RABBIA
Nella vita, tante cose si possono definire orribili. Lo dico, non perché io sappia qual è la differenza tra orribile e meraviglioso. In fondo, è una differenza così sottile, così indistinta...
È un fatto soggettivo, questione di punti di vista. Potrebbe essere qualunque cosa orribile.
È orribile svegliarsi la notte, urlando, cercando un appiglio, qualcuno che possa aiutarti, possa comprenderti, consolarti.
È orribile sapere che c'è gente che vive la sua vita, mentre tu te ne stai lì, a vederti andare avanti, sopravvivere.
È orribile vedere il tuo corpo che, man mano, si sgretola sotto il peso dei tuoi peccati, insaziabili, ingordi.
È orribile sapere che è il tuo compleanno, e non poterlo festeggiare con i tuoi cari.
È orribile, quando sai che qualcosa andrà storto, e tutto quello di cui tu hai bisogno è un abbraccio, che nessuno può darti.
È orribile cercare un contatto con qualcuno, un bacio, una carezza, uno sguardo, e non trovare nulla.
È orribile scoprire che non hai più la forza di sorridere.
È orribile comprendere che non sei più capace di amare.
Il reparto terapia intensiva non mi aveva azionato l'effetto che immaginavo. La differenza rispetto al reparto precedente è pressoché minima, se non fosse per le pareti che, invece di bianche, sono di un leggero giallognolo invecchiato.
Sono chiusa in questa camera bianca da ormai tre ore e ventisette minuti, circa.
Non ho un orologio, mi baso sulla frequenza dei battiti del mio cuore. Quando ho il respiro stabilizzato, il mio cuore compie due battiti al secondo. In questi anni di terapia, mi hanno insegnato a stabilizzare il respiro, il sonno, la camminata, la parola, i singhiozzi. Non credo di saper fare qualcosa di mio proprio, senza rispondere agli insegnamenti di ore e ore di prigionia di questi ultimi tre anni.
È come se mi avessero programmata. So ancora fare qualcosa che non mi hanno insegnato a compiere?
Ma cosa dici, Winger. Se non te lo avessero insegnato, a quest'ora non sapresti vivere. Devi solo ringraziarli.
La mia coscenza me lo ricorda sempre. Chissà se anche quella è stata programmata da Loro.
È probabile che sia malata. La mia me razionale, quella che compie pensieri anticonformisti. Non è accettabile, in questa unità, fare pensieri così violenti.
Il pensiero della fuga, della ribellione... è sbagliato. Vero?
Non so più cosa è giusto o sbagliato.
Tre ore e ventotto minuti.
Una volta, i miei genitori mi indicavano la retta via, educandomi secondo i loro principi, sicuramente ben fondati.
Mi vengono le lacrime agli occhi, così stringo forte le palpebre, aspettando che scappino e tornino indietro.
In fondo, mi dico, è giusto fidarsi dei propri genitori, perché loro saranno sempre nel giusto, no? Mai, mai controbattere la parola del genitore, a meno che tu non abbia abbastanza esperienza da poter fondare una coscienza pulita, la quale ti permetterà poi di giudicare il giusto e sbagliato.
Le pareti della stanza sono fredde contro la mia pelle. Sono nuda, contro l'angolo di questa camera vuota. Probabilmente sono sette metri quadrati. Non mi vergogno, Loro mi hanno spogliato perché lo ritenevano giusto.
Ho poco da nascondere, per la verità. I miei seni sono impercettibili, sotto questa patina di pelle bianco latte. Il mio intimo è tale e quale a come ero da bambina, la pelle liscia e delicata.
Tre ore e ventinove minuti.
Spesso mi chiedo chi siano Loro. Non li chiamano, mai. Eppure so che mi controllano. Me lo hanno detto spesso, durante le sedute di terapia. Loro ti osservano. Loro ti controllano. Tu non puoi niente contro di Loro. Loro sono il Bene. Tu sei il Male.
Lo so. Sono fatta male. Sono malata. Sono un errore.
Il caldo delle lacrime contro le guance ruvide rovinate dal freddo mi mette i brividi. Soffoco un grido di dolore, ficcandomi le nocche di una mano in bocca, e mordendo coi denti.
Loro mi hanno detto di non piangere. Ma io non ce la faccio. Sono un errore e lo riconosco. Perché proprio io? Me lo merito, sto scontando una pena per tutta la vita, solo che non so cosa ho fatto di sbagliato.
Lo scoccare della mezz'ora viene annunciato dallo sbuffo della porta ermetica. La camera viene immediatamente invasa da una ventata di profumi diversi: lavanda, limone, pulito. Mi alzo in piedi, curiosa, incrociando le braccia al petto.
Due donne e un uomo, in camice bianco e mascherina, entrano e si dirigono verso di me. Mi asciugo velocemente le lacrime. Saranno venuti perché mi hanno vista piangere?
Una delle due donne, più bassa e rotondetta, regge dei vestiti azzurri come i miei occhi. Faccio per ritirarmi nel mio angolino, ma l'uomo mi afferra e mi trascina verso le due donne. I tre insieme cominciano a vestirmi, facendomi indossare un pigiama di flanella, biancheria intima pulita e profumata, e mi legano i capelli in una treccia. Mentre mi pettinano, mi permetto di chiudere gli occhi e assaporare quel momento. Mia mamma mi pettinava i capelli prima di dormire, era così rilassante, così dolce... un rituale che facevamo ogni sera, prima lei a me, poi io a lei. Poi accorreva mio papà, che si buttava sul letto, e mi addormentavo sempre con loro due che mi stringevano in un abbraccio.
Non avrei dovuto ricordare. Mi risalgono le lacrime, che sono costretta ad asciugare col pigiama pulito, macchiando la manica di una chiazza scura.
La donna bassa mi fa indossare delle calze, e mi infila delle ciabatte di gomma, azzurre come il pigiama.
Le scruto con orgoglio: sono le mie prime ciabatte. Chissà perché mi stanno premiando così.
Forse... forse sono guarita?
- Vieni – mi sussurra una donna, la più alta, invitandomi ad oltrepassare la porta blindata, verso il corridoio. La scruto timorosa, poi compio un passo incerto verso la porta. Poi un altro, e un altro ancora, e dato che nessuno cerca di fermarmi accellero il passo, curiosa di vedere se ci sono finestre, se riesco a vedere il cielo, o il sole. Subito vengo afferrata da dietro, dall'uomo, che mi prende per un polso, e mi trascina lui.
Non ci sono finestre, solo porte in legno, e lunghi corridoi.
I tre mi scortano verso una doppia porta in legno d'acero, credo, e la spalancano.
Mi blocco sulla soglia, spaventata. Fuori c'è un parcheggio. Un camioncino bianco è in moto, e aspetta a pochi metri dalla doppia porta, con il portellone spalancato.
- Muoviti – mi intima la donna alta, spingendomi verso il camioncino.
- Ma... ma perché? – Domando, spaventata. È un rapimento? Vogliono portarmi via? Loro sanno di questo?
- C'è stato un cambio di programma. Il trasferimento si fa oggi – risponde l'uomo, cingendomi leggermente il fianco, e spingendomi in avanti.
- Ma io non voglio! Avete avvisato il mio medico?! – Quasi urlo. Non voglio andare via. Non ora.
Ho paura.
- Il tuo medico ci ha chiesto di trasferirti oggi. Forza, sbrigati! – Ordina la donna alta. Ha i capelli sotto una cuffietta, il volto severo e gli occhi castani pieni di indifferenza.
Singhiozzo, scoppiando irrimediabilmente in lacrime. Dal camioncino scende un ragazzo in tenuta militare, che mi solleva in braccio senza troppe cerimonie e mi trasporta fino al camioncino, dove mi fa sedere su un sedile grigio consumato, e mi stringe bene la cintura. Mi scappa un urlo spaventato, e mi volto a guardare il trio che veglia sulla soglia della doppia porta. Non voglio, non voglio!
Il portellone si chiude, e il camioncino si avvia in moto. Urlo di nuovo, e il ragazzo alla guida mi scruta dal finestrino retrovisore. Ha degli occhi verdi spenti, ciglia corte ma spesse. I vetri sono oscurati, e non posso vedere fuori.
Winger calmati! Stabilizza il respiro! Uno, due, uno, due... calma. Pensa a ciò che ti fa stare male, e allontanalo da te. Soffia, spazza via le tue paure, va tutto bene.
- Dove stiamo andando? – Domando, la voce con un leggero tremolìo sclerato.
Che stupida domanda, Winger. Non te lo dirà mai. Le lacrime continuano a scendere, e pian piano finiscono, lasciandomi un amaro in bocca che per me è familiare.
- Ti porto nella nuova unità. – Mi risponde il ragazzo. Ha una voce profonda e grave, tuttavia socievole. Avrà una decina d'anni in più di me, e si rivolge a me quasi con... rispetto?
Le lacrime asciutte sulle guance mi tirano la pelle, tanto che mi sento invecchiata di colpo, piena di rughe che pesano col passare del tempo.
- Ho freddo – balbetto, battendo i denti. Il bocchettone dell'aria è spento, e i finestrini sono tutti aperti per un filo, facendo entrare aria fredda.
Il ragazzo alla guida li chiude tutti, e poi accende l'aria condizionata, impostando la temperatura di 20°C circa. Lentamente la temperatura del mio corpo si adatta a quella dell'ambiente circostante, e il mio battito torna normale. Cala così un silenzio teso tra di noi. È la prima volta che sono sola con una persona, e ne ho paura, per un certo verso. Non so dove mi stia portando.
- Loro lo sanno? Del trasferimento? – sussurro insicura.
- Loro? – Domanda teso il ragazzo, scrutandomi di nuovo.
Annuisco, ingoiando a vuoto. Mi punirà per la domanda inopportuna?
Il ragazzo non risponde, così io mi abbandono contro il sedile, stanca. Le mie forze sembrano essersi ritirate di colpo, ho una leggera percezione dei movimenti, le palpebre sono pesanti. Mi volto verso il finestrino oscurato, e scruto il mio volto.
I capelli ricci più corti che non rientrano nella treccia, formano un aurea leggera intorno al mio viso scarno e sciupato. Ho le guance scavate, gli zigomi tirati, gli occhi gonfi dal pianto. Le labbra sottili, la fronte pronunciata e il naso leggermente all'insù. Occhiaie segnate dalle infinite ore rimasta sveglia.
Mi stupisco di quanto sono cambiata. Una volta il mio viso era paffuto, rotondo, felice. Adesso, l'espressione dei miei occhi è vacua, e vacilla tra la disperazione e la pazzia.
Distolgo lo sguardo addolorata e schifata al tempo stesso. Se sono così ora, è tutta colpa mia.
Mi salgono le lacrime agli occhi. Sono così diversa dal mondo... tutte le persone che mi circondano non sono così brutte.
Inizio a piangere, in silenzio, trattenendo i singhiozzi. Ricordo distintamente mia madre. Lei era stupenda, combattente, aggraziata, leggiadra. Il suo viso era bello, compiuto. Il suo ricordo è perfetto, immutabile. Una bellezza completa e indifferente al tempo. Non credo ci sia una sola cosa che avrebbe potuto cambiare di sé. Era proprio perfetta.
Non come me. Io non sono immutabile. Non sono perfetta, non sono bella né tantomeno combattente.
Mi scappa un singhiozzo. Il cuore mi si stringe in una morsa così dolorosa che mi manca il respiro. È un dolore quasi fisico.
Il camioncino è ancora in movimento. Quanto mancherà?
Penso che Loro sappiano. Non so bene perché, è una convinzione intuitiva. Hanno sempre saputo tutto di me, non possono sbagliarsi.
Una consapevolezza lampante, veloce come un flumine, mi si instaura nella mente.
Mi vogliono uccidere. Sono troppo sbagliata.
Mi si blocca il respiro, un groppo in gola.
Non ho tempo per pensare a ciò che sono, e sviluppare pensieri ancora più autopenalizzanti, perché il camioncino si ferma, e il motore si spegne. Trattengo il respiro.
Il ragazzo in tenuta militare scende e fa il giro della macchina, venendo ad aprirmi la portiera. Mi sento così debole che a malapena riesco a muovere le braccia e tenere la testa in equilibrio. I muscoli del collo bruciano e tirano, le palpebre pregano di chiudersi.
Il ragazzo mi slaccia la cintura e mi solleva in braccio, la mia testa cade a peso morto, così come il mio corpo, e mi abbandono completamente tra le braccia di quello sconosciuto. Mi sento sicura, tuttavia. Mi sento cullata, mi sento amata.
E so che quel tocco è tutto fuorché amorevole, eppure non posso far altro che fidarmi di quel ragazzo che si dirige verso una porta blindata a doppie ante.
Vedo sfocato, attraverso il velo di lacrime. Si avvicina la mia ora. Sento che non posso fare nulla, tutto quello che mi faranno me lo merito.
Il ragazzo entra nell' edificio, e il caldo dell'ambiente interno ci avvolge entrambi. C'è un odore intenso di cannella. Profumi diversi, varie sfumature di dolce, amaro e sconosciuto.
È l'odore delle persone. La gente ci vive qua dentro. Un flusso di adrenalina mi attraversa il corpo. Non sono più sola, qui c'è qualcuno.
Sento in lontananza il rumore di tante voci. È un balsamo per le mie orecchie.
Sento tutt'a un tratto un energia a me estranea, che mi fluisce nelle vene. Un pizzicore al braccio, in principio leggero, poi sempre più forte mi fa spalancare gli occhi e mi scappa un urlo di dolore. Il flusso di energia è come fiamma che brucia nelle mie vene, consumandomi. Spalanco gli occhi e non vedo nulla, sento solo ogni parte del mio corpo andare a fuoco.
Sono ancora fra le braccia di quel ragazzo? Non ho più la concezione del mio corpo, mi sento fluttuare tra milioni di fiamme ardenti.
D'un tratto la vista ritorna, e vedo un volto estraneo sopra di me. Abbasso lo sguardo al braccio da cui l'inferno si emana, e vedo una siringa.
Mi si accellera il respiro. Odio gli aghi, e questo bruciore si fa sempre più forte.
Urlo con tutte le forze che mi ritrovo, fino a che non mi sento svenire.
Le lacrime mi inondano il viso, bagnandomi le guance.
Ecco, sto morendo.
Il mio corpo è in preda alle convulsioni, la mia testa sbatte ripetutamente contro qualcosa di freddo e duro. Una superficie fredda e dura è tutto ciò che sento sotto di me, probabilmente.
Poi, d'un tratto, il fuoco si spegne, e un'ondata di freddo improvviso mi fa battere i denti, provocandomi un'istantanea reazione di brividi.
Mi rannicchio in posizione fetale, cercando di scaldarmi. Non riesco più ad aprire gli occhi, non ne ho le forze.
Ho talmente freddo che mi sembra di bruciare di nuovo, anche se questa volta il mio corpo non reagisce. Rimango immobile, impotente.
Lascio che questo dolore mi faccia sua. Lascio che mi divori, che mi prenda nella sua morsa. Non voglio più soffrire, l'ho già fatto per troppo tempo.
Smetto di combattere. Smetto di oppormi.
Sono libera.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top