PIAGA

Spesso la gente si pone domande assurde. È inevitabile per un uomo soffermarsi su un quesito che è assiduamente ripercosso nella sua mente, anche inconsciamente.

Su cosa gira il mondo? Perché l'essere umano si evolve, e continua a farlo?

Sinceramente, penso sia un dato di fatto.

L'uomo punta alla perfezione. Pochi, definiti intelligenti o stolti, riescono a riconoscere l'inadeguatezza della perfezione, la difficoltà nel raggiungerla o semplicemente l'incapacità di definirla tale.

Non si ha alcun motivo per cui qualcuno vorrebbe rinunciare alla possibilità di essere perfetto, a meno che quest'ultimo sia troppo vigliacco da raggiungerla o troppo orgoglioso da volerla ottenere.

Ma chi detta i canoni di perfezione? L'arte, la storia? Coloro che ci sovrastano, in posizione sociale?

Quando si raggiunge la perfezione, e come si può essere certi di averla raggiunta davvero? Di aver completato l'ultimo stadio e potersi permettere il lusso di considerarsi completi, finiti, perfetti?

Nel nostro piccolo, tutti abbiamo un ideale di perfezione. Quando nessuno te la impone, il tuo subconscio ne illustra una sua personale interpretazione, che ti induce a raggiungerla.

Probabilmente il massimo grado di perfezione di qualcuno può essere il degrado assoluto di un altro.

Per quel che ne sappiamo, finchè qualcuno non ci avrà donato delle risposte, resteremo tutti imperfetti, mai finiti, incompleti.

In fondo non esiste un concetto di perfezione, non finché non si ha la chiara idea di ciò che significa.

Sì, punto alla perfezione. Come molti altri uomini prima di me, sono caduta nella trappola della lussuria. La consapevolezza di aver compiuto errori e continuare a compierne è un peso opprimente che sono certa non riuscirò mai a sopportare, e prima raggiungerò la perfezione, prima mi sarà concessa la grazia.

Potrò perdonarmi i miei peccati, abbandonarli alle spalle con la certezza che non si ripeteranno.

Un desiderio arduo, una necessità imponente, un obiettivo quasi impossibile.

La Stanza dei Giochi è curiosamente silenziosa, oggi. I ragazzi - gli altri Terminal - di fianco a me, silenti siedono alle loro postazioni, guardando il vuoto. Qualcuno si diletta con un libro, qualcun altro prova e riprova la sua opera. A nessuno è concesso di cominciare un nuovo progetto, solo di completarlo.

Fin dove il mio sguardo riesce a focalizzare, tutti i ragazzi hanno finito il loro progetto. Sono solo io, ancora al lavoro. Questo ovviamente non mi destabilizza o demoralizza, so che il mio progetto sarà dei migliori: me lo ha detto il Dottor Erland.

Copernico è quasi compiuto. I pannelli esterni sono stati verniciati di colorante impermeabile, le zampe adattate alla miglior aderenza ad ogni tipo di superficie; la coda, il collo e l'antenna del suono, dopo aver riposato in una cella iperbarica per più di settantadue ore, sono stati riposti con dovere sul corpo.

Sono china sul cranio, aperto. Gli alloggi per i bulbi oculari di pietra vulcanica sono vuoti, e con calma li riempo di un materiale gelatinoso ed appiccicoso, per prepararli ad accogliere gli occhi. Il cervello - un hard disc di medie dimensioni abilitato all'accesso a diversi software online - sembra come in attesa di esser collegato agli ultimi cavi USB nei loro rispettivi alloggi sul pannello di controllo. Uno in particolare, spicca rispetto agli altri: l'alloggio per il chip della personalità.

Sono impaziente di inserirlo, ma sarà davvero l'ultima cosa che farò. Avvito le piccole lampadine a led per i sensori oculari, e inserisco i bulbi nelle fessure. All'interno, i piccoli schermi da fotocamera luccicano alla luce dei neon sul soffitto, e per un attimo mi perdo a guardare in quel nero pece, come se quei due occhi potessero davvero vedermi. La cosa ovviamente non è ancora possibile: Copernico deve essere acceso.

Collego le lampadine ai cavi che corrono ai piccoli pannelli fotovoltaici nascosti sotto la lastra di copertura, poi infilo i cavetti di rame all'interno della pietra vulcanica, e li lego a due viti che trasmettono l'energia necessaria, collegati all'hard disc principale. Controllo che la valvola del suono sia a posto, l'apertura e la chiusura della mascella metallica, poi finalmente afferro il chip dalla Tavolozza. È piccolo e chiaro, con un paio di numeri d'identificazione e i soliti foglietti di rame per l'aderenza all'alloggio, spesso quanto un'unghia e lungo quanto due. Con un fremito provo ad inserirlo nell'apposito sostegno, ma la mano trema a tal punto che con un leggero movimento delle dita lo faccio disporre nel posto giusto, senza toccarlo.

Questi implacabili poteri mi stupiscono ogni volta, e quando capita che ne approfitti, una insolita scossa si propaga dal ventre e percorre la spina dorsale, facendomi rabbrividire. La testa inizia a girare e le tempie mi pulsano, e una leggera nausea mi blocca il respiro. Non è certo una sensazione piacevole, ma il risultato è così appagante che ne vale la pena.

Una volta inserito il chip, richiudo il pannello, e afferro con entrambe le mani la testa, sollevandola per inserirla sul corpo, che è sorretto da una struttura creata appositamente per questo. È pesante, ma è un peso che fa bene alla mia anima. Faccio aderire i perni del collo, incastrandola, e saldo il tutto con della gomma in polvere.

Poi, con un respiro profondo, allungo la mano verso il tasto d'accensione, e lo premo. Sento lo sguardo di tutti gli altri Terminal su di me, la testa gira e la pelle che aderisce al bracciale meccanico sulla caviglia pulsa in modo doloroso. La ventola di Copernico comincia a girare con un suono ovattato, e i display oculari si allargano e restringono, mettendo a fuoco ciò che gli sta intorno.

Copernico è sveglio.

I suoi movimenti sono fluidi e delicati, accompagnati da un piacevole soffio metallico. Sfilo lentamente gli arti dal sostegno, finché Copernico non si regge in piedi da solo. I suoi sensori visivi mi squadrano, ricollegando il mio viso all'immagine che ho inserito nella partizione fotografica, nella parte relativa alla memoria insita, che occupa circa 2GB della memoria totale: tutto il resto è occupato dalla memoria sensoriale, e da diversi GB liberi per qualunque cosa possa essere necessaria, come nuove informazioni, nuovi aggiornamenti e download di nuovi software. Quando finalmente riconosce il mio volto, la coda si muove in una verosimile imitazione di un comportamento canino, emozione di felicità.

Gli arrivo all'altezza del petto, Copernico è alto e maestoso. Mi pizzicano gli occhi e soffoco un singhiozzo, quando Copernico piega il muso per strusciarlo contro la mia guancia, metallo freddo contro pelle accaldata. Mi si stringe lo stomaco e mi sale un'ondata di nausea, e respiro frettolosamente mentre mi allontano per studiarlo meglio: è perfetto, proprio come il progetto originale.

- Copernico - sussurro sottovoce. I sensori acustici - delle piccole parabole in una protezione plastica a forma di orecchie - si muovono per assimilare la voce, e ricollegarla alla memoria insita. Riconosce, elabora, comprende.

- Seduto - mormoro, e Copernico siede velocemente, con un leggero suono metallico quando le gambe aderiscono a terra. La sua forma canina ricorda un pitbull, del colore del ghiaccio fondente, grande quanto un destriero da corsa. Dinamico ed elegante, è privo di parola. Forse perché non lo ritenevo necessario, forse per via della pressione inconscia degli altri Terminal di completare velocemente il mio progetto; comunque possiede le capacità di un umano con un Q.I. di 130, e il chip della personalità ha superato il test di Turing con ottimi risultati.

Dei passi pesanti rimbombano alle mie spalle, e sono costretta a rivolgere l'attenzione lontana dalla mia creatura, allarmata per la sua incolumità.

È il generale Thamlan. - Winger. Lo hai finito?

Lo guardo sorpresa e felice. Sorrido e mi volto verso Copernico, come per invitare il generale a guardarlo. - Sì.

Il generale Thamlan annuisce e mi posa una mano sulla spalla. È calda e confortevole, e mi viene da piangere. Mi sento protetta.

- Molto brava, Winger. - Sorride e il suo sorriso sembra sincero. Una lacrima scende silenziosa dalla mia guancia destra, un magone all'altezza del petto mi appesantisce dolorosamente, tuttavia sorrido.

La campana dell'ora di pranzo mi riscuote con un sussulto. Sudando freddo, guardo il generale Thamlan e poi allungo lo sguardo su tutti gli altri Terminal. Annoiati, si allontanano dalle loro postazioni quasi con un sospiro di sollievo, ma per me non è lo stesso. Sento che potrei scoppiare in un pianto doloroso, se mi allontanassi di un altro passo da Copernico. Il generale sembra capirlo, e avvicina il volto al mio per guardarmi negli occhi. Solo a questa vicinanza noto che i suoi occhi verdi hanno delle striature d'ambra e marroni.

- Lo rivedrai dopo, stai tranquilla. Qui è al sicuro. Okay?

Dopo un attimo in cui cerco di comprendere le sue parole, oltre il cupo scalpiccio di passi degli altri ragazzi, annuisco incerta. Lancio un'occhiata ai profondi occhi neri di Copernico, e mi allontano.

In mensa c'è del chiacchiericcio. Dev'essere perché tutti si chiedono la stessa domanda.

- E adesso che tutti abbiamo finito i nostri progetti che si fa? - Da voce ai pensieri di tutti Harry, sedendosi al tavolo di fronte a me, reggendo un vassoio con delle albicocche, un frullato alla vaniglia e un panino di segale con una fetta di tacchino e senape. La sua gobba è accentuata dai capelli totalmente rasati a zero, le cicatrici dovute dall'incidente nell'Aula Magna sono cicatrizzate e macchiate di un farmaco rosso, su tutta la testa. Ne è pieno.

Sospiro, pensando a una possibile risposta, portandomi le ginocchia al petto; questa sedia è troppo grande per me. Harry apre il panino e annusa la senape, sorridendomi. - È vera.

- Ci credo. - Shannona si siede al tavolo di fianco a me, e mi scruta con cipiglio. - Sei stata brava. Lo sai vero?

Sono ancora arrabbiata con lei, ma il suo commento mi fa salire le lacrime. Mi dicono tutti che sono brava, ma è davvero così? Sarà davvero utile Copernico?

A cosa ci è servito finire i progetti, e perché non possiamo cominciarne di nuovi?

Annuisco, incapace di dire qualunque altra parola. La lingua è come spugna, e mi brucia la gola; sono a un passo dalle lacrime. Allungo lo sguardo sul vassoio, l'odore della vaniglia mi raggiunge le narici, invitandomi. È da anni che non bevo un frullato alla vaniglia, così afferro lentamente il bicchiere, gelato e ricoperto di goccioline d'acqua. Pesa e per un attimo ho paura di farlo cadere, così lo incastro tra le ginocchia, contro il petto, dunque afferro la cannuccia con la bocca e tiro un sorso. Il gusto è inebriante, fresco sul palato. Allontano la cannuccia dalla bocca, leccandomi le labbra affamata. È buonissimo.

Una delle due sedie rimaste vuote viene allontanata, e poco dopo vi ci siede un bambino, avvolto in una tuta blu troppo grande per lui. I capelli sono corti corti, neri come gli occhi segnati da profonde occhiaie. I due denti davanti sono leggermente sporgenti, e il naso è piuttosto lungo. Tiene in braccio - quasi aggrappandosi - un pupazzo da circo, con l'aspetto di un vecchio uomo con i capelli grigi, il naso adunco sul quale poggiano un paio di occhiali, vestito con una camicia a scacchi nera e blu, un papillon bordeaux e pantaloni neri.

Il pupazzo apre ripetutamente la bocca, e una voce raggiunge sia me sia Shannona e Harry. - Lui è Pace e io sono suo nonno Abraham. Possiamo sedere qui, non è vero?

Su tutti noi piomba un silenzio teso, Harry si guarda le mani imbarazzato, io riporto la cannuccia alle labbra e bevo, intenzionata a non farne conto. Solo Shannona sembra dargli corda, incrocia le braccia al petto e si appoggia allo schienale della sedia. - 'Fanculo, siete già seduti.

Il pupazzo annuisce, e guardo incuriosita Shannona, chiedendomi perché si sia rivolta al bambino considerandolo come due individui. È palese che sia un ventriloquo.

Eppure Shannona non fa una piega, e Harry afferra il suo panino, incerto su dove mordere.

Pace il ventriloquo sussurra concitatamente all'orecchio del pupazzo, e questo - Abraham - annuisce e indica l'albicocca. Pace afferra il frutto con entrambe le mani, abbandonando il pupazzo contro il petto, e spezza a metà il frutto, togliendone il nocciolo, dunque porge una metà al pupazzo. Quest'ultimo scuote la testa. - No, mangia tu.

Strabuzzo gli occhi e rabbrividisco, e improvvisamente comincio a battere i denti infreddolita, sicché sono costretta ad abbandonare il frappè sul tavolo, dunque mi stringo forte le ginocchia al petto, ad occhi chiusi e respirando lentamente.

Il pupazzo ha parlato da solo. O no?

Azzardo un'altra occhiata al nuovo ragazzo seduto tra Shannona ed Harry, poi ai miei due amici. Non sembrano preoccupati, non sembrano minimamente scossi. Che me lo sia immaginato?

Decido di aggrapparmi a questa giustificazione.

Apro il panino, prendendo solo la fetta superiore del pane di segale, ne stacco i semi e lo sminuzzo con le dita, affamata. È piuttosto asciutto, ma il gusto forte della senape ne dona un sapore intenso e corretto.

Il resto del pranzo procede in silenzio, l'unico tavolo quieto in una mensa affollata e piena di chiacchiere.

Quando gli inservienti vengono a sparecchiare, sono più che felice di alzarmi e tornare da Copernico, così seguo Shannona verso la fila indiana che si sta formando, quando mi sento toccare una spalla.

Il generale Thamlan, il Dottor Erland e una donna mi guardano sorridenti. Li osservo preoccupata, e con la coda dell'occhio vedo Pace con il suo pupazzo e Harry allontanarsi.

Shannona invece si pone di fianco a me, e mi prende la mano.

- Winger, ciao. - La donna si avvicina sorridendomi, ed io mi ritraggo spaventata.

Cosa ho sbagliato? Mi porteranno già via? Comincio a piangere in silenzio, scuotendo la testa. - No... - Mormoro, e quasi inconsciamente mi pongo dietro Shannona, la quale fa un passo avanti.

- Cosa cazzo volete?

- Shannona, sai bene che non è idoneo un linguaggio del genere in un posto come questo. - Il generale Thamlan si avvicina a lei, autoritario. Risalta sia su di me che su di lei, pur essendo più alta di lei.

La fronte scura di Shannona s'imperla di gocce di sudore, i capelli bianchi si sciolgono dalla coda di cavallo che aveva, coprendole gran parte del collo e delle orecchie. - Voglio solo sapere cosa volete fare alla mia amica - mormora, abbassando il tono della voce. Le sono grata per le difese che erige nei miei confronti, dentro di me sento il cuore stringersi in una morsa di commozione. Emetto un sospiro mozzato, rabbrividendo. Le lacrime scendono e s'incastrano all'angolo della bocca, e quando le raccolgo con la punta della lingua il loro gusto dolceamaro si mescola con il sapore della senape.

- Mia cara Winger, io sono la Dottoressa Carter. Sono stata incaricata di supervisionare il tuo progetto per prepararti all'esposizione in Aula Magna. - La donna, coi capelli lisci castani lunghi raccolti in uno chignon elegante, sorride e mi invita con una mano ad avvicinarmi. - Non devi avere paura. Sono tua amica.

- È vero, Winger. - Il Dottor Erland mi si avvicina, è più basso della Dottoressa Carter, ma è massiccio come il generale Thamlan, stesse spalle larghe e corpo tonico nascosto dal camice bianco. La Dottoressa Carter invece non indossa un camice, ha un semplice completo nero che le fascia la silhouette snella. Il sorriso sul suo viso olivastro è caloroso ed accogliente. Sono tentata di fare un passo avanti, ma qualcosa mi spinge a diffidare. Come ad intuire i miei dubbi, Shannona stringe più forte la mia mano e indica la Dottoressa con il mento.

- Winger non è costretta a niente. Se vuole viene, se no col cazzo che la lascio andare.

Il sorriso della Carter si pietrifica, e la sua faccia muta velocemente in una maschera intimidatoria. - Non tolleriamo questo tipo di insubordinazione. Shannona Drow, potrebbe essere punita, lo sa?

Il suo volto mi terrorizza, e forse è questo che mi porta ad avvicinarmi e lasciare la mano di Shannona. La mia amica mi guarda timorosa, poi annuisce.

- Ci vediamo in Aula Magna.

- Può contarci. - La Carter segue Shannona uscire dalla mensa con sguardo di falco, poi si volta di nuovo verso di me, sorridente. - Molto bene. Se volete seguirmi.

Si volta e s'incammina verso una porta che ho sempre pensato esser finta. Thamlan mi sospinge con una mano sulle spalle, il Dottor Erland mi sta al fianco.

- Stai bene Winger? - Mi chiede, e la domanda mi fa emettere un singhiozzo.

Lancio un'occhiata alla Carter, poi affronto in pieno viso il Dottore. - Lei è sicuro che non ho fatto nulla di male, Dottore?

Erland sorride e annuisce, causando una ragnatela di rughe dagli angoli della sua bocca. - Certo. Succede sempre così, ogni volta che un Terminal conclude il suo progetto. È la regola.

Varchiamo la porta e ci ritroviamo in un corridoio buio. La Carter fa strada con una torcia elettrica, e scopro che ne ha una anche il Dottore. La mano del generale non si stacca un attimo dalla mia schiena, e mi chiedo se sia per sorreggermi o per evitare di farmi scappare.

Camminiamo per quelli che sembrano chilometri, poi finalmente ci ritroviamo di fronte a un'altra porta, e varcata questa entriamo in una specie di quinta da teatro, e riconosco dal chiacchiericcio che siamo nel retro dell'Aula Magna, nelle quinte del palco. Proprio lì, dormiente, c'è Copernico. Le parabole acustiche girano e ronzano, riesce a captare il rumore ma non conviene necessario prestarci attenzione. Al suono della porta che si chiude, alza lo sguardo e i suoi sensori visivi mi squadrano. Elabora, comprende e si alza, e con un singulto di sollievo sorrido.

La mano del generale si stacca dalla mia schiena, interpreto il gesto come una concessione nuta e corro da Copernico, abbracciandolo. Cosa ci fa qui?

- Questa è davvero un'opera meravigliosa. - La Dottoressa Carter si avvicina a noi, sorridente.

Vipera prima di attaccare.

Trattengo il fiato, impaurita che possa fare qualcosa a Copernico, ma gli occhi della Carter sono solo rivolti a me.

- L'ho studiato tutto il pomeriggio, sai? Il progetto cartaceo è leggermente più dettagliato, ma l'hard disc è davvero un lavoro eccellente, Winger. Sei stata molto brava.

Annuisco. Me l'hanno ripetuto tutti, e non sento di dover pretendere i suoi complimenti. Ho paura di lei, ma una parte di me è orgogliosa di essere riuscita a far breccia.

- Tutti gli altri ragazzi sono là fuori, in attesa. Devi far vedere a loro, e anche ai tuoi amici, quello che Copernico sa fare.

Rabbrividisco. - Okay. - Mormoro. Sento tremare le gambe, e mi sorreggo al collo metallico di Copernico per restare in piedi.

- Comincia dicendo come si chiama, come lo hai fatto. Cosa sa fare, tutti i dettagli tecnici. - Percepisco il suo odore mentre mi parla, nauseante e pungente, non riesco a distinguere un aroma in particolare.

Me lo aspettavo, e ora che me lo dicono non ne sono sorpresa, anzi. Solo che improvvisamente la paura mi attanaglia lo stomaco.

Perché ho fatto Copernico? A cosa serve? Cosa sa fare?

Cerco la saliva, ma la lingua raschia dolorosamente contro il palato asciutto, così inspiro profondamente. La Dottoressa sorride, poi si avvicina ai due uomini alle sue spalle e dice loro qualcosa, infine varca di nuovo la soglia della porta del corridoio buio, e se ne va. Il generale Thamlan mi fa l'occhiolino e scende dal palco, posizionandosi vicino alla porta d'uscita. Il Dottor Erland mi sorride e mima con le labbra "andrà tutto bene", dunque se ne va anche lui.

Esco dalle quinte, raggiungendo il centro del palco. Una lacrima scende silenziosa, ma con Copernico al fianco non voglio farmi vedere debole. Lui è così bello e maestoso, devo esserlo anche io.

Nell'Aula Magna cala il silenzio, e le luci vengono abbassate, puntandone solo alcune su di me. Sento i passi pesanti di Copernico dietro di me, mi schiarisco la voce e inspiro. Al bordo del palco ci sono le panoramiche che permetteranno a tutti di sentire la mia voce. Allungo lo sguardo oltre i microfoni, e individuo tra i seduti Shannona e Harry, vicini. Vedo Abe in un angolo con Pearson; Damienne la bambina dai capelli biondo scuro a caschetto che ripete più volte la stessa frase. Pace e Abraham siedono vicini alla porta, in fondo. Riconosco solo la sagoma del pupazzo.

Ky. L'albino mi squadra, in terza fila. La mano destra è poggiata contro la guancia, le lunghe unghie rosse come artigli.

Con un doloroso respiro, comincio.

- Il mio progetto si chiama Copernico. È un robot con la capacità di fare qualunque cosa. Vede al buio, sa orientarsi in qualunque posto si trovi, sa correre, saltare. Funziona a energia solare, ma ha una batteria di emergenza. Il suo hard disc prevede 2GB di memoria insita e altra memoria vuota per aggiornamenti e qualunque cosa possa servire, per uno spazio totale di 2000GB. Il suo chip della personalità ha un Q.I. umano del 130, e ha superato il test di Turing.

Le parole escono da sole, e più parlo più mi sento a mio agio. Voglio dimostrare a tutti che sono stata capace di creare dal nulla un vero e proprio... amico.

Sì, è proprio così. Ho creato un amico. Mi sono creata un compagno di vita.

Neanche mi accorgo di cominciare a camminare avanti e indietro. La descrizione di Copernico è appagante, è come se fossi una persona normale e stessi parlando delle mie vacanze estive a dei miei amici. Il paragone mi fa girare la testa.

Non sarò mai una persona normale. Ho ucciso i miei genitori.

Un improvviso calo di pressione mi fa perdere l'equilibrio, e mi sento cadere. È bello, tutto sommato, mi sembra di volare avvolta dalle fiamme. Sento a malapena le ovazioni di preoccupazione dei ragazzi seduti di fronte a me.

Ma poi un potente strattone quasi mi strozza, mi sento tirare dalla tuta rossa, e mi ritrovo distesa sul palco.

Copernico mi guarda dall'alto dei suoi due metri, i suoi sensori oculari focalizzano, dilatandosi verso il mio volto.

Improvvisamente comprendo cos'è appena accaduto, e gattono all'indietro, allontanandomi dal mio unico vero amico.

Mi sento tremare tutta ed è come se mi mancasse il terreno sotto di me. Sono tutta sudata mentre osservo Copernico, sperando quasi che non si avvicini.

Copernico non è mai stato programmato a delle situazioni di emergenza. Copernico non è programmato a proteggere, a salvare. Copernico obbedisce agli ordini.

- Come...? - Lascio che la domanda vaghi nel vuoto che ci divide. Capisce quello che dico? Sì, l'ho programmato per questo. Ma...

Un singhiozzo mi riscuote per tutto il corpo, delusa e spaventata da ciò che stava per accadere, scioccata dalla reazione di mio fratello.

Mi rannicchio in posizione fetale e piango forte, singhiozzi dolorosi che mi schioccano nella gola, facendomi sussultare. Percepisco in lontananza rumore di passi, urla e scalpitii. Qualcuno mi prende in braccio e mi sento trascinare via, ma non azzardo ad aprire gli occhi. Non voglio guardare, perché una parte di me suppone che sia Copernico a portarmi via.

- Va tutto bene - la voce del generale Thamlan mi causa un singhiozzo più forte, e piango proprio a voce alta, senza più contenere i lamenti. Mi stringo a lui, voglio solo scomparire.

Ho paura.

* * *

Tutti i Terminal sono stati portati nelle loro camere, malgrado fosse orario di creazione nella Stanza dei Giochi. Quando il generale Thamlan mi posa sul letto, adagiandomi lentamente e con attenzione, sento alcune lamentele.

Siamo tutti in fremente attesa. Si percepisce nell'aria che ci sarà presto qualcosa, ma non so cosa.

Nessuno sa cosa.

Thamlan mi guarda, e si siede sul bordo del letto di fianco a me. Lo osservo oltre il velo spesso di lacrime che mi rimangono incollate alle palpebre. Le mie guance bagnate si stanno asciugando in fretta, dandomi l'impressione di avere il volto ricoperto di creta pesante.

Sospira. - Se hai bisogno sai che ci sono le guardie. Non devi piangere, so che sei forte.

Mi scendono altre due lacrime, che con un tonfo sordo che percepisco solo io piombano sul cuscino, macchiandolo.

Tiro su col naso, asciugandomi il muco con la mano. - Non conosco le altre guardie - gracchio con la voce rotta dal pianto.

Il generale Thamlan mi sorride. - Non conosci nemmeno me.

Scuoto la testa. - No, tu sei il generale Thamlan.

Una risata priva di divertimento sfocia dalle sue labbra screpolate. Se le lecca, prima di riprendere a parlare. - Qualunque cosa succederà, tu ce la farai Winger.

Lo guardo incuriosita. Si riferisce a quello che accadrà domani?

- Cosa succederà?

Io e il generale Thamlan ci voltiamo verso Shannona. È seduta sul suo letto, gambe incrociate e braccia lungo i fianchi. Il suo volto è corrucciato. - Cosa cazzo succederà, merda?!

Il generale Thamlan si alza in piedi, di nuovo una maschera di riservatezza.

- Dormite, vi servirà.

Si volta verso la porta, ma Shannona si fionda in piedi, bloccandogli il passaggio. - No. No, porca puttana, cosa cazzo deve succedere?

Ha le lacrime agli occhi, e mi fa rabbrividire. Sembra così debole, pur avendo la maschera di scurrilità che giorno e notte la accompagna.

Il generale Thamlan risalta rispetto a lei. La guarda e uno strano scintillio gli attraversa gli occhi.

- Xavier. - Shannona gli si avvicina, gli arriva al petto ma riesce in qualche modo a farlo indietreggiare dalla paura. Sussurra. - Cosa deve succedere?

Il generale Thamlan la guarda, e una lacrima gli cola dall'occhio sinistro. Strabuzzo gli occhi, sconvolta.

Senza voltarsi, Shannona si chiude la porta alle spalle. - Ho sentito delle cose, Xavier. - Comincia a piangere, e le sue parole sono scosse da diversi singhiozzi tant'è che le è difficile pronunciarle chiaramente. - Ti prego. Dimmi che non è vero.

- Quando?

Shannona ride amaramente, alzando gli occhi al cielo. - Tutte le volte che mi fate l'elettroshock. Entro in uno stato di coma momentaneo, e riesco a sentire le cose al di là dei muri.

Scuote la testa, come se neppure lei riesca a credere alle sue stesse parole. - Cupola Test...?

Il generale Thamlan le accarezza una guancia. È un momento così intimo che mi si stringe il cuore. Piango in silenzio, guardandoli. Sembra che la vita di Shannona dipenda dalla mano di Thamlan. Sembra che Xavier non voglia lasciarla andare, ma debba farlo.

Un ronzio metallico raggiunge tutti e tre, e Shannona piomba a terra, presa dagli scossoni. Il bracciale meccanico alla caviglia la punisce per aver osato troppo. Thamlan si piega verso di lei e le stringe la mano, e anche attraverso gli scossoni lei continua a guardarlo, e lui continua a guardare lei ininterrottamente.

Singhiozzo di dolore, e mi copro gli occhi con le mani, incapace di guardarla soffrire. Sembra che stia per morire da un momento all'altro. La scossa dura così tanto che ho paura davvero, che sia la sua fine.

Ripongo nuovamente lo sguardo sui due, e vedo che Shannona rimane immobile a terra, lo sguardo incatenato a quello di Xavier.

- Voglio che lo faccia tu. - Mormora. Lui annuisce e un'altra lacrima gli scende, andando a bagnare il volto di lei. Si piega e la bacia, silenziosamente. Poi si alza e la scavalca, apre la porta e se ne va.

- Shannona! - Urlo, mi catapulto a terra e gattono fino a lei priva di forze. - Stai bene?

Singhiozzo e la abbraccio. Provo un dolore così forte che potrei strapparmi il cuore dal petto. Lei mi abbraccia e mi stringe forte, scossa ancora da qualche contrazione. La aiuto ad alzarsi e la porto sul mio letto, la copro e mi stendo di fianco a lei, abbracciandola.

Restiamo così finché non ci calmiamo entrambe, i nostri respiri sono agitati e rotti dai singhiozzi. Ma poi Shannona mi guarda e ride, accarezzandomi il viso.

- Sei così cara... - Mormora.

Piango più forte, perché non comprendo il suo cambio d'umore. Ho paura che sia impazzita. Ho un brutto presentimento, e un urlo muto mi esce dalle labbra mentre poso una mano sulla sua.

- Sht, sht. Non piangere, mia dolce Winger. - Shannona mi asciuga le lacrime, come una madre. Mi lascio cullare, malgrado sia lei quella da consolare. - Abbiamo tutta una notte da vivere. Non sappiamo se domani ci saremo ancora.

Singhiozzo. Si riprenderà mai da questa malattia? O rimarrà così per sempre?
Continua ad accarezzarmi, e il suo sguardo si sposta sul soffitto.

- Ho amato Xavier da sempre, sai? Da quando sono arrivata qua. È gentile, è bello. Quando mai mi capitava di incontrare ancora qualcuno come lui?

Ho provato e riprovato, ma gran parte di me mi diceva che mai avrei potuto meritarmi uno come lui. Un bravo ragazzo così.

Quando ho esposto il mio lavoro in Aula Magna, volevo che fosse orgoglioso di me.

Non lo è stato, ovviamente. Non è mai stato né orgoglioso, né innamorato. - Torna a guardarmi, e questo mi fa accorgere che ho smesso di piangere, e che sono completamente rapita dalle sue parole. Sorride in modo innocuo, come se stesse ammettendo un errore e si scusasse, ma non ne fosse veramente pentita.

- Qual è il tuo progetto? - Mormoro, la voce venuta a mancare.

- Una cazzata, secondo me - risponde con un sorriso. - Ma qui quando finisci una cosa non puoi fare altro, quindi non ho fatto più nulla.

La guardo, mentre un dubbio s'insinua dentro di me. - Hai finito il tuo progetto? - Risponde con un cenno di assenso. - Da quanto tempo?

- Due anni e mezzo. - Alza gli occhi al cielo, ridacchiando. - Mi sono annoiata un bel po'.

- E... che cos'è? - Domando.

Non riesco a immaginare una stupidaggine uscire fuori dalle mani di una come Shannona. È così pratica, così brava, così geniale...

- Una specie di materiale che se lo bagni raddoppia il suo volume. Aderisce solo a se stesso, e ci puoi costruire qualunque cosa. Ad esempio: lo bagni poco e puoi fare un igloo. Lo bagni tanto e puoi creare addirittura uno yacht. È impermeabile e trattiene il calore. E per farlo diminuire lo buchi con uno spillo di acciaio inossidato.

Rimango senza parole. È semplicemente meraviglioso.

Poi, come un campanello d'allarme, nella mia testa risuona la sua discussione con il generale Thamlan. Mi asciugo le lacrime rimaste con la manica della tuta rossa, e mi schiarisco la voce. - Cos'è la Cupola Test?

Shannona sembra un attimo destabilizzata dalla domanda, poi mi sorride e mi da un buffetto sul naso. - Direi che è il momento di dormire. Vuoi che resti qui?

Annuisco con foga, improvvisamente impaurita. Copernico potrebbe trovarmi...

- Tu pensi che Copernico mi ucciderebbe? - Le domando sottovoce. Questa domanda mi stringe il cuore, è dura ammettere ad alta voce la mia paura, ma questa domanda mi tartassa da dopo l'esposizione in Aula Magna. Terrorizzata di scoppiare di nuovo a piangere, mi mordo l'angolo del labbro inferiore, finché non sento il sapore metallico del sangue.

- No - dice con serietà. - Mai. Ti vuole troppo bene.

Trattengo il fiato. - Come fai a dirlo? Non... - Mi faccio forza, respirando ad occhi chiusi. - Non è stato programmato a prendere iniziative.

Shannona scuote la testa. - Winger, se ha superato il test di Turing per forza prenderà iniziativa. Non hai compreso il motivo di questo test?

Ha ragione. Mi sento così stupida, mi brucia il volto e vorrei piangere ancora. Ma ho davvero finito le lacrime. Sospiro.

- Perché hai dato del "voi" a Pace?

Shannona mi guarda, e sembra quasi stupita dalla domanda. - Avrai notato che siamo tutti pazzi qui.

Scuoto la testa in dissenso. - No. Tu no. - Mi stringo di più a lei, il suo respiro mi solletica i capelli. La sento ridacchiare.

- Rispetto ogni tipo di pazzìa qui dentro. E Pace ha una forma di pazzìa pericolosa. È bene averlo dalla propria parte.

Annuisco, e rimaniamo in silenzio per qualche secondo.

Poi sento Shannona sospirare e tremare, e capisco che sta piangendo in silenzio. Fingo di non accorgermene.

- Cos'è la Cupola Test? - Ripeto.

Shannona scuote la testa, facendo sfiorare il mento sulla mia testa. - No, Winger. Dormi.

Annuisco. Chiudo gli occhi e mi sento protetta. È come se mia mamma fosse qui a cullarmi e proteggermi. Shannona...

- Grazie. - Vorrei dirglielo centinaia di volte. Milioni. E non basterebbe. Penso di amarla così forte da non volerla lasciar andare mai più.

- Grazie a te - mi sussurra all'orecchio, e mi lascia un bacio sulla guancia. La stessa bocca che prima ha baciato Xavier.

Il generale Thamlan. Sì, penso proprio che potrebbe essere il mio secondo papà.

- Winger? - La sua voce mi raggiunge oltre la coltre offuscata del sonno che mi stava già chiamando a sé. Con difficoltà emetto un mugolìo di attenzione.

- Prima o poi dovrai dire ad Harry come ti chiami. Me lo prometti?

Annuisco, ma forse lo immagino solo. Le palpebre pungono, quasi asciutte per tutte le lacrime versate, e non chiedo altro se non di addormentarmi tra le braccia della persona più importante che ho.

Il mio corpo vacilla come sull'orlo di un profondo e comunque accogliente baratro.

Morfeo mi chiama a sé dolcemente.

Non potrei chiedere di meglio.

Nessuna preoccupazione mi riscuote. Domani sarà un altro giorno.

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