Ave, Sacro Alberto Angela!


Era finita per sempre.

Non c'era alcun modo che il mio orribile, terrificante errore potesse essere perdonato. Nessuna confessione al Sacro Marshmallow avrebbe potuto mai smaltire il peso del peccato che mi portavo addosso.

Non c'era più speranza per me.

Ero condannata per sempre, ormai lo sapevo, dall'oltretomba Dante avrebbe preparato solo per me un girone dell'Inferno con una legge del contrappasso estremamente crudele: la mia vetusta anima avrebbe passato il resto dell'eternità dentro una biblioteca che possedeva unicamente libri Harmony.

In altre parole: la dannazione eterna.

Forse, con una cerimonia di purificazione, sarei in qualche modo riuscita a salvarmi dal leggere per sempre quegli orrori, ma dentro di me sapevo - lo sapevo - che me lo sarei meritata. Meritavo molto di peggio, a mio parere, meritavo che qualcuno, proprio come in Arancia Meccanica, mi costringesse a tenere le palpebre spalancate così da farmi vedere sei ore e mezza dei film più dissacranti mai realizzati dal genere umano: la trilogia di Cinquanta sfumature.

Mi sentivo peggio di quando, a dodici anni, avevo involontariamente ucciso il pesciolino della nostra famiglia. Il suo nome era Nemo e io mi ero affezionata a lui dopo aver visto l'omonimo cartone animato. Gli parlavo, lo coccolavo, lo accarezzavo e non avevo vergogna a scaccolarmi in sua presenza: l'intimità che si era creata fra noi due mi permetteva di fare questo e altro. Fino a quando, un bel giorno, non avevo preso l'insana decisione di voler portare la nostra relazione da livello "amanti ma non troppo" a livello "condivisione assidua del letto e della bava". Ero andata a dormire insieme a lui, avevo messo la boccia in vetro sopra il materasso e mi ci ero sdraiata accanto, pronta per sussurrargli, durante la notte, la frase più sconcia che potesse mai venirmi in mente vista e considerata la mia particolare fobia, ovvero:

"Sei l'unico pesce che accetterei nel mio letto".

Inutile dire che fine aveva fatto, una volta che mi ero addormentata e avevo iniziato a fare la spiritata sotto le lenzuola.

Non mi ero mai ripresa dalla morte di Nemo. Nemmeno l'arrivo di Nemo 2.0 era riuscito a chiudere quel buco nel cuore, così come quello di Nemo 3.0, o di Nemo 4.0. Covavo una speranza per Nemo 5.0, tuttavia, era bravo a farmi ridere con la sua faccia da pesce morto.

Tuttavia, ora, mi sentivo ancor più in colpa di quando mi ero peccata del crimine di omicidio. Avevo commesso un reato ben peggiore, un reato che, un giorno, l'ordinamento giuridico italiano avrebbe reso illegale in qualsiasi regione della nostra nazione. Avrei voluto fare harakiri dentro la mia stanza, espiare i miei peccati con la flagellazione della lettura costante e ripetitiva dei libri di Moccia e Volo.

Avevo peccato di hybris, come quel rincitrullito di Agamennone e ora niente e nessuno avrebbe potuto salvarmi dall'ira di un dìo furibondo che avrebbe ucciso il mio bestiame.

Lacrimoni giganteschi cadevano dai miei occhi, mentre, sofferente, mi stringevo nel mio pigiama da unicorno. L'oscurità della mia camera da letto non bastava per nascondere i singhiozzi da maiale che uscivano dalla mia bocca, a causa del pianto generato dall'orrore che avevo creato con le mie stesse mani.

Lo avevo fatto per davvero.

Non c'era modo che potessi esser perdonata.

Non c'era modo che potessi esser perdonata da lui.

Il Sommo.

Il Santo.

Il Gloriosissimo.

Alberto Angela.

Avevo tradito lui, il mio amato. L'unico uomo al mondo a cui mai avrei stretto la mano, l'unico essere dotato di pippolo che mi aveva portata a credere che forse non tutto il genere umano maschile meritava l'estinzione annegando dentro lo sterco di vacca.

Come avevo potuto? Come mi ero permessa? Eppure, la notte prima, ero stata così attenta a impostare la sveglia per poter guardare in prima visione la meraviglia delle meraviglie, l'atto di divulgazione più romantico, eccitante e profondo mai creato da Dio.

Avevo perso l'ultima puntata di Ulisse.

Io, Cassandra Terensi, presidentessa del FanClub "Pippoliamoci Alberto", vicesegretaria della setta segreta "Testimoni di Angela", famosa nel regno animale, minerale, vegetale e celestiale per conoscere a memoria ogni sua intervista e puntata, avevo appena perso Ulisse, il mio amato, a causa di uno stupido colpo di sonno.

Il muco colò dal mio naso come una diga esplosa mentre dai miei occhi continuavano a sgorgare lacrime su lacrime, l'oscurità della mia camera sembrava non bastare per farmi sentire accolta e perdonata. Di fronte a me, il gigantesco poster di Alberto Angela, appeso alla parete opposta del letto, mi scrutava dalla sommità della sua intelligenza per ricordarmi che sì, addormentarsi era normale e sì, non era la fine del mondo, ma dentro, lo sapevo, lo avevo ferito nel profondo, nell'orgoglio.

Avevo ferito il mio amato. Non ci potevo credere. Avevo appena tradito la fiducia dell'unico uomo al mondo a cui avrei stretto la mano senza farmi venire l'orticaria, l'unico uomo al mondo di fronte alla quale non sarei scappata via supplicando Madre Teresa di farmi un rituale di purificazione.

Un boato disumano si levò dalla mia bocca per colpa di un singhiozzo e si ripercosse fra le pareti bianche della mia stanza. Quando caddi dal letto per via del troppo dolore, la mia schiena andò a sbattere contro un pavimento di libri, le copertine dure mi colpirono sull'osso sacro e già immaginai una vita intera passata su una sedia a rotelle come Bran Stark.

L'uscio della porta si spalancò, rivelando la luce, che andò ad abbagliare ogni cosa del mio cunicolo dentro cui, da molti anni a quella parte, mi ero rifugiata. La manina di un mostro sbucò fuori dalla porta e si mosse lungo la parete bianca al suo fianco, chi diavolo poteva essere? Un assassino? Un serial killer? Un testimone di Geova?

«Cassie, la nonna ti vuole... perché stai piangendo? Che è successo? Non sei di nuovo riuscita a scaccolarti con la lingua?»

La voce piccola e acuta della mia sorellina mi ridestò dall'agonizzante dolore da cui ero stata avvolta. Sollevai lo sguardo dalla marea di libri che mi si stagliavano davanti e incrociai quello piccolo e inquietato di Patrizia, una giovane quindicenne già pronta per andare a scuola, che mi fissava dall'alto del suo metro e cinquantacinque con occhi pieni di orrore.

Non capivo proprio cosa, in ciò che vedeva, la scandalizzasse così tanto. Non c'era nulla di cosi spaventoso nel mio pigiama da unicorno, nel mare di libri che aveva nascosto ogni centimetro quadro del pavimento, nei poster di Alberto Angela appesi un po' ovunque su tutte le pareti e nella gigantesca scritta che avevo dipinto in alto, vicino al soffitto, e che annunciava la sola e unica verità della mia vita: "Gli uomini sono come i panzerotti al forno piuttosto che fritti: falsi".

«Ho perso...» singhiozzai, asciugando il muco con la manica del mio pigiama arcobaleno, Patrizia mostrò un'espressione di profondo disgusto non appena lo feci. «Ho perso... sniff... l'ultima... sniff... puntata... di... Ulisse...»

Il volto paffuto della mia sorellina si fece più perplesso. Le guance gonfie si incunearono con la sua smorfia disperata, gli occhi nocciola si riempirono di quella tipica espressione che voleva dire "oddio, mia sorella ha bisogno di un TSO". Negli ultimi anni aveva iniziato a riservarmela spesso, senza che ne fossi mai riuscita a comprendere il motivo.

Patrizia serrò le palpebre, chiuse gli occhi per qualche secondo e quasi parve dover contare per mantenere un'espressione severa. Davvero, non riuscivo a capire! Non c'era nulla di più tragico di quel momento! Stavo per rischiare di passare il resto della mia eternità a leggere libri di Moccia e Volo, come poteva pensare, anche solo lontanamente, che quella non fosse una situazione di pericolo?

«Non le registri sempre per sicurezza?»

«Sì, ma ho perso la prima visione!»

L'espressione di mia sorella si tramutò, assumendo lo sguardo con cui molto spesso voleva dire "aiuto, sono imparentata con una psicopatica assassina che odia gli uomini".

«Senti» mormorò invece, schiarendosi la gola e fissando con sospetto l'enorme peluche a forma di panda pirata vicino all'ingresso della camera. Quel peluche era meraviglioso, aveva un cappello di paglia sopra la testa e un'ascia con cui infilzava la gigantografia di quello che era stato il mio primo amore, ora condannato a morte per via del crimine di essere un uomo: Ash Ketchum, «la nonna dice che vuole parlare con te.»

Oh no.

Oh merda.

Quando La Regina ti chiamava dalla tua stanza non potevi mai prospettarti nulla di buono per i prossimi dieci anni. Mentalmente feci un conto di quanto potessero costare dei biglietti per fuggire in Alaska, uno dei pochi Stati, ne ero sicura, che possedeva una quantità piuttosto esigua del genere maschile. 

Avrei potuto fuggire lì e passare il resto dei miei giorni cavalcando orsi alla ricerca del fantasma di Balto. Sarebbe stato senz'altro meglio che dover affrontare Megera e il suo maledetto tono da comandante con cui, ogni volta, mi ricordava che non era normale fingersi un'eremita nella propria stanza per poter passare da sola del tempo con un uomo che neanche sapeva della mia esistenza.

Fandonie! Menzogne!

«No» aggiunse a quel punto mia sorella, mentre mi sporgevo per iniziare a cercare il cellulare nascosto sotto qualche pila di libri. «La nonna dice che è inutile che cerchi qualche biglietto aereo con cui scappare, perché non abbiamo neanche i soldi per comprarci la dignità, e quei pochi che ci rimangono non li useremo certo per farti fuggire in qualche posto sconosciuto solo perché tu hai una fissa con il voler addomesticare gli orsi polari per poter sbranare la gente che ti sta sulle ovaie.»

Maledetta Megera, aveva già intuito il mio piano. Donna crudele e sadica!

«Patri» la chiamai a quel punto, sollevandomi da terra stringendo fra le braccia un libro sull'Antica Roma scritto, ovviamente, dal mio amato. «La nonna sembrava tanto incazzata?»

«Se con incazzata intendi una donna che non sa più cosa fare con la nipote maggiore e si domanda in quale strano luogo quest'ultima abbia sbattuto la testa durante la nascita allora sì, la nonna è incazzata.» Il volto di mia sorella era impassibile, nonostante la mia espressione di puro terrore. Aveva ereditato tutta la crudeltà dell'Arpia, purtroppo per lei. «Ha detto che ti aspetta in cucina» aggiunse poi. «E che se osi presentarti di nuovo evocando la protezione del Sacro Angela ti butterà definitivamente dalla finestra come avrebbe dovuto fare quando da bambina hai provato a costruire una fionda con cui scagliare le tue caccole a chi ti stava sulle palle.»

«Era una fionda di tutto rispetto!» esclamai. «E faceva il suo lavoro come mi aspettavo!»

«Dio» mormorò Patrizia, massaggiandosi le tempie. «La nonna ti aspetta, sbrigati ad arrivare. E non osare portare con te quella maledetta collana d'aglio che impuzzisce tutta la camera. La nonna non è un vampiro.»

«Questo è quello che ti vuole lasciar credere.»

La porta si richiuse senza dare altre risposte, lasciandomi nella desolazione perenne. Ebbi l'improvviso impulso di lanciarmi da qualche finestra e farmi trasportare via da un esercito di colombe, sarebbe stata sicuramente un'uscita di scena degna di un film da premio Oscar. Si potevano addestrare delle colombe affinché defecassero sulla testa di Megera? Avrei dovuto cercare su internet.

Mi sollevai da terra lentamente, il corpo ancora dolorante a causa degli acciacchi provocati dalla caduta, scossi la polvere che era rimasta intrappolata nel tessuto morbido del mio pigiama a tuta e mi ritrovai a chiedermi, all'improvviso, se indossarlo avrebbe potuto prima o poi conferirmi per davvero i poteri di un unicorno volante. 

Era giunta la fine. Sapevo che, prima o poi, quel giorno sarebbe arrivato. Il giorno in cui la Regina, Megera, non avrebbe più tollerato la mia presenza in casa. Mi domandai cosa l'avesse fatta scattare, stavolta. Forse il fatto che non uscivo di casa praticamente mai? O che avevo ordinato un set completo di pigiami a forma di animale? O che dal piccolo balcone della mia stanza avevo informato educatamente il postino che se non fosse sparito entro tre secondi gli avrei fatto esplodere i testicoli grazie a una maledizione siciliana? O, ancora, che avevo comprato un libro dal titolo "come schiavizzare la propria famiglia e vivere felici?". O forse quando avevo insultato il suo amato Rodolfo Valentino? Quello che lei definiva l'attore più grande della storia e che io invece snobbavo come un tipo muto che scambiava a caso saliva con le donne?

Le domande erano troppe, le risposte inesistenti. Mi avvicinai alla porta e, dopo aver ripetuto il mio mantra quotidiano per calmarmi (Padre Angela, che sei nella divulgazione, sia santificato il tuo intelletto), spalancai l'uscio, ritrovandomi davanti al piccolo salotto del nostro trilocale affittato. 

Deglutii rumorosamente alla vista di ciò che avevo davanti. Lo stretto salone era come al solito più pulito che mai grazie ai vari deliri ossessivo compulsivi di Megera, che vedeva negli acari della polvere il nemico più mortale dopo coloro che ripudiavano l'utilità del bidet. Lei era seduta comodamente dietro il rotondo tavolino in plastica azzurra che avevamo comprato all'Ikea durante il periodo degli sconti e che, da otto mesi a quella parte, era diventato il luogo in cui consumare i nostri pasti. Attorno, le pareti bianche della casa sembravano volermi soffocare e ridere della tortura che ben presto avrei affrontato, persino i nostri tre cani - Lampa, Ada e Dario  - mi sguazzavano vicino senza alcun problema al mondo, scaccolandosi come solo tre bastardini potevano e fissandomi dal basso della loro onnipotenza.

Sui fornelli una pentola aveva iniziato a far bollire l'acqua, Patrizia fu colei che decise di muoversi per calare la pasta dove aver buttato chili di sale in precedenza. La situazione non era decisamente delle migliori, c'era palese tensione nell'aria e nella mia testa qualcuno aveva fatto partire la colonna sonora di Shining.  

Megera era seduta compostamente dietro il tavolo, indossava il vestito elegante e floreale che portava addosso da tutta una vita, nel mero tentativo di mascherare la nostra palese povertà ai livelli di Candy Candy e Dolce Remì messi insieme. Odiavo ammetterlo, ma pur disponendo nel portafoglio solo soldi immaginari, Elsa la Strega era sempre rimasta impeccabile sia di aspetto che di carattere. I capelli castani e striati di bianco erano stati legati in un'attenta crocchia realizzata con l'elastico con cui da bambina lanciavo le caccole e con la penna che, invece, Dario aveva provato a usare come cotton-fioc per le orecchie. Mi chiesi se fosse consapevole di tutto ciò, ma preferii non fare domande.

«Cassandra» Non appena sentii la sua voce rauca il mio intero corpo sussultò e il mio sguardo si rivolse fuori, alla finestra che si spalancava proprio sopra i fornelli dove mia sorella ora stava cucinando. Il cielo era così bello, le nuvole così morbide... quante possibilità avrei avuto di far cadere un aeroplano proprio sulle nostre teste? «Cassandra, non vagheggiare di nuovo con i tuoi pensieri deliranti e siediti, per favore.»

Mi misi a sedere il più possibilmente lontano da lei, su una delle sedie portatili che si aprivano e chiudevano e che scricchiolavano a ogni battito di palpebre. Il fatto che Lampa, poi, avesse improvvisamente deciso di stuprare il mio piede non aiutò certo a risollevare la tensione che si era creata nella nostra piccola casa. Forse da un'unione del genere sarebbe nato Piedino, della Valle Incantata, ma dubitavo che  a Megera avrebbe fatto piacere dover educare un dinosauro, quando affermava ripetutamente che crescere me era stato tre volte peggiore.

«Cassandra.»

Era la terza volta che mi chiamava per nome, ciò mi fece ghiacciare il cuore dall'ansia. Nonna Elsa aveva una scaletta con cui ripetere i nostri nomi, direttamente proporzionale al livello di rabbia che aveva accumulato dentro.

Cassandra = rabbia limitata, sgridata acuta da gallina che sta deponendo un uovo, facilmente sedata con una semplice tazza di camomilla.

Cassandra, Cassandra = inizio della fase nevrotica da sessantenne con l'artrosi, attimi di panico in cui iniziava a chiedersi urlando come potesse sua nipote tentare di abbracciare il poster di Angela mentre dormiva, la sedazione stavolta sarebbe stata più dura: necessità di due tazze di camomilla e di biscotti pieni di uva passa.

Cassandra, Cassandra, Cassandra = apocalisse, ormai non c'era più niente da fare, la follia l'aveva resa estremamente lucida e fredda, non provava più niente se non un incredibile disonore nei confronti della sua nipote maggiore. La pazzia le aveva fatto raggiungere gli apici del nirvana e niente e nessuno avrebbe potuto fermare la sua spietata ascesa per distruggere il regno di noi mortali.

«Nipote» sussultai e mi ripresi dallo stato di shock, con in testa ancora l'immagine di mia nonna vestita da Regina Elisabetta mentre rideva di noi tutti grazie al super potere dell'immortalità. «Ho tollerato a sufficienza la tua follia, ormai.»

Follia? Di cosa stava parlando? Stava per caso tentando di dirmi che ero una pazza? Perché? Certo, avevo le mie stranezze, ma niente che non potesse esser considerato al limite del normale. Chiunque aveva un personaggio che amava alla follia come io amavo Alberto Angela, come, ad esempio, le fan di Cristiano Malgioglio o di Rocco Siffredi. «Non esci di casa praticamente mai, hai rinunciato agli studi, te ne stai sempre chiusa in camera a leggere e guardare quei maledetti documentari...»

«Sono documentari istruttivi!» ribattei, piccata. «Molto istruttivi! Altre nonne pagherebbero per avere una nipote come me!»

Gli occhi azzurri di nonna Elga si tramutarono nell'iceberg che aveva distrutto il Titanic, le rughe sul suo volto magro si accartocciarono di ira mentre le labbra sottili e tinte di rosso si stringevano in una smorfia piena di rimproveri. Ada, in lontananza, iniziò a scodinzolare ai piedi di Patrizia, nel disperato tentativo di ottenere la sua pappa, mentre gli altri suoi due compagni ripresero lo stupro da gang dei miei piedi. «Quale nonna pagherebbe per vedere la propria nipote documentarsi su come lanciare maledizioni al genere maschile o su come addomesticare i propri cani a dilaniare gli apparati genitali degli uomini?»

Come aveva fatto a scoprirlo? Eppure ero piuttosto sicura di aver nascosto a sufficienza le prove dei miei reati. Oddio, aveva chiamato la polizia postale? Ciò significava che ben presto sarei stata arrestata e avrei passato il resto della mia vita in carcere? Be', poco male, le prigioni erano unicamente femminili, al massimo avrei condiviso la camera con qualche donna serial killer, tremila volte meglio che incontrare pippolo dotati che disponevano di quel pericoloso marchingegno fra le gambe. «Lo sai che la nostra situazione economica è sul lastrico, eppure ti rifiuti di rendertene conto e consumi i pochi soldi che abbiamo in sciocchezze...»

«Non sono sciocchezze!»

«Davvero? E il pigiama da unicorno che stai indossando?»

«È magico! Mi protegge dall'energia negativa del mondo!»

«E l'asta acchiappa tutto che usi per afferrare gli oggetti lontano da te così che non ti debba alzare dal letto?»

«Un ottimo strumento per quando voglio riposarmi e cercare un libro.»

«Cassandra Terensi!» tuonò lei, e sia io che Patrizia rischiammo di farci venire un infarto. Quest'ultima per poco non fece cadere la pentola piena di pasta per terra, sopra la testa innocente di Ada, troppo intenta a farsi il bidet con la lingua per rendersi conto della situazione che si era creata in casa. «Sono stanca, stufa dei tuoi comportamenti. Ho provato in ogni modo ad aiutarti: mandandoti dallo psicologo, parlando con te, cercando di capire cosa ti spaventi così tanto del mondo, ma niente, tu ti rifiuti! E io non ho intenzione di morire vedendo la mia nipote maggiore consumare la propria vita dietro il poster di un uomo che non conoscerà mai!»

Queste erano parole dure e crudeli, da parte sua, che rischiarono di portarmi sull'orlo delle lacrime.

«Hai ventidue anni» aggiunse poi. «È giunto il momento che anche tu sostenga economicamente questa famiglia. Perciò, d'ora in poi, inizierai a cercare un lavoro con cui aiutarci a continuare ad andare avanti.»

Se mi avesse fatto una lobotomia sarebbe stato decisamente meno doloroso. Sgranai gli occhi e balzai in piedi con una furia imprevista che spaventò Lampa e Ada. Quest'ultime si allontanarono dai miei piedi, ferite di non aver potuto procreare come avrebbero voluto, mentre io sbattei le mani sul tavolino. «Mi rifiuto!» gridai. «Se dovessi andare a lavorare, allora incontrerei sicuramente degli uomini!»

«Per l'amor del cielo, Cassandra, gli uomini non sono radioattivi!»

«Certo che lo sono! Sono pericolosi! Non hai visto le ultime statistiche? Il pericolo più mortale per noi donne sono proprio i maschi! Sono pericolosi! Puzzano! Non si lavano! E sono sicura che dopo aver scoreggiato annusano l'aria per sentire l'odore del loro peto!»

Patrizia si strozzò con la saliva, sembrava sul punto di scoppiare in una fragorosa risata. Non ne comprendevo il motivo, ero mortalmente seria. 

«Mio Dio...» Nonna Elsa si massaggiò le tempie, allungando i suoi occhi fino a sembrare il nuovo Jackie Chan in versione siciliana, vecchia e stronza. «Dove ho sbagliato? Forse avevo ragione a sospettare la necessità di un esorcismo, quando sei nata. Perché non ho seguito quel pensiero?»

Era davvero imbarazzante venir paragonata alla bambina pisciona del film L'esorcista, era vero che da malata il mio aspetto era piuttosto imbarazzante, così com'era vero che l'ultima volta che avevo vomitato, dal balcone della mia stanza, avevo sfortunatamente beccato in pieno la testa di una signora che passava da quelle parti, ma da qui a dirmi che necessitavo dell'intervento di un prete - un uomo!!! - per poter sistemare i miei problemi ne passava di acqua sotto i ponti.

Era per questo che avevo sempre sostenuto la creazione del PB, il partito a sostegno della Popolazione Brutta: per poter penalizzare chi, come Megera, sminuiva e maltrattava le figure di noi sfigati nati nella bruttezza e cresciuti nella bruttezza. 

«Cassandra» mi richiamò di nuovo, intrecciando le dita delle mani e posando i gomiti sul tavolo. «Non mi ripeterò due volte: da oggi stesso tu inizierai a cercare un lavoro, se non lo troverai sappi già che ogni cosa in tuo possesso - libri, gadget, film - sarà revocata a tempo indeterminato insieme, ovviamente, al tuo televisore.»

«No!» esclamai. «Non puoi farmi questo! Quei libri sono miei! Non puoi portarmi via Harry Potter, Percy Jackson, Hunger Games... gli amori della mia vita, solo perché sei più fredda di un polaretto e più crudele della signorina Trinciabue in Matilde, sei mitica!»

Patrizia stava ridendo così tanto da trattenersi la pancia: davvero, cosa c'era di divertente in tutta quella situazione? Stavano minacciando di portarmi via tutto ciò che possedevo, inclusi i meravigliosi e deliziosi documentari di Ulisse dove potevo sbavare quotidianamente e trovare un senso a tutta la mia vita! Quale adolescente crudele avrebbe potuto ridere in quel modo della mia sfortuna? Ero finita in una famiglia di mostri! Assassini di cuori! Serial killer di speranze!

«Non accetterò rifiuti, ragazzina» sentenziò alla fine nonna. «O lavorerai o potrai dire addio al tuo amato Angela. Scegli.»

Dentro di me, il malloppo che si era creato già nel cuore dopo aver perso la prima visione di Ulisse non fece altro che aumentare e aumentare fino a far esplodere i miei polmoni. Mi domandai se, in questo modo, avrei comunque potuto donare i miei organi, qualcosa ne sarebbe rimasto, no? Forse avrei dovuto specificare che avrei concesso ogni cosa solo a un'altra donna, sempre che questo fosse possibile. Ma una cosa, una sola cosa era certa:

Per me, ormai, era giunta la fine.

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