DEPRESSIONE
Piccolo avviso prima del capitolo:
Ho creato una raccolta di informazioni sui personaggi di Terminal, lo trovate sul mio profilo. Passate a dare un'occhiata! ;)
C'è una vecchia diceria che cita: il destro per la gioia, il sinistro per il dolore.
Una lacrima pianta per la felicità scende dall'occhio destro, mentre una lacrima dettata dalla tristezza cade dall'occhio sinistro.
Per anni, ogni qualvolta mi capitava di piangere, mi distaccavo sempre dal pretesto per cui piangevo, per testare che la diceria fosse veritiera. Spesso, quando piangevo per il dolore, e la lacrima scendeva a destra anziché a sinistra, m'intestardivo e mi arrabbiavo, dimenticandomi della causa del dolore, e quest'azione, ripensata in un futuro momento, mi faceva arrabbiare ancora di più perché significava solo una cosa: il fatto che fossi una bambina viziata.
Oramai, questo pensiero non convive più nella mia mente. Ho pianto troppe volte per poter valutare il lato destro o sinistro della lacrima.
La sveglia nell'IRN è dettata dal suono insistente di una campanella. Alzo lo sguardo solo per vedere Shannona girarsi dall'altra parte e fingere di non sentire il fracasso, anche se la cosa mi sembra alquanto improbabile.
Il suono mi fischia nelle orecchie, insinuandosi nei meandri della mia mente e impedendomi di compiere alcun tipo di pensiero se non il desiderio incessante di farlo smettere.
Mi porto a sedere, e lancio un'occhiata fuori dalla porta aperta. Il corridoio pullula di ragazzi e ragazze, che in fretta e furia si vestono e si preparano, per poi congiungersi tutti in una fila ordinata nel corridoio. Allungo lo sguardo sul fondo del mio letto, dove vedo una tuta rossa piegata ordinatamente. Mi alzo, lanciando un'occhiata veloce alla caviglia destra, e sollevo la tuta di fronte a me, stendendola lungo tutta la sua altezza. È una tuta intera, rossa, con una cerniera sul davanti per poterla indossare, ha le maniche e le gambe lunghe, e il colletto è alto. Mi tolgo i vestiti che ho indosso, rimanendo solo in mutande e canottiera, e la infilo. Il tessuto è caldo e confortevole, e mi trasmette sicurezza. È della mia taglia esatta, ed è abbastanza lunga da coprire la caviglia, e con sé, il bracciale.
Sul letto ci sono anche un paio di scarpe, dello stesso colore della tuta, e un elastico nero, per legare i capelli. Vedo con una nota di gelosia, che anche Shannona ha gli stessi vestiti ripiegati al fondo del letto. La campanella sta ancora squillando eppure lei non si muove di una virgola, finché vedo la sua gamba destra muoversi con un sussulto, facendo scattare a sedere la mia compagna di stanza. Ho paura che sia stato il bracciale meccanico, e ricordando l'episodio di ieri, evito il suo sguardo per paura che mi dica un'altra cosa cattiva.
Allungo una mano e afferro e infilo le scarpe, soffici come la tuta, infine mi lego i capelli in una treccia a spina di pesce, l'unica che mia madre mi abbia mai insegnato a fare.
Mi salgono le lacrime agli occhi al ricordo di lei, delle sue dolci mani calde che mi pettinano i capelli. Ne scendono due, entrambe dal lato destro.
Dentro di me maledico la diceria. Non è affatto vera, e questo lo dimostra.
Shannona si è vestita anche lei, e si è acconciata i capelli biondo platino in uno chignon confusionario. La sua candida pelle color del cioccolato risplende leggermente, per via del sudore che le imperla la fronte. Penso sia il dolore del bracciale. La sua tuta è molto più larga della mia, infatti Shannona è lei stessa piuttosto corpulenta. Seno grosso, fianchi larghi, braccia piene, gambe toniche. È bella a modo suo, ma di una bellezza diversa a cui sono abituata io. Mia madre non è mai stata una tutta forme, ma era bellissima anche lei.
Asciugo le altre lacrime che stanno cadendo, e punto lo sguardo su di lei, aspettando direttive. Non so cosa fare, né tantomeno dove andare. Shannona incrocia i miei occhi con i suoi da cerbiatto, e mi guarda con diffidenza.
- Che problemi hai? - Sbotta, infilandosi le scarpe. La campanella suona ancora, così lei deve urlare per farsi sentire.
- Dove dobbiamo andare? - Le chiedo, avvicinandomi per evitare di alzare la voce.
Shannona mi guarda stufa e affranta, poi mi fa segno con la mano di seguirla. Le sto al passo, fino a che anche lei non ci fa disporre all'interno della fila. Qualche altro ragazzo è in ritardo, ma quando tutti i buchi della fila sono chiusi, la campanella smette di suonare, e un attimo dopo siamo in movimento.
Siamo talmente tanti, che la fila occupa tutto il corridoio, di cui non ho ancora visto la fine. Ci incamminiamo dal lato opposto rispetto quello dell'ascensore, e ci vuole un po' prima che finalmente, vedo il muro di fine.
Alto e grigio, si conclude con una porta a doppie ante bianca, che è spalancata su un'enorme disimpegno, da dove si diramano due scale, una verso l'alto e una verso il basso.
La fila sale le scale, così avanziamo di livello, mentre l'odore di disinfettante lascia spazio a un odore dolciastro.
Ci ritroviamo in un'enorme sala mensa, piena di tavoli rotondi, bianchi candidi come il pavimento, il soffitto, le pareti e le luci a neon.
Su un lato della sala, un susseguirsi di banchi da buffet in alluminio sono la causa del dolce odore. Dietro ai banconi, degli inservienti ci offrono la colazione. La fila continua lungo i banconi, e poi ogni ragazzo si sparpaglia nella sala, scegliendo il tavolo dove andrà a mangiare. Quando arriva il mio turno, una donna dai capelli rossi mi porge una grande tazza in ceramica, dove all'interno scorgo del candido latte tinto di giallo. Alzo lo sguardo, scorgendo Shannona dirigersi verso un tavolo all'angolo, così mi affretto a seguirla.
Lei si siede, e quando mi vede sbuffa. - Che c'è? - Domanda, allungando una mano verso il portabiscotti al centro del tavolo.
- Posso sedermi? - Le chiedo, allungando lo sguardo su tutta la sala. I portabiscotti sono su ogni tavolo, e solo adesso noto che ogni ragazza ha la stessa tuta mia e di Shannona, mentre i ragazzi ce l'hanno blu scuro.
Shannona non risponde, così prendo il suo silenzio per un sì, e mi accomodo saltando un posto tra me e lei.
Presto ogni tavolo si riempe, così inizio a scorgere qualche viso. Riconosco il ragazzo biondo che avevo visto al mio arrivo ieri, e solo ora noto che più che biondo, è albino. La pelle è marmorea, gli occhi azzurri come i miei, l'azzurro colore del cristallo in controluce, mentre i suoi capelli, così come le sopracciglia e i suoi peli sulle braccia, sembrano bianchi e inesistenti. Le sue unghie sono tinte di rosso. Il suo sguardo è perfido e malefico, sembra quello di un assassino.
Anche tu sei un'assassina, Winger.
Mi scappa un singhiozzo doloroso, che non è altro che la certezza di quel pensiero. È vero, sono un'assassina. Ho ucciso i miei genitori.
Scoppio irrimediabilmente in lacrime, e mi copro il viso con ambedue le mani, cercando di fermare il pianto o quantomeno i singhiozzi rumorosi, ma alcuni ragazzi seduti ai tavoli attorno al nostro mi osservano curiosi.
- Che cazzo avete da guardare?! - Sbotta Shannona, verso di loro, poi punta il suo sguardo pungente su di me. - E a te che cazzo ti prende?!
La scruto aprendo leggermente le dita delle mani, tanto da mostrare gli occhi, e la vedo arrabbiata e al contempo quasi preoccupata.
- N... Niente - Sussulto, quando un ragazzo prende posto di fianco a me e a Shannona. La ragazza non sembra notare la mia diffidenza, e in realtà non è nemmeno stupita dal gesto del ragazzo dalla tuta blu scuro. Alzo lo sguardo su di lui. Ha i capelli castani ricci, gli occhiali dalle lenti spesse, e soffre di un'acne acuta. È alto e slanciato, malgrado ciò si muove come se avesse qualcuno da portare sulle spalle, gobbo e impacciato.
- Hey Shannona - la sua voce è stranamente acuta, per un maschio, e ha un difetto logopedico che lo porta a pronunciare la "s" come fosse una "f". - Che cos'ha la tua amica?
Lo guardo come si guarderebbe uno strano animale chiuso in gabbia; con timore eppure incuriosita. Lui fa altrettanto con me, prima di porgermi al mano da stringere. - Sono Harry.
Shannona non lo guarda in faccia, ma afferra dal portabiscotti un wafer al cioccolato, e lo inzuppa nel latte.
Abbasso lo sguardo da Harry, ricordandomi d'un tratto che ho anche io una colazione. Lo vedo ritrarre la mano con la coda dell'occhio, e dentro di me sono contenta di non avergliela stretta: in fondo, non diventeremo mica amici con un contatto fisico.
La tazza emette un leggero fumo, che si espande sopra di me, sviluppandosi in tanti piccoli vortici, per poi sparire nell'aria. L'odore intenso di latte caldo misto a qualcosa di dolce mi fa venire l'acquolina in bocca. Afferro la tazza con entrambe le mani e mi porto il bordo alla bocca, per poi bere quel dolce liquido.
Miele. Ecco cosa faceva tendere il latte in giallo ocra. Il dolce, zuccheroso gusto del miele.
Bevo fino a che non lo finisco, poi poggio con delicatezza la tazza sul tavolo, asciugandomi la bocca con la manica della mia rossa tuta.
Il ragazzo Harry è gobbo, con entrambi i gomiti poggiati attorno alla tazza, e fa cadere svogliatamente un pugno di cereali nel latte, facendone cadere alcune goccioline sul tavolo. Alcune schizzano sulla sua tuta blu, causando un contrasto netto. Mi fa pensare a Shannona, la sua pelle così scura e i suoi capelli così chiari.
- Perché hai i capelli biondi? - Le domando in quel momento, presa da un improvviso moto di curiosità. Shannona mi squadra con fare arrabbiato, poi afferra la tazza e beve il suo latte, ignorando la domanda.
- È per via dell'ammoniaca - dice Harry tirando su col naso. - Le avevo preparato uno shampoo a base di ammoniaca ma a quanto pare ha avuto qualche effetto collaterale. - Tossisce, e si gratta la nuca imbarazzato. - Comunque ho perfezionato la ricetta.
- Tu crei...
- Pozioni, miscugli, creme, sostanze... tutto quello che c'entra con la chimica, ha me per secondo nome. - Harry si raddrizza, orgoglioso, e si batte un pugno sul petto, sorridendo. - Sono il migliore in questo campo.
- Sì, infatti i capelli li volevo proprio così - commenta aspra Shannona, rinfacciandogli l'errore. Harry si accascia di nuovo sul tavolo, afferrando un paio di cereali con il cucchiaio e portandoseli in bocca.
Cade il silenzio su di noi, e continuo ad osservare i ragazzi che mi stanno intorno, incapace di concepire l'idea che dietro le loro facce normali, si nascondono degli esseri speciali, come me.
- Quando sei arrivata? - Mi domanda Harry, con la bocca piena.
- Ieri - sussurro, allontanando la tazza per poter poggiare il viso contro il tavolo. La guancia a contatto con il legno freddo mi produce una serie di scosse che si propagano fino alla tempia.
- Sei una novellina allora - dice lui imbarazzato, guardando alle sue spalle.
- Tu? - Chiedo, infastidita e al contempo arresa all'idea che sì, sono debole e indifesa, e ignorante di questo mondo.
- Io compio due anni oggi - dice lui, pulendo con il gomito l'interno della tazza, per asciugare il latte in eccesso. Poi la gira al contrario, e mi guarda. - Ti serve? - Domanda, indicando la mia tazza e il mio cucchiaio.
Nego con la testa, riflettendo sulle sue parole. - Due anni che sei qui?
- Due anni che mi addestrano. - Mi corregge, mettendo la mia tazza sulla sua, facendone coincidere i fondi. Poi allunga lo sguardo verso Shannona, che con un'alzata degli occhi verso il cielo, gli porge anche la sua. Harry cerca di far coincidere i bordi della mia e sua tazza, ma quella di Shannona scivola e lui la prende al volo prima che si frantumi.
- Metti questo - Shannona gli porge un tovagliolo, che Harry posiziona dentro la tazza.
- No - Shannona scuote la testa, togliendogli la roba dalle mani. Posiziona il tovagliolo aperto sulla superficie della mia tazza, e poi ci poggia la sua. - Se c'è una superficie ruvida, non scivola la tazza - gli spiega. Poi prende i cucchiai e li incastra tutti insieme con il tappo del portabiscotti, in una magia che non credevo possibile. Tre tazze sono in bilico una sopra l'altra, e a completare l'opera tre cucchiai sono messi in posizione verticale e sostengono il coperchio di un portabiscotti.
- Shannona è un asso nella fisica - dice Harry sorridente, ammirando l'opera.
- Fantastico - mormoro, osservando la costruzione. In quel momento degli inservienti passano vicino al nostro tavolo, e abilmente sparecchiano, ponendo fine a quella inaspettata magia. Harry si cruccia, deluso, ma Shannona fa finta di nulla.
Vedo che tutti i ragazzi si stanno alzando, macchie rosse e blu indistinte che si riposizionano in fila indiana.
- La Stanza dei Giochi. - Harry mi sorride, porgendomi la mano, che afferro riluttante. - Ti piacerà, novellina.
Ci posizioniamo di nuovo in fila, e stavolta Harry è di fronte a me, mentre Shannona dietro. Stranamente, mi sento rassicurata e protetta, circondata da queste due persone. La fila ci conduce di nuovo nel disimpegno, e questa volta scendiamo due rampe di scale, scendendo al piano inferiore.
La stanza in questione ha le pareti grigie imbottite, e il soffitto nero ricoperto di piccole pagliuzze argentate, come il pavimento. Ovunque mi giri, ci sono tavoli, sedili, sgabelli e piani da lavoro. Utensili e attrezzi da laboratorio, sono accatastati ordinatamente su delle dispense appese ai muri.
La Stanza dei Giochi non ha porte, né finestre, eppure sembra più grande di una nave intera, e più profonda dello stesso cielo. Ogni ragazzo ha la sua postazione, un suo tavolo privato. Shannona si dirige verso il suo, pieno di modellini di legno e contrassegnato da un cartellino che porta il suo nome. Harry mi sorride come per scusarsi della sua assenza, e si dirige al suo tavolo, bandito di provette, imbuti, cilindri graduati e becher. Ci sono circa dieci guardie, sparse in giro per la Stanza dei Giochi. Una mi si avvicina, e la riconosco: è il generale Thamlan, che mi sorride.
- Winger - mi saluta, ed io mi sento sprizzare di felicità. Si ricorda il mio nome. Sembra volermi bene. Mi s'inumidiscono gli occhi, e una lacrima calda scende dal lato sinistro.
- Hai conosciuto Shannona? - Mi domanda, porgendomi il braccio. Mi ci attacco come fosse un'àncora, stringendo con forza eppure senza fare pressione. La mia presa è stabile, e mi permette di percepire i muscoli tesi del mio salvatore. Potrebbe stendermi con un ceffone, farmi rimbalzare a terra e far cessare la vita che è in me.
Questo pensiero però non mi preoccupa, mi tranquillizza. È la persona di cui mi fido di più in assoluto, dopo il dottor Erland.
Il generale Thamlan mi conduce attraverso un paio di piani da lavoro, ognuno contrassegnato dal proprio cartellino personale. Leggo alcuni nomi: Pace, Jackie, Damienne, Joshua.
Il generale Thamlan si ferma di fronte al mio tavolo. Winger è inciso sul cartellino, e mi fa così piacere vedere inciso il mio nome che una lacrima di commozione mi scende lungo la guancia destra.
Sopra il tavolo da lavoro c'è un po' di tutto. Un microscopio con alcuni vetrini, delle viti e un trapano a batteria, dei cavi elettrici e delle pinze a pappagallo, dei fogli A5 con utensili per poter misurare centimetri e millimetri, e tanto altro. La seggiola è alta e il sellino è nero in pelle, però ogni cosa è fissata al pavimento o al tavolo con una catena. Mi siedo cautamente, contenta come se avessi appena ricevuto il regalo più bello della mia vita. Di fronte a me, non c'è un tavolo da lavoro, ma un carrello con dei cassetti estraibili e un cavalletto, con una tela sopra. Il cartellino sul carrello cita il nome di Ky. Il ragazzo impugna con grazia sezionata un pennello intinto di rosso, e lo passa sulla tela con movimenti fluidi e delicati. È totalmente concentrato, e sul suo volto si legge un'espressione così intensa e piena di emozioni che solo a guardarlo mi viene da piangere, e mi si stringe un nodo alla bocca dello stomaco.
È irriconoscibile, eppure è lui. L'albino della mensa, con i capelli bianchi, le unghie rosse e i miei stessi occhi.
- La tua postazione è il tuo Studio, Winger - il generale Thamlan riporta la mia attenzione su di lui, così mi concentro sulle sue parole. - Il tuo tavolo da lavoro è la tua Tavolozza, e tutti i tuoi strumenti sono detti i tuoi Cadetti. In questi giorni, lavorerai con un po' di tutto per capire in cosa sei più portata, Winger. Per sviluppare le tue capacità di persona speciale.
Dentro di me sento nascere l'orgoglio e l'immensa felicità, eppure la domanda mi scappa dalla bocca. - È per via del fatto che siamo Terminal?
Il generale Thamlan si scurisce in volto, e mi scruta per alcuni secondi. Poi sorride.
- Quando capirai qual è la tua capacità, Winger, ti verrà spiegato esattamente cosa sei. Impegnati, farai un ottimo lavoro - sorride, poi si volta e se ne va.
Rimango a fissare il generale Thamlan che si allontana, poi allungo lo sguardo verso Ky per altri minuti, rapita dai suoi movimenti. Quando si accorge del mio interesse, mi scruta con la sua occhiata impenetrabile e inquietante, e spaventata abbasso lo sguardo sul mio tavolo - sulla mia Tavolozza.
La prima cosa che mi viene in mente di prendere è il cacciavite piccolo, nascosto sotto un paio di altri oggetti. È a rivelazione elettrica, col manico trasparente che si illumina nel caso ci sia contatto con la corrente. Piccolo ma molto, molto confortevole. Mio padre ne aveva uno uguale, nel suo garage. La maggior parte degli attrezzi meccanici li conosco, eppure non so che farmene.
Lo Studio della ragazza di fianco a me - se non sbaglio Damienne - è pieno di tubi. Avrà sì e no undici anni, ha i capelli biondo scuro corti, tagliati a caschetto, e gli occhi verdi. Sta avvitando con una chiave inglese una tubatura, che compie delle giravolte e delle acrobazie stupende, in giro per il suo Studio, partendo dal rubinetto, passa sotto la Tavolozza, e gocciola in alcuni vasi pieni di piante grasse, poi continua il suo percorso sotto il suo sgabello, dove passa su una fiammella di fuoco accesa e regolata a temperatura, e va ad alimentare un trenino a vapore. Appena l'acqua è abbastanza calda, riempe il serbatoio del trenino, che emette un fischio e parte di corsa, facendo al contrario tutto il percorso delle sue tubature, sfruttandole come rotaie ad attrazione magnetica.
Il ragazzo al mio fianco sta stampando con una macchina particolare dei calibri in metallo grezzo, che poi poggia su una specie di elevatore, il quale li trasporta in un altro Studio, dove una ragazza li salda insieme e li unisce a una specie di robot di cinquanta centimetri di altezza.
Sono affascinata, eppure sento le mani prudere, segno che è in arrivo qualcosa di nuovo. Mi preparo a sperimentare il mio genio, a dimostrare a tutti questi ragazzi quanto io sia brava e quanto riesca a superare le loro aspettative. Eppure non mi viene in mente nulla.
Provo un po' di tutto. Mi pungo con un cacciavite, faccio cadere una goccia di sangue sul vetrino e la osservo al microscopio, vedendo la reazione a contatto con un liquido in una pirofila in vetro. Niente di interessante. Provo a sviluppare qualcosa con un paio di tubi e della rete metallica, ma in realtà mi viene furi una specie di scultura di tipo moderno. Mi lascio cadere sullo schienale dello sgabello, affranta. Ho le lacrime agli occhi e sento che sto per piangere. Non ho mai trattenuto così tanto a lungo le mie lacrime come in questi giorni. Prima o poi scoppierà, e il grumo accumulato all'altezza del petto si farà sentire come macigni di pietra sul viso.
È così che vola la giornata. Nulla più totale la mattina, pranzo alla mensa e nulla più totale al pomeriggio. Quando torniamo nelle nostre stanze, il mio cuore sta cedendo. Entriamo in camera e guardo Shannona distendersi sul letto. È come una specie di robot: sveglia, colazione, Stanza dei Giochi, pranzo, Stanza dei Giochi, letto. Ci sono dei doveri e delle leggi da rispettare, che però Shannona in qualche modo cerca di evadere, con il suo personale modo di alzarsi la mattina, aspettando e aspettando fino a che non viene riscossa dal bracciale magnetico. Una forma di evasione che mi sembra di vedere in tutti, come Harry a tavola, che finito di mangiare costruisce e ancora costruisce, pur sapendo che gli inservienti butteranno giù la sua opera a fine pasto.
Come Ky, che ha le unghie tinte di rosso, e va in giro con un pennello nascosto nella manica sinistra della tuta blu scuro. L'ho visto, l'ho osservato nasconderne uno prima di tornare nella propria camera. Avrei voluto portarmi un Cadetto anch'io, ma non sarei riuscita a mantenere il segreto. E mi avrebbero punita.
Al fondo dei nostri letti c'è una camicia da notte ben piegata, tutta bianca. Shannona se la infila dopo l'ennesima convulsione della gamba destra, e la cosa mi dispiace alquanto. So che vuole essere diversa, ma così fa male a se stessa. E poi, le regole sono regole. Mi spoglio anch'io, ma prima di rivestirmi decido di farmi una doccia. Chiudo la porta della camera, poi quella del bagno, infine riempio la vasca di acqua calda, che misuro con la mano, come faceva sempre mia mamma. Il macigno al petto si fa più pesante, così lascio scorrere due lacrime solitarie giù per il mio viso. Lascio cadere a terra le mutande e la canottiera, poi tolgo l'elastico dai capelli, scrollandoli dai nodi, rilasso le spalle ed entro in acqua. La temperatura mi fa rabbrividire, ma quando sono immersa del tutto, il mio corpo emette un sospiro di sollievo e mi sento libera. È una vasca molto grande, e mi permette di rimanere completamente distesa per lungo. Mi lascio galleggiare a peso morto sul filo dell'acqua, osservando le spirali di fumo sollevarsi fievolmente dalla superficie, scemando verso l'alto.
Se fosse così semplice scappare. Volare, dissolversi nell'aria e morire, eppure in parte ricominciare a vivere. Non so cosa sia il senso di libertà, ma immagino che dev'essere bello vivere senza restrizioni. Il bracciale meccanico è termico, e la cosa mi fa dispiacere, perché la parte anticonformista di me sperava di poter sfruttare la corrente per morire in acqua.
Che pensiero orribile. Chiudo gli occhi e rilasso i muscoli. Sento la copertura dei miei capelli sul collo, ed è come una protezione in più. Apro gli occhi e torno ad osservare l'acqua, che si è tinta di una leggera sfumatura di grigio, poi lascio andare e scoppio in lacrime. Singhiozzo forte, so che tanto Shannona non verrà, crollo come se il macigno fosse diventato reale. Non galleggio più, ma sto affondando. Lentamente, inesorabilmente. Verso la fine.
Le lacrime bruciano, i singhiozzi mi fanno schioccare la cassa toracica. Tremo così forte che dell'acqua fuoriesce dalla vasca, e ho quasi paura di rompermi sotto lo stesso peso dei miei peccati. Piango per la mamma, per il papà, per Shannona, per la mia vita, per il generale Thamlan, per tutti questi ragazzi, per Loro, per la mia scarsa preparazione. Ogni pensiero è intricato e collegato ad un altro, che mi ricorda che sono colpevole di molte più cose riesca ad ammettere con me stessa.
Quando sento che le lacrime sono finite, e quando le scosse dei singhiozzi sono cessate, non ritorno a galleggiare come speravo. L'acqua è grigiastra, e sta diventando fredda. Le spirali di fumo sono andate via tutte, neanche una ha voluto restare per farmi compagnia.
Sono sola, in questo bianco bagno, in questo bianco corpo.
Una striscia rossa vira verso la superficie dell'acqua, tingendola di rosato. La osservo incuriosita, domandandomi da dove provenga. Poi un'altra, e un'altra ancora, centinaia di striscioline rosse tingono di rosso la mia acqua, la mia vasca, il mio corpo.
Rosso come le unghie di Ky.
Rosso come il sangue.
Mi tiro su a sedere, mentre il cuore batte all'impazzata, ed esco di fretta dalla vasca. Il sangue giace nell'acqua, eppure ce n'è ancora sul pavimento, sulle mie gambe. Scorre copioso proprio dal mio sesso, impulsivo, veloce.
Urlo. Urlo come non ho mai fatto in vita mia.
Sto morendo, dall'interno. Dissanguata. Grido, impaurita di sentire da un momento all'altro il dolore causato da questa perdita. Il sangue mi acceca, sporca le pareti. Mi porto una mano tra le gambe, cerco di farlo fermare, ma non concludo niente se non sporcarmi di più. Mi guardo le mani rosse, perdo l'equilibrio, cado a terra. Striscio, mi trascino a carponi verso l'angolo del bagno. Cosa mi sta succedendo?
Lancio un altro grido, scoppiando di nuovo in lacrime, singhiozzo, urlo, mi dimeno.
Sangue.
Sangue ovunque, nella vasca, a terra, sulle piastrelle, su di me.
- Shannona! - Urlo. Magari può salvarmi, magari può aiutarmi ad uscire da questo incubo. Piango così forte che non riesco più a distinguere i lamenti dalle urla.
Shannona compare sulla porta, con la vestaglia bianca che le cade sul corpo come un sacco. Quando mi vede strabuzza gli occhi, e sul suo viso l'espressione è impaurita.
- Sta succedendo qualcosa! - Urlo, sento la mia voce stridula entrarmi nelle orecchie. - Aiutami! - La imploro.
Shannona rimane sulla porta, la bocca semi aperta, poi corre verso un mobiletto, ne apre le ante e tira fuori un pacchetto azzurro e rosa. Prende un paio di mutande e quadrato di plastica, che poi srotola rivelando una striscia di tessuto bianca come tutto il resto qua intorno.
Il mio intimo è per terra, e solo ora vedo che anche quello è macchiato di sangue. Urlo di nuovo, mentre le lacrime salate mi finiscono in bocca, lascio cadere la testa all'indietro, contro la parete, pronta ad accettare il mio destino.
- Morirò - mugugno, piangendo disperata. - Ho paura Shannona.
- Smettila di urlare cazzo! - Sbotta, lasciandosi cadere a terra vicino a me. Il sangue le fa repulsione, ma mi prende il volto fra le mani e mi costringe a guardarla negli occhi. - Ora ascoltami, cogliona.
I suoi insulti mi scalfiscono ulteriormente, e il pianto aumenta d'intensità, non lasciandomi nemmeno la forza di respirare.
- Basta, basta! - Shannona si guarda intorno, spaesata. Poi, contro ogni mia aspettativa, mi stringe in un abbraccio. - Va tutto bene, porca troia.
Malgrado la volgarità, la sua frase mi infonde calma, tant'è che riesco a smettere di singhiozzare. Mi asciugo le lacrime con la mano, e la guardo in viso con compassione.
- Morirò qui, con te - sussurro, sorridendo appena. Il pensiero di lasciare questo mondo accanto a una persona come Shannona mi da sollievo. La vedo scuotere la testa, e allontanarsi da me. - Tu non morirai. È solo il ciclo.
- C... cosa? - Domando, sbarrando gli occhi sorpresa. - Ciclo?
- Ce l'hanno tutti. Tutte le donne, cioè. Nessuno ti ha mai detto niente?
Il mio cuore perde un battito, mentre una sensazione che non ho mai provato prima mi fa bruciare le guance. Mi sento così male, come se fossi tata ingannata, come se qualcuno si stesse burlando di me. Shannona sospira, poi mi porge le mutande. - Mettile - mi ordina. Faccio come mi ha detto, sporcandone il bordo di sangue. Poco prima che aderiscano alla mia pelle, Shannona mi blocca. - Metti questo. È un assorbente. - Mi porge il quadrato di plastica, poi quando vede il mio sguardo scettico mi aiuta a metterlo. - Togli la carta adesiva, e lo fai aderire contro il tessuto. Così. Assorbirà il sangue.
- Anche tu perdi sangue? - Sussurro. Tremo di paura, spaventata e al contempo incuriosita da ciò che sta per dirmi.
Shannona sospira. - Una volta al mese, Winger, ogni donna perde del sangue - mi asciuga una lacrima, poi mi sorride, il suo primo, vero sorriso. - Altrimenti non potremmo avere i bambini.
La sua argomentazione mi sconvolge più di quanto io stessa riesca a credere. Come ho potuto vivere nell'ignoranza per così tanto tempo?
Shannona mi aiuta ad alzarmi, poi si toglie la camicia da notte, oramai sporca di sangue, e la usa per pulire per terra il sangue colato. Apre il tappo della vasca, lasciandola svuotare dall'acqua rossa, poi mi accompagna in camera, mi aiuta a vestirmi e mi fa coricare sul letto. Mi rimbocca le coperte, infine si stende di fianco a me, carezzandomi. Chiudo gli occhi, assaporando questo momento. È come tornare tra le braccia di mia madre. Mi sento al sicuro, protetta come non mai in questi ultimi tre anni. Una lacrima mi cola lungo la guancia destra, una lacrima di commozione.
- Dormi Winger - sussurra Shannona. - Veglio io su di te.
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