La divisione delle acque
Necessitavo di una lobotomia.
Forse in quel modo, con la testa bucata da vari lati, sarei riuscita ad attraversare tutto corso Vannucci senza rischiare di morire d'infarto. Certo, sarei sembrata un po' zombie, ma Netflix era stata un'ottima campagna di sensibilizzazione per le ingiustizie che subivano quelle povere creature, così da eliminare il razzismo nei loro confronti.
Netflix, salvatrice di anime.
Vicino alla gigantesca fontana di Piazza IV Novembre, aggrappata alla ringhiera, che ricopriva il perimetro circolare di quella stessa fontana, come pikachu alla spalla di Ash, mi guardai attorno con il terrore negli occhi. Non mi sentivo così spaventata da quando la mamma, a sei anni, mi aveva costretta a vedere una puntata di Cento Vetrine.
Osservai la gigantesca e dritta strada che si spianava di fronte a me, intrappolata in una serie di edifici antichi e satura di gente che non aveva ancora capito che i loro respiri consumavano l'ambiente esterno.
Quello era uno dei motivi per cui avevo sempre tifato per Voldemort.
Avevo due possibilità.
Possibilità numero uno: attraversare quella via, raggiungere la sua fine e entrare nella libreria che si affacciava al piccolo parco di Piazza Italia, tentando, nel possibile, di evitare contatti umani esterni, specie da parte di coloro che non erano vongole-muniti.
Possibilità numero due: tornare a casa, rifugiarmi in camera, chiudermi a chiave per impedire a Megera di prendere le mie cose e morire là dentro, di fame e di sete, passando i miei ultimi istanti a guardare i documentari del mio amato. I miei occhi ormai pronti a chiudersi per sempre si sarebbero sollevati per vedere il suo viso angelico un'ultima volta e io, sdraiata per terra, avrei alzato una mano per raggiungerlo oltre lo schermo e avrei sussurrato come mie ultime parole "Sarò tua nell'infinito e oltre".
Quella sarebbe stata un'ottima e onorevole morte.
Quel piano mi sembrava perfetto.
Ero già pronta per voltarmi e ritornare sui miei passi, quando il telefono nella tasca dei pantaloni vibrò. Lo sfilai sorpresa, non ricevevo quasi mai notifiche che non fossero per il mio blog di recensioni. Fu con orrore che realizzai non trattarsi, stavolta, di qualche fan accanita a cui sarebbe piaciuto recitare insieme a me il Padre Angela.
Megera mi aveva inviato una foto.
Non una semplice foto.
Nello schermo c'era lei che con una mano stringeva il mio bambolotto di Ned Stark. Il volto di nonna era così infuriato da ricordarmi quello di Legolas quando si rendeva conto di non aver più frecce da scagliare. Sotto, un solo messaggio.
Se torni indietro, gli stacco la testa.
Le lacrime si accumularono nei miei occhi.
Inspirai con forza dal naso, per poi strozzarmi con la mia stessa saliva. Tossii, e varie furono le teste che si voltarono a fissarmi. Perché mi guardavano? Cosa c'era di strano in una tipa che piangeva da sola, aggrappata alla ringhiera di una fontana, con il volto distrutto di una donna che aveva perso ogni suo motivo di vita?
A quel punto, mi costrinsi a camminare.
Non c'era più niente da fare: per Ned Stark, per la sua testa, avrei dovuto affrontare l'inferno. Non importava a che prezzo. Mi mossi indecisa, guardandomi istericamente attorno. C'erano davvero troppe persone, quella mattina, in giro per fare shopping o per fingere amicizie che sarebbero iniziate con le tipiche frasi come "amore, ma sei un biscottino norvegese al caramello" per poi finire con "lurida zoccolona patatona".
Mi strinsi fra le braccia, proseguendo a passo di formica. I rumori si accalcavano nella mia testa uno dietro l'altro, senza darmi tregua. Osservai con l'orrore nel cuore un gruppetto di ragazzini mentre si ubriacava seduti attorno i tavolini di un bar, i brividi mi attraversarono fino a farmi sobbalzare, sapevo alla perfezione quali effetti poteva indurre un po' di alcool a degli adolescenti arrapati che passavano tre quarti delle giornate con un pacchetto di fazzoletti in una mano e il cellulare nell'altra.
L'allarme scattò, il campanello di sicurezza si accese.
Uomini, uomini, uomini.
A quel punto fu solo una questione di secondi perché il mio cervello partisse per la tangenziale. Immaginai un rapimento, un uomo senza volto, una risata, e io che venivo rotolata attorno una gigantesca foglia d'alga, per poi diventare sushi.
Accelerai il passo. Mi mossi fra le varie persone, attenta a non respirare l'aria che rilasciavano e fissando con intensità le loro facce; stavo sfruttando tutta la mia attività neurale per poter capire quale direzione mi sarebbe convenuto prendere per ritrovarmi davanti meno pippolo-dotati possibili.
Superai i tavolini lasciati fuori, al centro della larga strada, per il ristorante Il Bacio, proprio al centro della via, e dove, attualmente, alcune stupide e inutili coppiette erano intente a risucchiarsi le tonsille e a slinguazzarsi come Ada slinguazzava il ripiano del frigo. Cosa c'era di così bello nelle lingue delle altre persone? Erano dei muscoli che servivano per parlare e masticare, non per giocare con l'ugola degli altri.
La mia spalla sbatté contro qualcosa, sollevai lo sguardo e per poco non vidi il volto di Padre Pio quando mi resi conto di essere andata a schiantarmi contro un signore di mezz'età, con il doppio mento stratificato, le sopracciglia folte e il collo di Maurizio Costanzo.
Lui mi fulminò con gli occhi quasi nella speranza di uccidermi, l'allarme nella mia testa s'intensificò.
PIPPOLODOTATO, ATTENZIONE. PIPPOLODOTATO NELLE VICINANZE. ATTENZIONE, CORRERE AI RIPARI, ABBIAMO APPENA TOCCATO UN PIPPOLODOTATO. NECESSARIA DISINFESTAZIONE. NECESSARIA DISINFESTAZIONE.
Non mi rimase che correre.
Corsi via col vento, come Usain Bolt, come Lampa quando vedeva un cane capace di ingravidarla. Non riuscivo davvero a resistere a tutte quelle persone, a tutti quei volti dotati di barba, li sentivo addosso, sulla pelle, e nella mia povera e fragile mente già traumatizzata dalla morte della mamma di Bambi tutto ciò non poteva che farmi del male. Attraversai a perdifiato Corso Vannucci, la strada era lastricata da centinaia di persone: quella era la fase del turismo assiduo a Perugia. Mi ero dimenticata di quel maledetto particolare. In quel periodo dell'anno, infatti, la mia città natale si trasformava in un parco divertimenti per gli stranieri - soprattutto i tedeschi, ma non ne comprendevo ancora un motivo - e tre quarti di loro, con mia somma sfortuna, erano quasi sempre uomini.
Alla fine giunsi a Piazza Italia con l'affanno, convinta di esser sul punto di esplodere. Fissai il piccolo e elegante parchetto che avevo di fronte a me, diviso da alcune stradicciole che si incontravano fra di loro e permettevano un sano riposo agli sconosciuti grazie a delle panchine in ferro. Dietro quella piccola meraviglia in verde, si stagliava l'edificio della Rocca Paolina. Lo avevo visto così tante volte, ahimé, nel corso della mia vita, che ormai potevo dire di conoscerne a memoria i tratti.
Al centro del parco, come sempre, c'era l'inquietante statua di Vittorio Emanuele II, che montava il suo cavallo come Lampa, Ada e Dario montavano insieme un lampadario.
La libreria dentro cui avrei avuto il mio colloquio di lavoro era proprio lì, alla mia sinistra, dietro Piazza Italia. Un piccolo locale dall'aspetto modesto e umile, intrappolato in un edificio antico dalle pareti di pietra e le finestre rettangolari, separato dal parchetto di Piazza Italia solo dalla piccola stradicciola che permetteva ad alcune macchine di accedere al centro di Perugia. La porta in legno, il pomello dorato e la targa "Il paradiso dei libri" mi attirarono come un'ape al suo alveare.
Nel mondo c'erano solo tre cose verso cui sarei corsa per congiungermi ad esse: Alberto Angela, il buscofen durante il periodo di Ugo (il maledetto ciclo) e i libri.
I libri.
Loro erano i miei amanti, i miei più amici più grandi, gli unici amori della mia vita dopo il divulgatore più sexy della storia. Corsi verso quella porta, mi fiondai su di essa nella speranza di ritrovare consolazione e, non appena lo feci, il profumo di pagine stampate m'investì.
Fu come rinascere, evolversi da Pichu a Pikachu.
L'abitacolo della libreria era... piccolo, grazioso, dolce. Le pareti in legno erano rivestite da mobili riempiti da centinaia di opere per cui già stavo sbavando, non un solo centimetro quadro dei muri era lasciato esposto alla luce del grosso lampadario che pendeva dal soffitto. Nell'aria si poteva percepire il piacevole odore di intelligenza e di cultura, la luce soffusa che proveniva dalle finestre penetrava dentro la stanza e illuminava il parquet liscio e pulito, rendendo l'effetto ancor più meraviglioso.
I miei occhi si commossero di gioia non appena vidi di fronte a me, alcuni metri più lontano, delle scale a chiocciola. Quella libreria disponeva di due piani, ciò voleva dire una sola cosa: libri, ancor più libri, sempre più libri. Sarei affogata in essi e sarei morta felice, senza più alcun problema al mondo, stringendo fra le braccia un volume di Pompei e sognando le dolci e candide parole del mio amato.
Inspirai a fondo, avvolgendomi di quella fragranza, scrutando con dedizione tutto quello che mi circondava: gli scaffali riempiti e catalogati per genere e ordine alfabetico, i meravigliosi mappamondi incollati al soffitto, i piccoli tavolini ovali, lasciati qua e là per la stanza per permettere ai clienti di riposare e leggere.
Avevo trovato il mio rifugio sicuro: privo di uomini e di minacce.
Dovevo avere quel lavoro. Avrei fatto di tutto pur di ottenerlo, persino dire quaranta Padre Angela la sera o leggermi tutta la saga di Paper Princess. Quella era un'occasione unica, l'unico mestiere che mi avrebbe impedito di venire a contatto con esseri umani che disponevano di un pericoloso GPS fra le gambe. Gli uomini non leggevano, in fondo, il massimo che sapevano fare era scaccolarsi. E io lo sapevo bene: quando andavo al liceo, ero stata costretta a passare tutto il quarto ginnasio accanto a Fosco Baldoni, un ragazzo con una innaturale dote per reperire pepite d'oro dal suo naso.
Inspirai con forza, più emozionata che mai, finalmente capivo come si era sentito John Snow quando gli era stato detto "tu non sai niente, John Snow". Era così vero, santo cielo, il mio cuore era sul punto di esplodere. Quello stupido organo che pompava sangue si era trasformato in Crilin, e ben presto sarebbe esploso come aveva fatto lui quando il frigorifero dalle labbra viola aveva deciso di ucciderlo.
Un momento.
L'orrore dilagò in me nell'istante stesso in cui percepii il suono dell'esplosione, sostituendo il momento di delirio con puro e assoluto panico. Ero piuttosto sicura che un simile rumore non fosse naturale per il mio cuore, a meno che non stessi per avere un infarto alla veneranda età di ventun anni. Chinai lo sguardo in basso, con la saliva e le imprecazioni sigillate nella gola.
Oh, sacro Angela.
Le mie tette erano esplose, proprio come avevo temuto, per colpa della soffocante stretta di quella camicia che non era in grado di contenere il potere delle mongolfiere. I primi tre bottoni erano scomparsi, spariti chissà dove sul pavimento della libreria, e ora il solco delle gigantesche montagnole faceva ciao ciao con la manina al mondo.
«No, no, no, ti prego, sacro marshmallow, no» sibilai, afferrando disperata i lembi ormai vuoti della camicia e cercando di unirli con la forza della mano. Vista in una simile posizione, sembrava seriamente che stessi per avere un attacco di cuore. «Megera, questa è tutta colpa tua. Spero che Ned Stark ti mandi sulla Barriera. Spero che un branco di colombe ti caghi in testa. Spero che...»
«Cassandra Terensi?»
Quella voce mi silenziò persino l'anima. Sollevai il capo con esitazione, guardando tremolante la figura che si stagliava di fronte a me, vicina alle scale a chiocciola che portavano al secondo piano.
Non avevo mai visto dei capelli così ricci, prima d'ora, se non nel cartone di Candy Candy, di cui ancora dovevo capire il finale.
Una bomba nucleare di riccioli biondi era proprio davanti ai miei occhi, circondava un volto maturo, dalla pelle curata per impedire alle rughe di proliferare prima del dovuto. Gli occhiali a mezzaluna su quel naso aquilino mi indussero a pensare alla versione più hippie e giovane di Albus Silente, e il vestito grigio, dalle maniche lunghe, semplice e privo di fronzoli, non fece altro che reggere quel sospetto.
La donna che avevo di fronte a me era, sicuramente, una coetanea di Megera, ma a differenza di quest'ultima che calcava più il profilo di una cattiva della Disney (solo un mostro avrebbe mai potuto decapitare Ned Stark), la sconosciuta possedeva un'eleganza tutta sua, quasi birbante. Le rughe calcavano gli angoli dei suoi occhi chiari e i lati della bocca carnosa, dipinta di rosa, che si spalancò in un sorriso non appena io annuii: «La nipote di Elsa!» strillò a quel punto la donna, facendomi sobbalzare. «Ho tanto sentito parlare di te, mia cara Cassandra!»
Mi domandai cosa esattamente le avesse riferito mia nonna sul mio conto.
"Cassandra è una psicopatica convinta che io sia un vampiro".
"Ha un altare dedicato ad Alberto Angela".
"È convinta che i piccioni conquisteranno il mondo".
"È terrorizzata all'idea che un tampax possa rimanerle incastrato nel babbà".
"Quando vede un uomo inizia a piangere e a cantare il corano".
"Ogni volta che vede qualche pubblicità su 50 sfumature di Grigio inizia a gridare "CRISTIANO IMPALATORE, CHE TU SIA DANNATO" e frasi simili".
Be', quella era senz'altro una presentazione originale.
«Oh, ma tu guarda!» La donna si avvicinò a me, la punta dei tacchi dei suoi stivaletti in pelle nera risuonò per le pareti della libreria, e l'istante dopo, quando mi abbracciò, io strinsi con più forza i lembi della mia camicia, supplicando la Sacra Vongola Unita di non permetterle di scoprire la Y che portavo incisa sulla zona pettorale. «Sei davvero identica a tua madre! Hai i suoi stessi capelli! E il suo viso! E il suo naso!»
Mi stava analizzando allo stesso modo con cui Dario analizzava il sedere di Ada. C'era un che di inquietante in quegli occhi chiari che mi scrutavano ovunque, ricercando le somiglianze con la mia genitrice. I palmi delle sue mani schiacciarono le mie guance gonfie di grasso e di imprecazioni rivolte a Megera, lo sguardo scivolò di nuovo sul mio mal tagliato caschetto bruno, per poi ridiscendere sulle sopracciglia bisognose di potatura e il naso a punta. «Ho sempre voluto conoscerti, mia cara» aggiunse poi. «Quando ho saputo che cercavi un lavoro non potevo crederci! Elsa mi ha detto che sei una grande amante dei libri!»
Tutta quella familiarità mi era particolarmente sospetta, per non parlare del fatto che odiavo essere toccata. Il contatto fisico era... Brr, inutile, insensato. Preferivo accarezzare un piccione.
Finalmente si staccò, con mio sommo gaudio, e in quel momento ricordai le parole di mia nonna a proposito delle buone maniere. Ero pronta a porgergli la mano destra, quando mi ricordai, appena in tempo, del fatto che la mia camicia si stava dividendo allo stesso modo con cui Mosè aveva diviso le acque e che quella mano mi era necessaria per impedire di esser smascherata. «Piacere» gracchiai alla fine, porgendole la sinistra, «Cassandra.»
«Io sono Rosaberta, mia cara.» La stretta con cui mi sigillò le dita avrebbe potuto distruggere la mano di Hulk, vidi persino il volto di Dio quando sentii la pressione di quella mano addosso. «Vieni pure... Lascia che ti mostri un po' la libreria e ti dica cosa... Un momento, ti fa male il petto, tesoro?»
Maledizione.
Sudai le nuove cascate del Niagara in meno di un secondo.
«No, ho solo... È un simbolo di preghiera!» Il mio cervello ormai aveva deciso: non avrei più avuto dignità umana con cui difendermi. Non riuscivo più a sentire le sinapsi dei miei neuroni, il panico aveva inevitabilmente dirottato i miei pensieri sul treno del disagio mentale. «Serve per... Portare fortuna!»
«Oh!» Le sopracciglia quasi invisibili di Rosaberta si sollevarono in alto, nascoste poi da quei riccioli che avevano subito fin troppe permanenti. «Molto bene, non ti preoccupare. Ad ogni modo, voglio solo farti fare un giro turistico, per il momento.»
Tirai un sospiro di sollievo quando la vidi muoversi verso le scalette a chiocciola, ma la soddisfazione non durò a lungo, perché i miei occhi ricaddero sul suo fisico alto e slanciato.
Non avevo mai visto un sedere così sodo in tutta la mia vita.
Il fatto che la sua proprietaria fosse una coetanea di mia nonna mi portò a farmi domande che mi sarei volentieri risparmiata.
Alla fine, dopo aver annuito fra me e me, mi costrinsi a seguirla, salii le scale lentamente, un gradino dopo l'altro, e supplicai tutti i santi che mai avessi conosciuto di permettere alla camicia di durare almeno per quel colloquio.
Solo per quel colloquio.
Prevedevo tremendi, estremi e traumatici disagi di fronte a me.
Nota Autrice:
Grazie per esser giunti fino a qui! Come sempre, un grosso abbraccio, spero mi possiate dire cosa ne pensate di questa storia!
E... Preparatevi.
Nel prossimo capitolo ci sarà...
Un incontro speciale.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top