4. PREGHERIA AD UNA STREGA (1/3)
4. PREGHIERA AD UNA STREGA
Tornavo da mio padre quella notte, camminando quello scarso chilometro che divideva me da Oliver, con la camminata a papera che tenevo dopo un sano rapporto sessuale e ascoltando i Radiohead dal cellulare con le cuffie.
Continuavo a chiedermi se fossi io la marionetta in quella relazione, perché di fondo un carattere mio non lo avevo mai conosciuto prima di Oliver.
Oliver mi aveva mostrato la me amata e innamorata, la me vogliosa, la me giocosa, la me sorridente e tante altre me.
Ma ero davvero questa Lamia io? Io che avevo due nomi: Aurora, quello datomi alla nascita, e Lamia, il mio soprannome che mai avevo capito.
'Lami, Lamia, Lamù, Là...' sì Lamia, non voleva dire niente eppure tutti erano abituati a chiamarmi così sin da piccola.
Nonostante il venticello era una sera di Marzo primaverile, il freddo se n'era andato ed io riuscivo a passeggiare con un leggero giubbino in jeans.
Giungevo in quel punto del percorso, la strada si oscurava perché i lampioni sparivano, sopra di me un ponte di mattoni con una pista ciclabile che spariva divorata dalle case intorno.
Alberi, tanti alberi mi circondavano; infine andava superata la solita curva, quella a duecento metri dalla pista ciclabile, con l'asfalto che scompariva diventando un tutt'uno con le tenebre.
Una volta entrata in quell'ombra solo se c'era una bella luna capivo dove camminare, perché il fiume a lato della carreggiata specchiava la luce bianca del satellite.
Il suono delle foglie mosse dal vento lentamente diminuiva, perché dopo la curva la boscaglia terminava, e qualche passo più avanti compariva finalmente un lampione.
Odiavo quel lampione, rubava la bellezza di tutta quella via, perché anche io mi nascondevo nella tenebra, sentendomi protetta e sollevata.
Giusto di fianco alla curva vi era un ponticello in legno, non del tutto stabile ma certamente pittoresco.
Qualche volta mi mettevo lì a osservare le increspature dell'acqua – che a malapena si riconoscevano con quel buio – respirando la notte stessa dentro di me.
Quel giorno sarebbe stato inutile fermarmi, la luna non si vedeva e senza la sua luminosità i movimenti dell'acqua si sarebbero resi impossibili da guardare.
Superavo le ultime foglie, inoltrata ormai nel nero di quella zona, ma riconoscevo il loro suono affievolito, quando un passo, un piede poggiato con prepotenza al suolo, quel rumore disturbante, mi assalì.
Qualcuno o qualcosa mi rapì trascinandomi verso il ponte di legno, mentre io soffocavo le mie grida nella sua mano che mi tappava naso e bocca.
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