CONTRATTAZIONE e PATTEGGIAMENTO

La morte e il morire sono due concetti differenti. Malgrado la soglia della differenza sia pressoché minima, sono due pensieri distinti.

Chi ha paura di morire, è perché ha dei sogni. Ha una vita, ha un amore. Se si ha paura di morire, si è abbastanza modesti dall'avere un ego egoistico.

La paura della morte è un concetto più razionale, più profondo. Se non si ha paura della morte, è perché non si ha più niente da perdere. Non hai nessuno che ti ama, non hai qualcosa per cui vivere e sperare.

Se hai paura di morire, quella paura ti tocca direttamente. Se hai paura della morte, quella paura coinvolge ciò che ti sta attorno.

Se non hai paura né dell'una, né dell'altra, significa che non hai uno scopo per vivere.

Significa che sei già morto.

Mi duole ammettere, che una piccola parte di me ha paura di morire. Sono piuttosto convinta che la mia parte anticonformista abbia la percentuale compensante di egoismo che scema nel resto della me giusta. La me giusta è quella controllata da Loro, ovviamente.

Per quanto ne so, la maggior parte della gente ha paura di morire.

Anche io ho paura per loro. Ho paura della morte. Perché so che hanno una splendida vita, hanno una casa, una famiglia, degli amici, delle passioni.

Tutte cose che io non ho, in sintesi.

Questa constatazione mi fa venire le lacrime agli occhi, che asciugo subito con la manica del mio pigiama.

Sono sdraiata su un lettino di metallo, come quelli degli ospedali.

Mi sono svegliata dolorante, con i piedi e il busto legati. Ho provato ad alzarmi, e ho visto sopra di me un soffitto ricoperto di specchi. Ho visto me stessa, sdraiata, magra, debole, esile.

Con la coda dell'occhio, vedo di fianco a me sulla destra una porta. Ermetica, come quella dell'istituto dov'ero rinchiusa prima.

Cerco di fare mente locale. Mi hanno portata su un camioncino. Sono stata trasferita in un'altra unità. Mi hanno iniettato qualcosa nel sangue.

Uno sbuffo mi fa sobbalzare, la porta ermetica si apre e chiude con un sonoro schiocco. Un uomo di mezz'età in camice bianco mi si avvicina, guardandomi dall'alto. Ha i capelli castani, e un viso segnato dagli anni. Occhiali dalla montatura sottile gli scivolano dal naso, e lui con un dito li spinge di nuovo al loro posto.

- Ciao Winger - mi saluta cordialmente. Lo osservo, chiedendomi chi sia. Non ha cartellini denominativi, ed è sicuramente una faccia nuova.

È uno di Loro?

- Sono il Dottor Erland. Se capisci quello che dico, fammi un cenno.

Muovo la testa, annuendo. Lui sorride compiaciuto.

- In questo momento ti trovi nell'IRN, l'Istituto di Riabilitazione Nova. Quando sei arrivata, ti è stato iniettato un liquido che mettesse alla prova il tuo corpo. Diciamo che è... la prima prova, in un certo senso. Coloro che non sono compatibili con il virus beh, non arrivano sicuramente dove sei tu ora.

- Questo vuol dire che ho superato la prova? - Mormoro. Sento la mia voce più acuta di quanto non sia generalmente, ed è debole e gracchiante.

- Certo Winger. E con successo, aggiungerei. - Sorride.

Un moto di orgoglio cresce dentro di me. Bene, ho superato la prima prova. Capiranno che sono forte. Mi hanno preparata bene.

Non vorranno buttarmi via.

- Adesso, Winger, ti slegherò, e il generale Thamlan ti scorterà nella tua nuova camera - dice il Dottor Erland, iniziando a slegare le corde che mi tengono impalata al lettino. Attendo pazientemente che tutti i cavi siano slegati, poi mi porto a sedere, con calma, buttando le gambe a penzoloni giù dal lettino.

- Ti senti bene? Hai dei giramenti di testa, o una nausea leggera? - Mi domanda il Dottor Erland, tirando fuori da un taschino del camice una pila. Me la punta contro gli occhi, controllando la dilatazione delle pupille, e poi mi fa spalancare la bocca e controlla la gola. Infine mi guarda, aspettando risposta.

- Sto bene - sussurro, lieta che sia vero, per una volta. Il Dottor Erland sorride, e si volta verso la porta ermetica. Come a comando, questa si apre, rivelando l'uomo che mi ha portata qui.

- Lui, Winger, è il generale Thamlan. Lui ti ha trasferita qui. Lo riconosci? - Domanda, pronunciando ogni parola con chiarezza.

Annuisco, poi guardo il generale Thamlan e tento un sorriso di comprensione, ma mi esce una smorfia di dolore quando una fitta improvvisa alla testa mi fa perdere l'equilibrio, e cado in avanti. Il Dottor Erland e il generale Thamlan mi trattengono, e mi sorreggono mentre tento di prendere una boccata d'aria. I miei polmoni bruciano, respirare si fa sempre più doloroso, sento le fiamme avvolgermi la gola, lo stomaco, la testa.

Poi, un attimo dopo, tutto svanisce. Mi guardo intorno, cercando di capire cosa sta succedendo.

Mi sento addirittura meglio di prima.

Il Dottor Erland mi guarda preoccupato. - Winger?

Lo guardo, e questa volta riesco a fare un sorriso decente - Sto bene, Dottore. Portatemi pure nella mia stanza.

Il Dottore e il generale si scambiano un'occhiata, prima di rivolgere nuovamente lo sguardo su di me. Mi sento pimpante, sono piena di energie e pronta a fare qualunque cosa mi chiedano.

- A proposito di questo, Winger, lascia che ti dica una cosa - dice il Dottor Erland, accomodandosi al fondo del lettino. - Avrai una compagna di stanza. Ogni paziente ha un compagno di stanza, per evitare di sviluppare una depressione psicologica dovuta alla solitudine.

- Non ho mai avuto un compagno di stanza - sussurro, impaurita.

- Devi imparare a socializzare, Winger. Qui troverai tanti altri ragazzi della tua età circa, che sono speciali come te.

Mi salgono le lacrime agli occhi. Sono speciale? Non riesco a credere alle mie orecchie, quindi Loro sono orgogliosi del mio operato! Sono contenti che la loro educazione stia avendo buoni frutti. Voglio renderli orgogliosi. Sono brava, so fare le cose che mi chiedono.

Sono speciale.

Sorrido, mentre una calda lacrima scende sulla mia guancia silenziosa.
Mi piace ripeterlo.

Mi alzo in piedi, e il generale Thamlan mi sporge il braccio, che afferro riluttante. Il contatto dei piedi nudi contro il pavimento di marmo gelido mi fa rabbrividire.

- Ci vedremo presto, Winger - mi sorride il Dottor Erland. Ha un sorriso così caldo e accogliente, che mi si stringe lo stomaco. È come se quel sorriso trasmettesse amore. Sono così sconvolta che non mi accorgo che abbiamo attraversato la porta ermetica, e adesso stiamo svoltando in un corridoio. È tutto bianco, di nuovo. Una striscia azzurra di carta da parati divide metà le pareti, e riprende il decoro delle piastrelle marmoree sul pavimento.

Il soffitto è tempestato di luci a neon che mi accecano, portandomi ad abbassare lo sguardo in fretta. Mi lacrimano gli occhi per la forte luce, e chiazze bianche mi oscurano la vista, così alcuni passi li compio alla cieca, guidata dal braccio fermo e sicuro del generale Thamlan. Il suo rispetto per me sembra svanito, e adesso indossa una maschera fiscale e priva di emozioni... che non sembra nemmeno più lui.

Solo dopo un poco mi accorgo che i corridoi pullulano di medici, e militari, che vanno avanti e indietro, e attraversano porte ermetiche con sonori sbuffi.

Mentre passiamo di fianco ad una, getto l'occhio al di là della porta: un ragazzo coi capelli biondi brizzolati è seduto su un lettino, nell'angolo della camera, e guarda il muro. Un medico gli sta lavando la schiena nuda.

Con la stessa velocità con cui ho gettato lo sguardo in quella stanza, altrettanto velocemente il generale allunga il passo, facendomi quasi venire il fiatone.

Evidentemente non vuole che guardi.

Quel ragazzo sarà uno dei miei compagni? Sarà anche lui come me?

Sarà anche lui speciale?

Ingoio bile amara, mentre la gelosia monta iraconda dentro di me. Solo io sono speciale, e nessun'altro lo è. Io sono unica, e per Loro sarò perfetta.

O almeno, questo è il mio desiderio più grande. In realtà, so che non sarò mai all'altezza di tutti i ragazzi rinchiusi qui. Perché questi ragazzi sono stati educati direttamente da Loro, mentre io ho solo tre anni di addestramento.

Magari questi ragazzi sono istruiti sin dalla nascita. Mi si blocca il respiro al pensiero di quanto possa essere indietro con gli insegnamenti, se questa mia supposizione fosse giusta.

Il generale Thamlan si ferma di fronte ad un ascensore, preme il pulsante di chiamata e attendiamo in silenzio. Quando le porte si spalancano, emettono un dolce dlin dlon che mi fa sorridere. Era da tempo che non sentivo bei rumori come questo.

Appena le porte si chiudono, io e il generale Thamlan restiamo soli. Gli lancio un'occhiata incuriosita. Perché adesso sembra così severo, mentre nel furgoncino mi aveva anche quasi sorriso?

Come a comando, il generale mi guarda e mi sorride.

- Vuoi premere tu il bottone?

Trattengo il fiato, impaziente. Davvero potrei premere il bottone? Sono così elettrizzata che mi tremano le labbra, mentre lentamente annuisco.

- Piano terzo. - Dice il generale, tornando a guardare dritto di fronte a sé. Mi sporgo davanti a lui, e cerco il pulsante. È rotondo, con il numero 3 inciso sulla targhetta di metallo, circondato da una fila di lucine led. Quando lo schiaccio, le lucine si accendono di un bel rosso. Torno al mio posto, con un mezzo sorriso stampato sul volto.

Le porte si riaprono, e ciò che le mie orecchie captano mi fa rizzare i peli sulla nuca.

Di fronte a noi si stazia un lungo corridoio pieno di porte di legno. La maggior parte è aperta, e ovunque il mio sguardo si possa poggiare ci sono ragazzi e ragazze, circa della mia età, che parlano, corrono, ridono e chiacchierano.

Il suono della civiltà.

Il suono della vita.

Il mio cuore perde un battito, quando in sintonia tutti i loro sguardi si spostano su di me.

Immediatamente inizio a sudare freddo, dimentico come mi chiamo, come si fa a parlare e a respirare. Non riesco a fare altro se non ricambiare ogni sguardo con evidente sorpresa.

Sono rapita dai loro occhi, dalla loro normalità, dalla loro giovinezza, e dalle loro espressioni.

Sono così... umane. Non come i medici o i militari, no. Questi ragazzi hanno dei sentimenti, e li mostrano al mondo. Li mostrano a me.

Il generale Thamlan mi fa avanzare lungo tutto il corridoio. Noto con curiosità che ogni singola porta ha un numero di metallo inciso sopra.

Il generale si ferma davanti all'unica porta chiusa. 221.

Vedendo il suo muto invito, impugno la maniglia e apro la porta. La camera che mi si presenta davanti è perfettamente quadrata. È graziosa, con pareti rosa con delle nuvole bianche dipinte. Ci sono due letti, disposti rispettivamente uno di fronte all'altro, con la testiera contro i muri. Nell'angolo destro c'è una porta, molto probabilmente l'entrata del bagno. Per terra, di fronte ai due letti, c'è un grande tappeto dello stesso colore delle pareti, ovale.

Niente finestre.

Sul letto sinistro, seduta a gambe incrociate, c'è una ragazza. Ha la pelle scura, capelli ricci lunghi del colore della sabbia. Il contrasto è così netto che fa quasi male guardarla.

La sua espressione è altalenante, tra la paura e il sollievo. Il suo tono, però, è sconsolato.

- Oh cazzo.

- Ciao, Shannona - dice il generale Thamlan, ignorando l'insulto e guardandola con un sorriso che non coinvolge gli occhi. Poi abbassa lo sguardo su di me. - Winger, lei è la tua nuova compagna di stanza, Shannona.

Sono sorpresa. Primo, dal suo modo di approcciarsi a me. Secondo, dal modo buffo con cui il generale dice il suo nome. La cadenza sudista che non avevo intercettato si fa sentire mentre pronuncia il nome della mia nuova compagna di stanza. Che io sappia, Shannona si dice con una sola n, mentre lui ne marca due, proprio come se pronunciasse il nome scritto.

Come volevasi dimostrare, la ragazza di fronte a me alza gli occhi al cielo. - È Shannona - pronuncia nel modo corretto, incrociando le braccia la petto.

- Ti troverai bene con lei Winger, - mi sorride il generale, invitandomi con un gesto della mano ad entrare. Supero la soglia della porta e velocemente raggiungo il tappeto, che mi riscalda i piedi immediatamente.

- Quello è il bagno - continua, indicando la porta nell'angolo - e questo è il tuo letto. - Con un gesto indica il letto sulla destra, le lenzuola intatte, il cuscino privo di pieghe. - Ogni due ore una guardia farà il giro delle stanze, per vedere se ognuno di voi sta bene. La mattina e il pomeriggio, dopo i pasti, ogni ragazzo si reca alla Sala dei Giochi. - Fa una pausa, guardandosi intorno come per accertarsi di non aver dimenticato nulla, poi riposa lo sguardo su di me. - A presto - mi sorride di nuovo, e una stretta allo stomaco mi fa mancare il fiato.

- Mi lasci sola? - Domando, non riuscendo a trattenermi. Ho le lacrime agli occhi. Ho paura di restare sola, ho paura di tutti questi ragazzi, ho paura di Shannona.

- Che bastarda viziata - commenta Shannona con tono accusatorio.

Una lacrima mi scende giù dalla guancia sinistra, arrivando a toccarmi l'angolo della bocca. La catturo con la lingua, come sperando che nessuno l'abbia vista.

- Ciao Winger. - Il generale Thamlan si volta, e se ne va.

Ingoio a vuoto. Improvvisamente la lingua è asciutta, come se non bevessi da giorni, o peggio, da anni. La passo sul palato, graffiandomi le gengive.

Poi mi volto, verso Shannona. Mi guarda con fare scocciato, quasi riserbasse da tempo ribrezzo e odio, solo da indirizzare nei miei confronti.

- Beh, che hai? Vuoi metterti a piangere per caso? - Mi domanda, alzando un sopracciglio. Mi si inumidiscono di nuovo gli occhi, e un'altra lacrima scende giù fino al mento.

La osservo, sembra normale. A parte il carattere particolarmente suscettibile, non sembra come me.

Non sembra speciale, e questo mi rende felice.

Cerco di sorridere, poi abbandono l'idea, e mi siedo con temperamento sul mio nuovo letto. non è come il letto dell'altro istituto, questo è molto più morbido.

- Non ha odore. - Mi dice in quell'istante Shannona.

- Cosa? - Domando. Mi ha detto qualcosa e io non ho sentito forse.

Magari questa caratteristica fa parte degli speciali come me.

- Il letto. Non ha odore. Così puoi renderlo tuo. - Mentre parla si guarda le mani, sembra quasi imbarazzata. - Sai no? Gli dai il tuo odore, diventa tuo. Lo hanno fatto apposta per farti sentire a casa.

- Questa è casa per te? - Domando sottovoce.

Lei sbruffa, con un sorriso privo di emozioni. - Ci provano a farmelo credere. Ma no, non sarà mai casa. è una merda di prigione.

- Tu... tu conosci Loro? - Domando sbalordita.

- Più o meno.

La rabbia mi monta dentro come una furia, insieme a una grossa dose di gelosia e poi, infine, arriva la frustrazione. Lei li conosce. Lei è più speciale di me. Chi credevo di essere? Non mi vogliono, non mi vorranno mai. Inizio a piangere in silenzio, asciugandomi ogni lacrima che scende.

- Perché cacchio piangi? - Mi chiede incuriosita. Non so rispondere. Non so perché lo faccio. Desidero ardentemente una vita diversa dalla mia, la desidero talmente tanto che piango, e continuo a sperare che migliori.

Ingoio bile amara, e la guardo di nuovo. Il contrasto tra la pelle nera e i capelli biondi è talmente forte che la rende bellissima. Ha un bel viso, un bellissimo viso, così diverso dal mio, così singolare.

- Cos'è la Stanza dei Giochi? - Chiedo, cambiando discorso.

- È una stanza dei giochi, no? Si va lì e si fa tutto quello che si vuole, lì c'è di tutto.

- Da quanto tempo sei qui? - Chiedo, portandomi le ginocchia al petto e stringendomi in un abbraccio privo di calore.

- Otto fottuti anni. Conosco tutti quelli che lavorano qui. Sono una cazzo di veterana. - Ammette alzando gli occhi al cielo.

- Perché siamo qui? Siamo tutti speciali?

- Tsk, che cazzata. Non siamo speciali. Siamo Terminal. Ci rinchiudono qui perché hanno paura di noi, Winger. Siamo troppo potenti. Noi abbiamo... - Shannona smette di parlare e comincia a contorcersi convulsamente, tremando. Cade dal letto in una posizione innaturale, ha gli occhi socchiusi e la bocca aperta, da cui esce un mugolio di dolore.

Stringo più forte le gambe al petto, incapace di distogliere lo sguardo, e urlo a squarciagola. Sta morendo? Non ho il coraggio di alzarmi, e Shannona si muove a terra come se fosse divorata dall'interno.

Alcuni ragazzi si affacciano alla nostra porta, e poi se ne vanno scuotendo la testa.

Alcuni interminabili attimi dopo, le contrazioni cessano. Shannona non si muove più.

Con gli occhi sbarrati, osservo la sua figura giacere inerme a terra. Infine scoppio a piangere. I singhiozzi mi strappano il respiro, mi lacerano i polmoni.

Poi, con un profondo respiro, Shannona si rialza come se fosse appena uscita da una vasca piena d'acqua. Strillo di nuovo, spaventata.

- E sta' zitta, cazzo! - Mi urla, cercando di rialzarsi. Cade due o tre volte, poi si trascina sul letto e si sdraia sotto le coperte. Trema così tanto che le assi del letto cigolano.

Mi asciugo le lacrime, incapace di pensare. È durato tutto così poco. - Sei... sei resuscitata?

Non risponde. Il tremore è diminuito, e il suo respiro si sta stabilizzando. Penso stia dormendo.

Abbasso le gambe, osservandola con insistenza. E se morisse mentre dorme? Cosa intendeva con la parola "Terminal"? Cos'è successo?

Non capisco più niente di questo posto. Questa sensazione frustrante di ignoranza mi scombussola il cervello. Sono fuori luogo, un'intrusa, come se la gente mi parlasse alle spalle e non mi spiegasse nulla.
Come se ci fosse qualcosa al di là di queste maschere, del generale Thamlan, del Dottor Erland e di Shannona.

Porto i piedi a terra, e mi guardo le caviglie. Sulla caviglia destra c'è un bracciale meccanico, spesso tre dita, con una lucina rossa che lampeggia. Va a ritmo col mio battito cardiaco. Non mi ero accorta di averlo indosso. Potrebbe essere un localizzatore, o una manetta elettronica, o un trasmettitore di elettroshock.

Potrebbe essere la causa dell'incidente di Shannona. Porto la caviglia più vicina che posso al viso, e osservo l'aggeggio curioso. Trattengo un urlo di ribrezzo. Il bracciale è direttamente impiantato nella carne, vedo alcuni tubicini infilarsi sin dentro le ossa. La ferita sta cicatrizzando, ma è ancora leggermente rossa, malgrado non mi faccia male. Percorro con dito gli incavi di quel pericoloso ingranaggio, cercando di comprenderne il materiale. Il cuore mi batte all'impazzata, credo che Shannona potrebbe svegliarsi per via del rumore, anche se so che è impossibile.

Non posso credere di averlo impiantato dentro di me. Mi viene un conato di vomito, e sono costretta a correre in bagno a vomitare tutto quel poco cibo che avevo ingerito la mattina stessa. Lo stomaco si contorce cercando di tirare fuori qualcos'altro, ma ho solo succhi gastrici. Pulisco la bocca contro la manica del pigiama, e raschio la lingua contro i denti, per togliere il gusto nauseante. La puzza è insopportabile. Tiro l'acqua e provo ad alzarmi, ma mi gira la testa, e per alcuni minuti vedo tutto nero, così procedo a gattoni fino a quando non trovo con il tatto il letto. Ci salgo sopra, compio un paio di respiri per calmarmi. Torno a vedere il soffitto della mia nuova camera, il gusto acido del vomito mi strappa una smorfia di disgusto.

Sono così stanca. Le lacrime mi riempiono di nuovo gli occhi, e si fanno strada lungo le tempie lentamente, cadendo sul cuscino con un tonfo sordo indistinto.

Il pianto è sempre con me. Le mie lacrime, sono la mia compagnia. Con loro mi sveglio, con loro mi addormento.

Vivo piangendo. Non vivo affatto.

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