nostri compagni? Quelli rimasti sulla nave?».

Fu Daireen a rispondere alla mia domanda: «Nel mio territorio ho diverse isole vergini. Possiamo ancorare lì la vostra nave e circondare l'isola di barriere magiche... così sarebbero al sicuro».

«Lo fareste davvero?» domandai incredula, scioccata da quella che sembrava sincera gentilezza da parte della Principessa.

«Sono isole disabitate. Sono inutili, non mi importa se il tuo popolo ne reclama una» borbottò la donna, scrollando le spalle.

Sollevò gli occhi grigi e li fissò in quelli di Daghain, che, com'era facile intuire, era stata riconosciuta da tutti come il capo: «Sareste ovviamente sotto la mia giurisdizione, però. Mie le isole, mie le regole» specificò, e un sorrisetto accennato le incurvò le labbra piene.

«Quando a Roma, fai come i romani» sentii Labhraidh borbottare, e non potei essere più d'accordo.

«I vostri compagni sanno usare la magia, vero? In quel caso, troveremo sicuramente qualcosa per loro... si renderanno utili alla Confederazione, e la Confederazione, in cambio, li proteggerà» continuò Daireen, facendo dondolare lentamente un orecchino sulla punta dell'acuminata orecchia da fata.

«Se foste davvero utili vi potrei ospitare anche io, nelle mie foreste... anche se non credo che ai miei cittadini faccia piacere dividere il territorio con dei mezzosangue stranieri» commentò Morven divertito, fissandoci uno ad uno con i suoi tremendi occhi di lupo.

Il Principe Domhnall sbuffò piano: «I tuoi sudditi sono dei maledetti bastardi; ospitare questi qui nelle tue terre sarebbe come mettere un topolino nella teca di un serpente e sperare che diventino amici».

«Sarebbe un bello spettacolo, però» gongolò Morven mostrando i canini che, bianchi e affilati come rasoi, conferirono alla sua già spaventosa persona una connotazione ancora più brutale.

«Falla finita, Morven» sbottò a quel punto Alastair, sbattendo lo scuro pugno sul tavolo.

«No, non ancora» si oppose il Principe e, per la prima volta in quella assurda serata, i suoi occhi gialli si fissarono su di me: «Tu parli la nostra lingua, ma tutti gli altri no» sentenziò, inclinando leggermente la testa e studiandomi con perversa curiosità.

«Chi te l'ha insegnata?».

Le mie mani, nascoste sotto il tavolo, iniziarono a sudare.

Ricacciai il panico in un angolino della mia mente e raddrizzai le spalle: «Ho conosciuto una fata» risposi in modo vago, riuscendo fortunatamente a mantenere un tono di voce fermo.

«E non ti ha uccisa? Da ciò che mi avete raccontato, pare proprio che le fate di Finvarra vi vogliano tutti morti».

«Aveva i suoi buoni motivi per tenermi in vita» mi limitai a dire, decidendo immediatamente che meno Morven avesse saputo sul mio conto meglio sarebbe stato.

«Sei di poche parole, Erede di Dagda» gli occhi del Principe lampeggiarono d'interesse, «Mi chiedo quali segreti voi Mezzosangue abbiate sepolto sotto le vostre spoglie mortali».

Abbassai lo sguardo sul piatto d'argento, non riuscendo a sopportare l'intensità con cui le sue pupille verticali di predatore erano fissate su di me, e lo sentii ridacchiare come una iena.

«Basta con le discussioni serie, per questa sera» sentenziò poi, «Ora gradirei rilassarmi un po'» seguitò e, alzandosi con silenziosa grazia, di diresse verso una bella cameriera con un seducente ghigno lupesco in viso.

Lo sconsolato sospiro di Alastair riecheggiò lungo la tavolata, e la fata disse: «Rimandiamo tutto il resto a domani. Voi, nel frattempo, riflettete sulla nostra offerta... tre reliquie e un favore».

Vedendo le nostre espressioni confuse, sorrise: «Il favore è per me. Non avete la Pietra di Fail, quindi mi accontento di un favore».

«Un favore?» inquisì mia nonna dopo che le ebbi tradotto la richiesta del Principe, aggrottando le canute sopracciglia nell'espressione sospettosa che tante volte le avevo visto assumere quando fiutava un imbroglio.

Alastair piegò le labbra in un sussurro rilassato: «Sì. Un semplice e piccolo favore».

«Subdolo stronzo» ringhiò Labhraidh fra le labbra, «La fai facile con un favore, eh?».

Gli diedi un pizzicotto da sotto il tavolo per mettermi a tacere, ma non potei che rimuginare cupamente sulla richiesta di Alastair: il Principe aveva scelto di rimanere più sul vago possibile, quasi come volesse... ingannarci.

Come una vera fata.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top