𝚝𝚑𝚎 𝚝𝚑𝚒𝚗𝚐𝚜 𝚠𝚎 𝚜𝚑𝚊𝚛𝚎𝚍

[she/her]

➭ ✧❁ SMUT ALERT

➭ ✧❁ come ho detto nel capitolo precedente kenma è biologicamente femmina, quindi non vi fate prendere dal panico se non ci sono come dire attributi genitali maschili perchè that's not the case

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Chiudo la portiera della macchina con un tonfo, nell'aria mattutina di questo fatidico sedici di Ottobre.

Sposto la mano e la carrozzeria si muove con me, fa un rumore sordo, attutito, forte ma non assordante, poco distante da me.

Il cielo minaccia pioggia, l'aria è ferma ma fredda, rimango in piedi sull'asfalto a guardarmi attorno.

Sembra fermarsi.

Tutto sembra fermarsi.

Mi sembra, per un istante, di rimanere sospeso nello spazio e nel tempo, circondato dal silenzio tombale di un quartiere residenziale che non reagisce ma sta zitto, nel mattino di un sabato come un altro.

Ho scelto deliberatamente di fare schifo.

Quasi una settimana fa, ho scelto di fare schifo.

E lo faccio, schifo.

Ma nonostante sia per definizione grigia, questa giornata, mi sembra che da quando ho capito e ho scelto e compreso di fare schifo, nessuna tonalità di grigio abbia più invaso la mia visuale.

Anzi.

Non ero così... emozionato all'idea di fare qualcosa da anni.

Sono felice, impaziente. Mi scintilla il sangue nelle vene, davvero, scoppietta e brilla al solo pensiero di quello che sta per succedere, danza dentro di me, mi fa sentire...

Vivo.

Mi fa sentire vivo.

Mi sento vivo.

E mi sento davvero molto bene.

Ho detto a Maeko che sarei andato a partecipare ad una conferenza ad Osaka, oggi. Le ho detto che sarei partito la mattina, che non sapevo a che ora sarei tornato, che non avrei avuto tanto il telefono a tiro, di non preoccuparsi.

Sono andato a comprare il regalo per Kenma la sera stessa che abbiamo convenuto che far schifo insieme è meglio che far schifo da soli.

Sono uscito da lavoro, ho guidato fino a casa sua perché non dovesse prende la metro, poi sono andato verso il centro, verso la gioielleria dove ho comprato a Mae tutti i regali dell'ultimo mese e mezzo.

Io...

Il sorriso, mi sono immaginato il suo sorriso. Mi sono immaginato il modo in cui mi avrebbe ringraziato, come sarebbero brillati i suoi occhi.

E ho scelto, sorridendo, qualcosa che non avrei dovuto comprare.

Ho la busta in mano, per un istante ancora non mi muovo.

So che cosa mi attende.

So a che cosa vado incontro.

E non me ne pento, perché oramai quel ch'è fatto è fatto, e pentirmi di far schifo dopo averlo fatto per tutta la vita, non serve davvero a nessuno.

Chiudo la macchina, metto le chiavi nella tasca sul retro, m'incammino sul marciapiede con nessun rumore attorno che non siano i miei passi sull'asfalto.

C'è silenzio.

Come se stesse per scatenarsi la più imprevedibile delle tempeste.

Ma la tempesta c'è già, ed è di fatto imprevedibile, non fa altro che aspettarmi dietro la porta di una villetta a pochi metri da me.

Mi ha detto che questa era casa di sua zia. Che non la usava più nessuno e che aveva fatto di tutto per farsela dare una volta iniziata l'Università. I suoi vivono lontani dalla scintillante Tokyo, ma gliel'hanno permesso, ed è in un quartiere residenziale della periferia, in una casa per famiglie, che ora sta Kenma, mentre studia.

Sapevo dov'era questo posto, ho guidato fin qui più di una volta.

Ma non sono mai entrato.

Non mi sono mai permesso di percorrere questo pezzo di strada a piedi.

Ora...

Ora invece sì.

Perché ho deciso che niente può fermarmi e che tanto la mia vita è già a pezzi, se devo rovinare tutto quello che ho costruito per anni, almeno che io lo faccia bene.

Sento il telefono vibrare nella tasca e so che è un messaggio da parte sua che mi chiede dove sia, ho avvertito che sarei arrivato a breve, ma lo ignoro, tanto manca poco, pochissimo.

Mi manchi.

Non vedo l'ora di vederti.

Non vedo l'ora di chiudermi con te in un posto dove non ci vedrà nessuno.

Non vedo l'ora di dirti quanto felice io sia che, diciannove anni fa, qualcuno ti abbia messo al mondo. Perché sono felice, lo sono, e sono grato del fatto che tu, ora, tu sia qui con me.

Vedo l'ingresso e il numero civico, la cassetta strabordante di lettere, le tapparelle abbassate, il minuscolo giardino davanti lasciato a se stesso.

Vedo l'etichetta attaccata sopra il campanello, gli stivali da pioggia lasciati a fianco del portone, l'ombrello, la bici legata al porticato.

Vedo me stesso, riflesso nella finestra chiusa, che cammino nel silenzio tombale della mattina verso casa sua, e vedo il mio viso, che è inequivocabilmente sorridente, nonostante il senso di colpa, nonostante tutto.

Chissà se hai fatto la doccia, chissà cosa hai indosso, chissà se hai comprato la torta. Chissà se ti piacerà il regalo, chissà se mi ringrazierai con un sorriso a trentadue denti o se lo farai in quel modo timido e un po' scorbutico che hai qualche volta, chissà...

Impaziente.

Sono obiettivamente impaziente.

Pensarci mi fa un effetto un po' strano.

Il giorno in cui nascevi, diciannove anni fa, io... facevo il secondo anno del liceo. Fra un mese avrei fatto diciassette anni, già amavo la Chimica, giocavo a pallavolo nella squadra scolastica e ascoltavo solo rock emo alternativo nascosto in camera mia come il ragazzino scemo che ero.

Ora...

Dio, è strano davvero.

Ora sono una persona completamente diversa.

Chissà se ti sarebbe piaciuto anche quel Kuroo Tetsurō.

Era un po' meno sicuro di sé di come non lo sia adesso, ed era più esile e meno alto, con le spalle un po' più magre, il viso un po' più morbido, la voce meno bassa. Però credo di poter dire fosse uno stronzo anche allora, nonostante la facciata simpatica, uno stronzo che adoravano tutti, pur sempre uno stronzo.

Al liceo sarei impazzito per te.

Ma lo sto facendo di meno adesso?

Forse è solo come siamo fatti.

Forse è quello.

Forse c'entra un po' l'età nella misura in cui trovo il tuo corpo invitante per le tue consistenze, la morbidezza della tua pelle, il sapore, l'aspetto che ha. Forse un po' mi hai conquistato perché avevi la metà dei miei anni e come ogni viscido che si rispetti ho sbavato appena ho visto quanto bello fosse un corpo... più giovane.

Ma non è l'unica cosa.

Anzi, non è la cosa più importante.

Credo che sia tu, la cosa importante.

E che forse ci sia, dentro di noi, qualche minuscolo elemento che renda noi... noi.

Forse siamo fatti per noi stessi, Kenma?

O forse sono solo io che vaneggio, perché sono impaziente come non lo sono stato mai e perché non vedo l'ora di vederti, con le tue gambe sottili, le labbra rosa e gli occhi enormi, come faccio ogni singolo giorno della mia vita.

Supero l'ingresso.

Arrivo di fronte alla porta.

Appoggio l'indice sul campanello, non faccio in tempo a sentirne il suono oltre il legno che mi separa dall'interno della casa che si spalanca, completamente, e il mio cuore si ferma un istante, prima di ricominciare a battere, quando la creaturina di fronte a me mi si para davanti, le unghie fra i denti, le gambe che un po' tremano, l'espressione indifesa, quasi, e un po' ansiosa.

Io...

Ha un paio di calzini pelosi.

Davvero, un paio di calzini bianchi pelosi che le raggiungono e superano le ginocchia, con l'elastico in cima, che stringe la carne e la fa rientrare un po' verso l'interno in un modo... ipnotico, sì, ipnotico.

È vestita da casa.

Un ammasso di elementi che quasi cozzano assieme, ma che nel complesso è... dolce, carino, adorabile come lei.

Un vestitino nero che sembra una canottiera lunga, di cotone, cortissimo, una felpa un paio di taglie più grande aperta, i calzini pelosi, i capelli legati, completamente, assolutamente struccata, con gli occhiali addosso, incastrati sul ponte del naso.

Bellissima.

Tu sei... sei...

Mi guarda.

Anche lei mi guarda.

Non ho messo niente di che, so che saremmo rimasti in casa, non ho pensato d'indossare niente che fosse elegante, niente che fosse formale. Io, i miei pantaloni della tuta, la mia maglietta a maniche corte perché non patisco il freddo, le Converse, la bustina del regalo.

Continua a mordersi le unghie.

Passa un istante che sembra un'ora.

E poi apre bocca, piano e delicatamente nel silenzio del mattino.

– Sei venuto vera... –

– Tanti auguri, Kenma. –

Si blocca.

Mi guarda negli occhi.

È più bassa, senza le scarpe.

La sommità della sua testa sfiora in altezza il centro del mio petto, deve piegare la testa indietro per guardarmi, ed è così piccola, così esile, così minuta.

– Grazie. – mormora.

Rimaniamo fermi, all'ingresso di casa.

Io...

So cosa voglio fare.

So esattamente cosa voglio fare.

E lancio fuori dalla finestra qualsiasi singolo istinto di autoconservazione morale, quando lo faccio.

Le prendo una guancia con la mano, mi chino, mi abbasso finché non sono a livello del suo viso, appoggio le labbra sulle sue, ascolto il rumore umido del bacio che le sto dando che squarcia il silenzio tombale.

Non mi respinge ma rimane ferma.

Come se avesse paura di fare qualsiasi cosa.

Ferma immobile con le braccia lungo il corpo mentre la bacio.

Non si muove nemmeno quando mi stacco.

Rimane solo, intimorita da non so cosa, a fissarmi, con le guance rosse e i denti che ora martoriano il suo labbro inferiore, invece che le dita.

Prendo fiato.

– Sono felice di essere qui, sono così felice. Mi sei mancata. Sei... sei sempre bellissima. –

E la sua faccia diventa di fuoco quando sente le mie parole, forse l'insicurezza scompare, perché prende una delle mie mani con entrambe le sue, mi tira dentro e chiude la porta, prima di spiaccicarsi completamente contro di me e stringermi forte, fortissimo, come se volesse scomparire dentro al mio corpo.

Trema fra le mie braccia e mi rimane addosso, in silenzio, e io sorrido, dentro casa sua, con tutto quello che non dovrei volere ma che voglio addosso a me, in un formato piccolo, esile e delicato.

Non si stacca.

Ma...

Sono io ad allontanarla, con una mano sulla spalla e una a lato del viso.

Ha la faccia... rigata di lacrime.

Sorride, anche.

Sorride.

– Sei... venuto davvero. Sei qui. Io non ci credo, sei... qui con me. Sei davvero qui con... –

Sorrido anch'io, nel modo più dolce e rassicurante che posso.

– Certo che sono qui, non vorrei essere da nessun'altra parte, ssh, non piangere, non piangere, non c'è bisogno di piangere, sono qui, non me ne vado. –

Mi stringe il cotone della maglietta con le mani, le dita sottili ma forti nel tenermi fermo e nello spingermi contro se stessa.

– Non te ne vai? –

– No, no, sono qui, sono qui. –

– Rimani qui con me? –

– Con te, Kenma, con te. –

Continua a piangere e a sorridere assieme, tira su col naso, guarda i miei occhi come se tutto di lei dipendesse solo ed esclusivamente da me, come se fossi tutto il suo mondo.

Dio, quanto forte mi fai sentire.

E quanto...

Protettivo.

Mi sento protettivo.

Chi ti ha fatta stare così? Chi ti ha resa così nervosa all'idea che qualcuno venisse al tuo compleanno, chi ti ha detto che non sarebbe mai arrivato nessuno, chi ti ha fatto credere, per un solo secondo, che non meritassi questo, che non sarebbe mai stato vero?

Oh, Kenma.

È tutto vero.

E non sei l'unica ad esserne così dannatamente felice.

– Tanti auguri, Kenma. – ripeto, col sorriso sulle labbra, mentre le spazzo via le lacrime dalle guance.

– Grazie. – ripete anche lei, singhiozzando, le braccia che continuano a stringermi e il petto che trema.

Lo dice ancora.

Più e più volte.

"Grazie, grazie, grazie di essere venuto, grazie di essere qui, grazie di stare con me, grazie, grazie, davvero, grazie."

Grazie di che, Kenma?

Di fare quel che voglio?

Grazie a te.

A te di essere come sei.

A te di aver preso la mia vita e averne fatto un cumulo di macerie.

Perché farò schifo e sarò il peggiore degli esseri umani, ma qui, con te, a guardarti emozionata e felice e incredula all'idea che abbia scelto te, oggi, non m'importa di nulla che non sia quanto bene mi fai sentire.

Sei tutto quello che voglio.

E mi rendo conto, ora, che sei anche tutto quello che ho sempre voluto.

Rimaniamo fermi all'ingresso di casa, abbracciati, finché non smette di piangere. Continuo a dirle quanto felice io sia di essere qui e ad asciugarle le lacrime finché i singhiozzi non diventano piccoli e accennati, quasi più ansimi che veri e propri sussulti, e finché le sue gambe non riescono a reggerla a sufficienza perché non sia io a dover tenere il suo peso fra le mani per evitare che cada.

Non che pesi molto, tra l'altro.

Minuta com'è, non faccio nessun tipo di fatica.

Si tira via il pianto dalla faccia con la manica della felpa, prende un bel respiro, si stacca da me.

Sorrido, quando lo fa.

Quanto sei bella, Kenma, quanto sei bella.

Lo sei vestita coordinata con tutti i dettagli uno più bello dell'altro e lo sei così, con le cose comode, struccata e in lacrime all'ingresso di casa tua.

– Devo andare a controllare la torta in forno, vieni con me? –

– Certo. – rispondo, e accetto la mano che mi tende, lasciandomi trascinare verso la cucina.

Casa di Kenma è un disastro.

È la perfetta sintesi di quello che so e che mi ha detto di lei.

Infantile, incasinata, quasi lasciata a se stessa, i vestiti sparsi ovunque, i mobili spostati a metà, il tappeto storto, il posacenere pieno di sigarette sul tavolino del salotto che superiamo e fogli sparsi dappertutto. Sa molto di qualcuno che è cresciuto troppo in fretta e a cui nessuno ha insegnato come vivere da solo, che si arrangia, fa quel che può, non sa come gestire tutto.

Non è sporca, è solo...

Un casino.

Non commento, la seguo in silenzio.

Approdiamo alla cucina che è ancora più un casino del resto, farina ovunque, ciotole sparse dappertutto dove credo stesse facendo la torta, mestoli e fruste e sedie sparse a caso, pila di piatti nel lavandino, cassetti semi aperti e macchie di impasto sul muro.

Mi viene da ridere.

Lei è...

– Scusi per il casino, non sono molto... brava a cucinare. –

– Avresti potuto dirmi di comprarti una torta, non sarebbe stato un problema. –

Mi trascina verso il bancone, mi lascia là e si china per guardare dentro al forno.

– Volevo provare a farla io. –

– Sono sicuro che sia venuta bene. –

Le sale pericolosamente l'orlo del vestito, quando si piega.

Cerco... di guardare da un'altra parte. La torta, Tetsurō, la torta, guarda verso il tavolo, guarda...

C'è qualcosa per terra.

Qualcosa che...

Kenma si accorge che cosa sto fissando, mi precede e si sporge immediatamente da quella parte, prende la cosa in mano e mi guarda per un attimo, la faccia tremendamente impunita e gli occhi grandi che mi squadrano dal basso per niente innocenti.

– Ops, credevo di averle lasciate in camera. –

– Eh? –

Di cosa...

– È che in casa mi stanno scomode. Le metto per abitudine ma hanno iniziato a darmi fastidio e ho deciso di toglierle ma non ricordavo di averle tolte qui. Non ci faccia caso. –

– Non sto capendo. –

Le sposta da una mano all'altra e tutto quello che vedo è...

Kenma.

Piccola serpe.

Sei...

Pizzo. Kenma ha in mano qualcosa di pizzo, qualcosa che sembra un centimetro quadro di tessuto di pizzo. Io lo so cosa sono, quelle. E il pensiero...

La guardo.

Lei sorride appena.

– Pensavi che non sarei venuto ma ti sei comunque tolta le mutande? –

Fa spallucce.

– Per ogni evenienza. –

– Sei tremenda. –

– Grazie, lo so. –

Fa qualche passo verso il salotto, lancia le mutande all'interno senza nemmeno guardare dove finiscano, torna in cucina e si piega di nuovo per guardare la torta.

– Le manca ancora un po', secondo me. Tipo... un quarto d'ora? Credo, non so, facciamo un quarto d'ora e vediamo che succede. –

Gira la manopola del timer sul forno, preme il bottone, si stira le pieghe del vestito e si tira su, le mani che s'impastano fra loro e lo sguardo rivolto verso gli sportelli in alto.

– Che cerchi? –

– La glassa al cioccolato. L'ho comprata perché non sapevo come farla e credo che sia lassù. Mi passa una sedia? –

– Perché ti serve una sedia? –

Si gira verso di me un po' stizzita.

– Un metro e sessantadue, Tetsurō. Sono alta un metro e sessantadue. Non ci arrivo nemmeno con le preghiere, fin lassù. –

– Ah, giusto. –

Stringe lo sguardo, mi fa una radiografia.

– Voi persone alte siete privilegiate e non sapete nemmeno di esserlo. Fai una cosa, cercala tu, la glassa, signor "a che ti serve la sedia". –

Ridacchio, annuisco, mi stacco dal bancone e annuisco.

– Sai dov'è? In quale sportello, intendo. –

– Assolutamente no, aprili e guarda. –

Non faccio alcun tipo di sforzo.

Apro le credenze una ad una, e cerco fra le cose in disordine la glassa al cioccolato. Non la trovo, all'inizio, nel casino, ma la intravedo ad un certo punto dietro quattro o cinque pacchi di biscotti al cocco ammassati uno sopra l'altro.

Sporgo il braccio.

Mi giro per dirlo a Kenma.

La trovo sotto di me, nello spazio fra il mio corpo e il bancone della cucina, che mi guarda dal basso con gli occhi sognanti e le guance arrossate.

– L'ho... –

– Quanto sei alto? –

– Io? –

– No, quello dietro. –

Ridacchio, appoggio la glassa sul bancone al suo fianco, ma non mi sposto, rimango dove sono, perché non credo dispiaccia a lei e sicuramente, non dispiace a me.

– Due metri e tre. –

– Cosa? –

Faccio spallucce.

– I miei erano tutti e due alti. Ho superato il metro e ottanta che facevo le medie. –

– Ho capito che erano alti, ma... –

– Non ti piace? –

Smette di parlare ma non chiude la bocca, anzi, rimane con le labbra separate nonostante nessuna parola ne rotoli fuori.

Mi guarda.

Prende fiato.

– Secondo te? –

– Secondo me ti piace. –

– Dici? –

Mi apre una mano sulla pancia, la fa scorrere su, su verso la mia spalla, la stringe sul lato del collo in un gesto affettuoso, continua a guardarmi.

Sorride.

– Possiamo dire che mi piace che tu sia alto quanto a te piace che io sia minuta. –

– Allora ti fa completamente uscire di testa. –

Annuisce.

– Mh-mh, puoi metterla così. –

Alza l'altro braccio, si chiude il polso della destra con le dita della sinistra dietro il mio collo, tira verso il basso, alza il mento verso di me.

– Grazie di aver preso la glassa. –

– Non c'è di che. –

Ha la vita stretta.

Stretta e più sottile dei fianchi, che non sono larghi, ma hanno questa linea tonda, dolce, invitante. Mi piace come il suo corpo tremi, quando la bacio, e come reagisca alle mie mani rilassandocisi contro, sciogliendosi addosso a me.

Piega la testa, apre di più le labbra, ho gli occhi chiusi ma mi sembra di vederla, di sentirla.

Bella, quanto sei bella, quanto cazzo sei bella.

Mi fai impazzire.

Mi fai davvero impazzire.

Mi...

Le stringo le guance ma si stacca di colpo.

Che cosa...

– Piano sullo zigomo, mi fa ancora male. –

Tolgo le dita.

Guardo la sua guancia.

– Mi dispiace tanto, Kenma. –

– Ah, guarda che non è la prima... –

– Mi dispiace tanto che tu ti sia dovuta prendere un pugno per me. E anche le ginocchia l'altro giorno, e la schiena. Mi dispiace tanto. Non volevo che ti facessi del male. So che non vale niente detto dopo, ma lo penso davvero. Non ho mai voluto che ti succedesse qualcosa del genere. –

Si sfiora la pelle delicatamente.

Grazie a Dio non ha il livido, a quanto pare quella feccia non l'ha colpita troppo forte, ma comprendo che le faccia ancora male il viso.

– Davvero, non è un problema. –

– Lo è. –

Sposto la mia mano verso il suo mento, lo prendo fra le dita, lo piego verso l'alto perché guardi me e solo me.

– Soprattutto se succede per colpa mia. –

Distoglie lo sguardo, arriccia il naso, sembra indecisa su cosa dire. Poi però riporta gli occhi sui miei e c'è una mistura, dentro, che oscilla fra la sfacciata malizia e un velo di timidezza.

– Non è che per caso vuoi farti perdonare? Che so, pareggiare i conti. –

– Pareggiare i conti? –

– Diciamo che siccome per colpa tua qualcosa ora mi fa male, allora sarebbe super carino se qualcos'altro fosse molto piacevole sempre per colpa tua. –

La guardo attraverso le ciglia.

– Sì, perché no, ha senso. Ha senso, ha decisamente senso. Pareggiamo i conti, Kenma. –

– Perfetto. –

Mi pianta una mano sul petto e mi spinge indietro.

Si gira, poi, si gira verso il bancone e raduna le cose sparse sopra tutte da una parte, come a formare spazio.

Io, invece...

Si piega.

Per sistemare le cose, si piega.

Il vestito sale finché l'orlo non le si aggrappa al limite inferiore del culo e tutto quello che riesco a vedere è il retro delle sue cosce e il tessuto che abbraccia il suo corpo.

Se voglio pareggiare i conti, tu dici?

Dio, voglio sbilanciarli completamente, Kenma.

Finisce di metter via le cose, si rigira, lancia un'occhiatina al timer sul forno prima di aprire le mani sul bordo di legno e saltar su seduta sul bancone di fronte a me.

Apre le gambe e seguo il tacito invito a raggiungerla, avvolge le ginocchia attorno a me e mi chino per incontrare le sue labbra una volta ancora.

– Undici minuti, abbiamo undici minuti. Credi di farcela in undici minuti? –

Sposto le labbra sul bordo delle sue, sulla guancia sana, verso l'orecchio. Poi infilo il naso nell'incavo del suo collo e non faccio altro che parlarle contro la pelle.

– Potrei. –

– Potresti? –

Trema tutta, quando le parlo addosso, quando la mia voce vibra contro lo spazio fra la spalla e l'attaccatura della mandibola.

– Dipende da un sacco di fattori, per voi ragazze, non voglio costringerti a pensare che ti piacerà solo perché sono sicuro di me, Kenma. Non voglio che tu senta il bisogno di dirmi che ti piace per forza. –

Infila una mano fra i miei capelli.

– Il fatto stesso che lo pensi me lo fa già piacere. –

Rido appena, apro le labbra, le chiudo sulla sua pelle chiara e mi godo il rumore del respiro secco che prende fra le labbra.

– Sei attratta da un sacco di cose che dovrebbero essere la normalità. –

– Forse è solo perché ho incontrato un sacco di gente di merda. –

Lecco una striscia umida dalla clavicola alla sua mascella, mordo il punto proprio sotto l'orecchio, sento le sue spalle tremare come foglie.

– C'è un'enorme differenza fra una persona di merda e una persona che ti abusa, Kenma. –

Mi sposto col viso di fronte a lei, la guardo negli occhi.

– Io sono una persona di merda. –

Sorrido, abbasso lo sguardo sulle sue labbra.

– Chi ti fa sentire come se gli dovessi il sesso, chi non ti chiede esplicito consenso e chi ti costringe a fingere che il sesso ti piaccia quando ti fa schifo e non ti permette di interrompere la cosa, ti abusa. Capito? –

– Capito. –

– Brava. –

Sorride quando la bacio, stringe più forte le cosce su di me, forte che sembra me le voglia piantare in vita.

Mi stacco di poco, il suo respiro mi batte addosso.

– Quindi, Kenma, ora te lo chiederò esplicitamente perché è così che si deve fare. –

Appoggio le mani sulle sue cosce, passo le dita in alto e in basso sulla pelle morbida in un gesto quasi d'affetto.

– Posso mettermi in ginocchio per te? –

Deglutisce la saliva.

Mi fissa.

Annuisce.

Poi...

– No, Kenma, con le parole. Dimmelo con le parole. –

– Con le... –

– Con le parole. Dimmi "sì, Tetsurō, non vedo l'ora di venirti in faccia" o "no, Tetsurō, proprio non mi va, adesso, preferisco che andiamo di là a guardare la TV". Con le parole. –

Arrossisce fino al collo, cerca di evitare il mio sguardo.

Prende un grande respiro.

– Sì. Sì, Tetsurō, puoi. –

Sorrido.

– Grazie. –

La bacio ancora una volta.

– E me lo prometti che se succede qualcosa che non ti piace me lo dici? –

– Te lo prometto. –

– Brava, Kenma, sei così brava. –

Scotta, la sua pelle scotta.

È...

Faccio per staccarmi ma mi prende il viso con le mani, mi tiene fermo.

– Puoi dirmi quella cosa che mi hai detto l'altro giorno nel vicolo? –

Aggrotto le sopracciglia.

– Eh? –

Ne ho dette... tante, di cose, nel vicolo. E di più della metà mi vergogno come un ladro, quindi non vorrei ripetere l'esperienza rovinando tutto di nuo...

– Che sono tua. Hai detto che ero tua. Puoi ridirmelo? –

Oh.

Intendeva... questo.

Se posso ridirtelo?

Dio, io non vedo l'ora.

Alzo i bordi delle mie labbra, la bacio l'ennesima volta, la guardo dritta negli occhi, m'immergo in quella tonalità chiara, dolce e melliflua delle sue iridi.

– La mia piccola Kenma. –

Strizza le palpebre.

– Cazzo. –

Rido piano alla sua reazione, le bacio la punta del naso, appoggio entrambe le mani sulle sue cosce e indietreggio, questa volta sul serio, per piegare tutte e due le gambe, una per volta e... mettermi davvero in ginocchio di fronte a lei.

Le prendo le ginocchia, le apro piano, ne appoggio il retro sulle mie spalle e lentamente, molto lentamente la guardo, dal basso, reagire a quello che le sto facendo.

Io questa cosa l'ho fatta una marea, davvero, una marea di volte.

Non me la sento di dire che sono "bravo", perché non esiste una vera bravura in ambito sessuale, posso solo dire che... non si è mai lamentato nessuno. E spero non lo faccia Kenma, che tra l'altro, trema come una foglia al solo vedermi in ginocchio di fronte a lei.

Appoggio una guancia sull'interno della sua coscia, la strofino appena.

– Tutto bene? –

Annuisce.

– Hai cambiato idea? –

Scuote la testa.

– Perfetto. –

È morbida.

Soda e morbida.

Non ci sono segni sulla sua pelle, solo il bianco lattiginoso del suo colore, e come la prima volta che ho guardato le sue gambe per davvero, mi capita di pensare che somigli a crema, la consistenza della sua carne.

Crema.

Profuma di crema, di zucchero, di qualcosa di dolce.

E...

Sposto le braccia all'esterno delle sue gambe, le prendo la vita, la stringo e la tengo ferma per evitare che salti via e affondo i denti sul suo interno coscia.

Sa anche di crema.

Lei...

La sento irrigidirsi, poi sciogliersi, ansimare appena e tremare un po' di più, ha le guance rosse, quando la guardo, e gli occhi lievemente lucidi.

So che è lei che di solito dice di adorare me e lei che sembra pregare per la mia attenzione, ma in questo momento mi rendo conto che è questa cosa che stiamo facendo adesso, il vero ordine delle cose.

Io in ginocchio per te.

Io in ginocchio per te, Kenma, perché mi togli il respiro e mi fai diventare burro le gambe, perché ti adoro, perché mi sembra di volerti venerare, perché mi fai impazzire, mi hai fatto impazzire dal primo secondo in cui ti ho vista.

Chissà cos'è.

Chissà se è la tensione sessuale, il tuo aspetto, il tuo carattere o la tua essenza, a farmi sentire come se l'attrazione fra noi due fosse imprescindibile.

Forse...

Apro la bocca di nuovo, sorrido contro la sua pelle e mordo ancora, ancora una volta.

Sai...

Di tutto quello che di buono c'è al mondo. Del mio sangue che scende ad ogni centimetro di pelle che scopri, del mio cervello completamente sott'acqua.

Sei così bella.

Bella, bella, sei così...

Salgo un po' con il viso, bacio la sua pelle, poi la mordo, la bacio di nuovo, la succhio fra le labbra e la lascio andare, mi godo per un attimo solo... il suo sapore.

Cazzo.

Cazzo, Kenma, cazzo, cazzo, ca...

Mordo più forte.

Sembra volermi scappare dalle mani e la tengo ferma.

Dice "Tetsurō", lo dice con la voce che si assottiglia e le gambe che s'irrigidiscono.

Io perdo la testa.

Perdo completamente, definitivamente la testa.

Giro la faccia di centottanta gradi, guardo l'altra coscia e non aspetto che si riprenda o che il suo respiro torni regolare, no, apro le labbra, affondo i denti e mi godo ogni singola, minuscola inflessione della sua voce, respiro la sua pelle, mordo la sua pelle, la lecco, la succhio, la bacio, la...

Si spinge contro di me.

Il suo bacino, si spinge contro di me.

Ancora, ancora, ancora.

Ne vuole ancora.

E mentirei se dicessi che io, non ne voglio ancora.

Più in su, nello spazio fra le anche e il principio della coscia, dove si sente la sporgenza del tendine, di nuovo nell'interno coscia, da una parte, dall'altra, col suo corpo che mi sobbalza fra le mani ogni volta che uso i denti, che si scioglie quando li sostituisco con le labbra.

Sensibile, è sensibile.

E più le faccio credere che sto per andare dove mi vorrebbe ed evito all'ultimo di farlo, più la tensione le si costruisce dentro, le si accumula fra le cellule.

Sembra avere quasi uno spasmo quando respiro con la faccia in mezzo alle sue gambe e sente la sensazione del mio fiato batterle dove vorrebbe che mettessi la mia bocca.

Stringe le cosce.

Ma non è forte abbastanza perché riesca a tenermi fermo e io le riapro per dedicarmi ad un altro punto che non è quello, e lei si lagna, perché vorrebbe di più, e si scioglie, perché anche quel che sto facendo ora le piace.

Le tengo su il retro di un ginocchio, appoggio le labbra lì accanto e salgo, piano, piano, pianissimo.

Bacio i morsi che ho già lasciato, mordo dove prima ho baciato e basta, succhio la sua pelle finché non si arrossa un po' e salgo con una lentezza straziante, un centimetro alla volta.

Più mi avvicino, più trema.

Dice "Tetsurō, ti prego, Tetsurō" ad ogni bacio, ad ogni morso.

Mi infila una mano fra i capelli, mi accarezza il viso, mi guarda, le lacrimano gli occhi, si morde il labbro inferiore per non urlare, la sua schiena tende a formare un arco, le sue ginocchia provano a chiudersi nonostante le tenga aperte.

Un po' ancora.

Un po' più in su.

Un po', un po', ancora un po', ti prego, ancora...

Mi fermo.

Quando arrivo in centro, mi fermo.

Rimango immobile, ad un millimetro di distanza, gli occhi rivolti verso di lei, il sorriso storto e stronzo quasi più del solito disegnato in faccia. La guardo, la guardo e non faccio nient'altro.

Kenma...

Kenma credo provi a trattenersi, per un attimo.

Credo che si dica "no, sono forte, posso farcela", prima di cadere a pezzi.

È tenero vederla provare.

È... carino.

– Ti prego, Tetsurō, ti prego. Ti prego, non fermarti, ti prego. –

– No? –

Affonda di più le dita fra i miei capelli e li tira verso di sé, chiude le ginocchia attorno alla mia testa per come può, pianta i talloni ancora calzati su quei maledettissimi e adorabili calzini pelosi sulla mia schiena, nel tentativo di eliminare la distanza.

– Ti prego, ti prego. Ti prego, Tetsurō, farò la brava, ma ti prego, non fermarti. Io... –

– Tu cosa? –

Distoglie lo sguardo, si morde l'interno della bocca, poi riporta gli occhi sui miei.

– Non sono mai stata così... –

Le stringo la vita con una mano e libero l'altra, la porto verso di me, fra noi, l'appoggio su Kenma, sopra di lei.

Passo con il pollice su di lei, dal basso verso l'alto, la fisso gettare indietro la testa e lasciar teso il collo mentre ripete il mio nome.

– Bagnata? Sei fradicia, cazzo, mi stai praticamente gocciolando addosso. –

– Tetsurō, ti prego, ti prego. –

Lo rifaccio, dal basso verso l'alto, lungo tutta la sua entrata, passando esattamente sopra il clitoride che, non essendo un uomo etero, so decisamente riconoscere.

Geme un'altra volta il mio nome, si aggrappa al bancone tanto forte che le sue nocche sono bianche.

La terza volta che muovo le mie dita su di lei, non mi fermo, e anzi rimango a toccarla piano proprio dove le piace, lentamente ma senza farla aspettare.

– Così? –

– Ah, no, cazzo, cazzo, cazzo, cazzo, di... di più, Dio, di... –

– Di più? –

Aumento appena appena il ritmo.

– Così va bene? –

Si vede che non le basta, si vede che vuole qualcos'altro ma è così divertente stuzzicarla ed è così divertente vederla stringersi all'idea di avere di più e tremare e diventare più umida, più invitante, più...

La mano con cui si aggrappava si scioglie dal bancone, sale, si attacca ora al ripiano dello scaffale sopra la sua testa, la sua schiena s'inarca di più, il bacino cerca più frizione.

Mi guarda.

Mi lancia uno sguardo che mi fa perdere ogni tipo di coscienza, ogni tipo di volontà.

Con gli occhi umidi, le labbra morse, il viso rosso, l'espressione distrutta, di preghiera, dolce e devota assieme, la voce che trema, ridotta ad un filo.

– Ti prego, Tetsurō. Fammi... fammi... –

Le avvolgo le cosce con le braccia, gli avambracci contro le anche e le mani all'interno, la costringo ad aprirle di più, me la tiro addosso e lo faccio.

Le appoggio la lingua addosso.

La...

Il sapore.

Il sapore, la consistenza, la dolcezza, il rumore, il modo in cui si contrae, la sua voce, le sue gambe che si chiudono, le mani che mi tirano i capelli, gli spasmi, i tremori, il tentativo di muoversi mentre la costringo a rimanere ferma.

È tutto...

Perfetto, Kenma.

Tutto perfetto.

Tu, sei perfetta.

Tutto di te è perfetto.

Tutto, tutto, e io ne voglio ancora.

Ancora quando succhio piano, delicatamente il suo clitoride fra le labbra, quando la sento urlare il mio nome, irrigidirsi e rilassarsi e respirare ansimando.

Io non...

La tengo più saldamente, lei si alza il vestito per vedere meglio la mia faccia, le appoggio gli occhi addosso, tiro fuori la lingua, la lecco in un unico movimento senza smettere di guardarla, le sue iridi rotolano indietro, non sa dire niente che non sia "Tetsurō."

Questo è il paradiso, non lo è?

Fosse anche l'inferno sarei felice di bruciare.

Non sono mai stato così bene in tutta la mia vita.

Torno sul punto che le piace, parto con un po' più di delicatezza e lascio che il ritmo cresca coi suoi spasmi, la vedo...

– Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo, cazzo, ca... –

Le tremano le ginocchia.

Forte.

Forte che non la tenessi sarebbe per terra.

– Tetsurō, oh, Tetsurō, cazzo, ancora, ancora, ancora. –

Ancora?

Ne vuoi ancora?

Te ne darò...

Ancora.

Me la tiro contro finché quasi non riesco a respirare niente che non sia lei, stampo le mie mani sulle sue cosce, le spalanco tanto che temo di strappargliele di dosso, le do ancora.

Ancora finché non sento i suoi muscoli contrarsi e rilassarsi addosso a me.

Finché il suo respiro si fa mozzato.

Finché...

Si muove.

Contro di me.

Asseconda i miei movimenti, si muove letteralmente contro la mia faccia alla ricerca di qualcosa che la faccia passare dall'altra parte, si muove, non la fermo, la aiuto, succhio più forte, le affondo le dita sulla pelle, respiro il suo odore e deglutisco il suo sapore e...

– Tetsurō! –

Mi viene fra le mani.

Letteralmente.

Con il corpo che diventa un tremore senza posa e la voce che si esibisce in un gemito lungo, lagnoso, quasi un lamento, i muscoli che si tendono tutti per poi diventare burro, le dita che mi tirano forte i capelli, i calzini stretti sulle scapole per tenermi più vicino a lei.

È la cosa migliore che io abbia mai visto.

Quando Kenma mi viene letteralmente in faccia, so che è la cosa migliore che abbia mai visto.

Dura poco ma quel poco sembra tanto, si lascia andare, si lascia trasportare, le esce qualche lacrima dal bordo degli occhi, il suo corpo è teso, inarcato, meraviglioso.

La guardo.

La guardo venire.

E la guardo riprendersi con il petto che fa su e giù nel tentativo di riassorbire un po' d'aria, il cervello un po' più sciolto di prima e le ginocchia che tremano.

Rifocalizza le pupille, me le schianta addosso e...

Sospira.

Sospira mentre le risistemo il vestito, mi tiro su e mi avvicino per baciarla.

Accetta il bacio, risponde con calma e senza quel modo di fare un po' scoppiettante che ha sempre, assaggia se stessa fra le mie labbra e mi appoggia la fronte addosso, quando ci stacchiamo, tenendo gli occhi chiusi, le mani morbide contro di me come se anche il gesto di afferrarmi fosse una fatica troppo grande.

La lascio respirare, le accarezzo i capelli, aspetto che il suo cuore smetta di martellarmi addosso e rallenti dolcemente.

Ha il fiatone.

È...

Sembra distrutta.

Credo sia la conformazione del suo corpo, il fatto che sia così esile e che l'abbia un po' maneggiata come mi pareva, o forse anche che fra noi due c'è un'intesa piuttosto densa o...

Non so cosa sia.

So soltanto che mi riempie il cuore e rende la mia mente tanto meno innocente vederla e sentirla tremare come una foglia fra le mie braccia nel tentativo di riprendersi da qualcosa che le ho fatto... io.

Mi fa sentire così forte.

Così perfetto.

Trova la forza di parlare dopo qualche istante, la sua voce è flebile.

– C'è qualcosa che non sai fare? Dimmi che c'è qualcosa che non sai fare. –

Rido con lei addosso.

– Così non fai bene al mio ego smisurato, Kenma. –

– Chi se ne frega del tuo ego smisurato, sai quante volte qualcuno ha fatto quello che hai fatto tu? Tantissime. Sai quante volte sono riusciti a farmi venire? –

Le bacio il centro della testa.

– È questione di pratica. –

– Dio benedica la pratica, benedica te e benedica la tua lingua. –

La stringo con entrambe le braccia e ridacchio con il mento sopra la sua testa, le mani che scorrono sulla sua schiena sottile, sotto la felpa, sopra il vestito.

Faccio per staccarmi e baciarla ancora, ma...

Sobbalzo.

Il rumore mi schiaccia i timpani e mi fa prendere un colpo.

Il timer.

La torta.

Giusto.

Kenma mi spinge via con le mani, si aggrappa a me e scende dal bancone, si piega, guarda la torta dentro il forno e ragiona, medita, cerca di capire.

Le tremano le ginocchia come se fossero fatte di burro ma fa finta di niente, io non le faccio notare la cosa.

– Secondo te è pronta? –

– Se ci sei tu davanti non vedo. –

– Oh, giusto. –

Si sposta, mi fa posto.

Non è che veda benissimo, a dirla tutta, e non è nemmeno che sia tutto questo grande chef, ma la parte superiore tende pericolosamente al marrone bruciato.

– Sì, secondo me sì. La tiri fuori? –

– Passami le presine. –

– Dove sono? –

– Ah, boh, che ne so io. –

Sospiro e le cerco ovunque, le trovo infilate in un angolo del tavolo, rosa con la fantasia a fiori, gliele passo, lei tira fuori la torta e la piazza sul fornello, fierissima, come se avesse appena prodotto il più bel dolce mai visto sulla faccia della terra.

È...

Ha un buon profumo.

Ha decisamente un buon profumo.

L'aspetto...

Ha un buon profumo, mettiamola così.

– Ta-da, ecco qui. Spero che sia buona quanto è brutta perché se no credo che butterò il libro di ricette di mia zia nel cesso e non cucinerò mai più un dolce in vita mia. –

– Non è così... –

– Ho visto animali morti più belli, Tetsurō, non mentirmi, per farmi sentire meglio è bastato l'orgasmo. –

Rido, guardo la torta, abbasso le sopracciglia.

– In effetti non è che sia proprio... dai, magari è buona. Che fai, la tagli tu? –

– Ora? Non deve raffreddare? –

– Oh, che ne so. –

Guarda la teglia, guarda me, sfila le presine dalle mani e si gira.

– Stai qui tutto il giorno, no? –

Sorrido.

– Sì, tutto il giorno. –

– Quindi abbiamo un sacco di tempo e non dobbiamo mangiarla adesso per forza. –

– Esatto. –

Mi guarda dal basso, sbatte le ciglia e fa gli occhi da cerbiatto, sorride, mi prende una mano con tutte e due le sue.

– Visto che è il mio compleanno potremmo andare di là e festeggiare. Io... e te. E potresti anche farmi vedere quanti altri talenti hai. Mi piacerebbe molto vederli. –

Annuisco.

– Sì, potremmo. –

Sorride di più, sale con le mani sul mio braccio, poi sul petto, sulle spalle.

– Dopo il corridoio, la seconda porta sulla sinistra. – mormora.

– È... –

– La mia camera da letto. Sì, Tetsurō, ti sto invitando nella mia camera da letto. Sono troppo sfrontata? –

Abbasso le mani per chiuderle sulle sue cosce, le stringo e la tiro su, le ginocchia chiuse sulla mia vita e le labbra ad un millimetro dalle mie.

– Sei molto sfrontata, tu. –

– E la cosa ti disturba? –

Supero la porta della cucina, attraverso il salotto.

– Niente di te mi disturba. –

– Bravo. –

Vedo il corridoio che porta alla camera, lo imbocco e trovo la porta.

Ride appena, quando metto la mano sulla maniglia.

– Com'è che avevi detto? "Noi non faremo mai sesso, Kenma"? Qualcosa del genere? –

Rido anch'io.

– Nel caso non te ne fossi resa conto dico un sacco di stronzate. –

– Quella lo era di sicuro. –

Entro nella stanza, l'unica in qualche modo ordinata della casa, mi avvicino al letto, ce la lascio atterrare con la schiena, la guardo tirare su le gambe, mettersi in ginocchio di fronte a me, in mezzo al materasso.

Lascia scivolare giù dalle braccia la felpa, incastra le dita sull'orlo del vestito.

Mi sorride, mi guarda, se lo sfila di dosso.

Rimango immobile a guardarla, lei e le sue forme sottili, esili, le sue clavicole che sporgono, le spalle magre, la linea dello sterno, la pancia piatta, la linea dei fianchi, la costellazione di morsi dentro le cosce.

Poi...

Metto un ginocchio sul materasso.

La spingo giù da una spalla.

Le salgo sopra, la guardo sotto di me, soddisfatta, felice, esile e minuta, con le mani che si avvitano dietro il mio collo e il corpo nudo che aderisce al mio, sento il mio cervello razionale spegnersi e scomparire nel fondo della mia testa, le mie emozioni diventare un terremoto.

Tu sei bellissima.

Sei... sei bellissima.

E io sono completamente, inevitabilmente pazzo di te.

– Domani hai da fare? – le mormoro, gli occhi che scorrono in ogni centimetro di lei, in ogni ansa, in ogni linea.

– Eh? –

– Domani devi fare qualcosa? Che so, andare da qualche parte, fare la spesa, qualcosa del genere. –

Scuote la testa.

– No, credo di no. –

– Bene. –

Scorro con le mani sui suoi fianchi, sulla sua pancia, sulle sue cosce, sul suo collo, le spalle, il viso.

Mi chino per baciarla.

Le rimango appena distante.

– Tanti auguri, Kenma. –

E prima che possa ringraziarmi ancora annullo quella distanza, fondo le mie labbra alle sue e m'immergo, nuoto e annego nella sensazione di star facendo la cosa sbagliata sì, ma nel modo più dolce possibile.

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

ok so che c'è il cliffhanger ma quindicimila parole di sesso non potevo metterle in un solo capitolo abbiate pietà

spero che il capitolo vi sia piaciuto!!! sono stata un po' giù per alcune critiche che ho ricevuto nei giorni scorsi ma ho deciso di pubblicare questa storia lo stesso (l'avrei scritta in ogni caso perchè io scrivo fondamentalmente per me stessa) perchè mi sembra che a qualcuno di voi continui a piacere e niente, spero che vi piaccia anche se magari non è il vostro genere

niente, a presto :D

mel <3

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