𝚜𝚑𝚎 𝚋𝚒𝚝 𝚑𝚎𝚛 𝚕𝚒𝚙 𝚋𝚊𝚌𝚔 𝚝𝚘 𝚑𝚒𝚖
[she/her]
➭ ✧❁ SMUT ALERT
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C'è un bar, davanti alla sede del mio dipartimento nella sede di Ingegneria, che è lì da che mondo è mondo.
Non è un bel bar, non è uno di quei locali particolarmente intriganti o particolarmente appariscenti, non mettono la musica migliore del mondo, non fanno i drink più buoni mai visti in circolazione.
È piccolo, un po' polveroso, stretto e domestico.
Si entra da un ingresso sulla strada, una porta sempre aperta vecchia e di legno, ma c'è una rampa di scale prima del bar vero e proprio.
Quando mi sono laureato la prima volta alla triennale ero sette mesi in anticipo rispetto al mio corso di studi, e l'unico tirocinio disponibile in attesa che aprissero le iscrizioni alle magistrali era qui, ad Ingegneria, in un improbabile e noiosissimo corso di Scienze dei Materiali a cui ho partecipato più per gonfiare il mio curriculum che per vero e proprio interesse personale. Sono uscito ed entrato ogni giorno dalla porta di fronte a questo bar, quei sette mesi che ho fatto il tirocinante, e questo posto l'ho visitato più volte.
È sempre uguale.
Era esattamente così quindici anni fa, credo fosse così anche prima, prima di me, prima di tutto, prima di qualsiasi cosa.
Sono piuttosto certo che non sia vera, la storia della Genesi, ma nel caso lo fosse, scommetterei che Dio l'ha pensata in questo bar.
Vengo qui tutti i venerdì sera come questo.
Non mi occupo solo delle lezioni, io. Dovrei, da decreto dipartimentale, perché la cosa è che o fai lezione, o fai ricerca, e tutti i professori, di norma, alternano un semestre di lezione ad uno di ricerca, per non crepare, per non soffocare sotto la mole di lavoro. Ma io non sono come gli altri professori, non lo sono mai stato, e mi rifiuto categoricamente di lasciare che le persone lavorino sui miei progetti senza di me.
Non è colpa mia se sono il migliore.
E non è colpa mia se le cose grosse, le ricerche grosse, i progetti grossi, sono miei prima che qualcuno possa anche solo metterci sopra le mani.
Ho quattro dottorandi che fanno ricerca con me, ma come ho già detto, di lasciar loro in mano la mia idea, il mio lavoro, non se ne parla.
È mio.
Roba mia.
Idee mie, direttive mie, responsabilità mie.
Organocatalisi asimmetrica, di questo mi occupo, ora come ora. È la nuova frontiera della Chimica internazionale, l'organocatalisi asimmetrica, è l'argomento dell'assegnazione dell'ultimo Nobel della Chimica, è uno di quei campi estremamente specifici e potenzialmente infiniti di ricerca, ecco cos'è.
Maeko me lo chiede sempre, di spiegarle cos'è l'organocatalisi asimmetrica.
Ma serve una laurea anche solo per dirne il nome, quindi nonostante i miei tentativi, non è che ne capisca poi molto.
Sono passato in laboratorio per verificare come stesse procedendo il lavoro, stasera, e non sarei venuto in questo bar che è sempre lo stesso, se non ci avessi trovato dentro l'ordinario del dipartimento, il mio capo, se si può dire così, a infilare le sue dita viscide nei miei perfetti esperimenti e nelle mie perfette considerazioni.
Vengo in questo bar solo i venerdì in cui litigo con qualcuno.
Solo quelli in cui entro in laboratorio e lascio la mia facciata educata e seducente fuori dalla porta in favore del puro e semplice narcisismo che provo nei confronti del mio lavoro.
Non sono perfetto, so di non esserlo, come persona.
Ma nel mio lavoro...
Nessuno deve permettersi di toccare il mio lavoro.
Non mi sono fatto il culo dieci anni per riempire il mio curriculum e il mio cervello di qualsiasi tipo di studio disponibile per farmi mettere in dubbio da un vecchio bavoso il cui unico merito è essere nel dipartimento da mezzo secolo.
Io, dovrei essere il suo capo.
Lo sappiamo tutti, che dovrei essere io.
Non lo sono solo perché era là prima che arrivassi e non è facile declassare qualcuno in questo ambiente.
Ma se posso accettare la mia inferiorità ufficiale nel puro e semplice esprimersi del titolo, nella realtà, nel lavoro, no.
Io sono il genio, stronzo.
Io.
Nessun altro.
Io sono quello che si è laureato in anticipo tre volte, io sono quello che ha avuto la tesi di dottorato pubblicata in una conferenza internazionale, io sono quello col muro pieno di titoli, io.
Non ci sono "se", non ci sono "ma", non ci sono "fammi vedere se posso darti una mano", "magari ti serve un altro parere", "potresti fare così".
E quando spuntano fuori, allora quelle sere vengo qui, mi siedo al bancone e ordino sempre la stessa cosa, per evitare di tornare a casa da mia moglie e rovinarle la serata con la mia rabbia.
Quando ci siamo conosciuti, una delle prime cose che mi ha detto, che mi ha sempre detto, è stata che "dovevo lavorare sul mio ego". L'intendeva come una battuta, ma non credo lo fosse per davvero, in realtà. Credo invece che non le sia mai piaciuto fino in fondo, questo lato di me, quello arrogante, presuntuoso e sicuro di sé.
Mi sono sempre detto che non era importante, ai fini della nostra relazione.
Che è normale amarsi pur non amando tutto, ecco. Amarsi ma non amare dell'altro ogni dettaglio, ogni ansa, ogni centimetro.
Ma...
Non voglio dire che quello che le sto facendo sia colpa sua, non lo è, non lo sarà mai e questo lo so meglio di chiunque altro. Il fatto che non sia attratta dalla mia arroganza non giustifica il mio comportamento.
Premesso questo, a Kenma... piace.
Le piace.
No?
Le piace.
E a me piace che le piaccia.
Mi siedo sullo sgabello di fronte al bancone, appoggio il gomito sul legno che so essere impregnato di birra, guardo la barista che mi riconosce, mi sorride, e si gira verso gli alcolici senza che neppure debba chiederle che cosa voglio.
Assenzio.
Mi piace l'assenzio.
È forte ma sa di anice, mi brucia in fondo alla gola ma non mi fa schifo, è la stessa cosa che bevevo fuori dal tirocinio quindici anni fa, sempre la stessa, la stessa, la...
Dovrei cambiare?
Forse dovrei cambiare.
Forse dovrei prendere uno di quei cocktail colorati con l'ombrellino di carta e la frutta infilzata sullo stuzzicadenti. Dolce, fruttato, infantile.
Dio, se non penso alla mia situazione anche quando prendo un drink.
Ma no, su questo no, non cedo. Assenzio, voglio l'assenzio, l'assenzio è buono, è familiare, mi è sempre piaciuto, perché dovrei cambiare?
Va bene così.
Lo giuro, va bene così.
Aspetto che la barista mi porti il mio bicchierino di vetro, le sorrido quando lo fa, continuo a non dire nulla.
Non ho voglia di parlare.
Non parlo mai, quando vengo qui. Sanno cosa voglio e sanno cosa fare, so quanto costa quel che bevo, non ho alcun bisogno di spendermi in parole inutili e posso navigare nella mia rabbia.
Nella mia rabbia va e nella così forte idea che ho di me stesso, nel mio ego, nel mio egocentrismo, nell'isola che sono per me stesso, dentro me stesso, alla fine di ogni giorno di lavoro.
"Esiste qualcos'altro oltre l'università, per te, Kuroo?"
Me l'hanno chiesto tante volte.
La risposta non l'ho mai data, perché la domanda in sé, non era quella corretta.
"Esiste qualcos'altro oltre te, Kuroo?"
È questo, il punto.
Ho solo cercato di impregnare il mio lavoro con il mio ego e di sfruttare l'idea così stabile che avevo di me per qualcosa di utile. Mi sono sempre detto che se fossi stato egoista nella Chimica, sarei stato una persona migliore in tutto il resto.
Quindi sì, teoricamente sì, esiste qualcos'altro, oltre a me.
Ma non quando qualcuno mi attacca.
Quando qualcuno mi attacca non esiste niente.
Solo l'insito bisogno di essere guardato come se fossi il centro del mondo.
I venerdì sera come questi non torno a casa, da Mae, non perché pensi che lei non capisca, ma perché so che non può consolarmi. So che cercherebbe di rimettermi coi piedi in terra e di relativizzare i miei problemi a fronte delle cose ben più gravi del mondo, e l'odierei, l'odierei da morire.
Non me ne frega un cazzo se la gente muore di fame, Mae.
Un cazzo.
Non me ne frega un cazzo se il tuo capo dipartimento ti toglie i corsi perché non le piaci, non me ne frega un cazzo di qualsiasi cosa tu dica o faccia.
Io.
Quando sto male ci sono solo io.
E se ero conscio di quanto questa cosa fosse malsana prima, e la tenevo per me stesso nel tentativo di non ferire la persona che avevo scelto di sposare, ora...
Tu mi guarderesti e mi diresti che non c'è niente oltre me, vero, Kenma?
Tu mi passeresti le mani sul collo e sul viso, mi baceresti le labbra, mi diresti "faccia di me quel che vuole, professore, se può aiutarla a farla stare meglio", adoreresti il mio ego, lo faresti crescere ancora di più.
Dove sei, Kenma?
Dove sei?
Sei la cosa più sbagliata che potrebbe accadere alla mia parte consapevole, ma la migliore al narciso che nascondo dentro di me.
Porto il bicchiere alle labbra, prendo un sorso.
Che noia.
Avrei dovuto prendere qualcosa di diverso.
Che... che noia.
Lo riappoggio sul bancone, mi tiro su per sbottonare un po' di più la camicia, passo una mano fra i capelli per scostarli dal viso, sospiro con lo sguardo fisso sulla parete sempre uguale di alcolici di fronte a me.
Come si è permesso?
Come cazzo si è permesso?
Ma lo sa, chi cazzo sono io, che cazzo ho fatto io, nella vita?
Gli avranno dato la laurea per corrispondenza, a quel reperto del quarto secolo, porca troia. E pensa di avere il diritto di venire a dire qualcosa su quello che faccio io, lo stronzo.
Ne riparliamo, sì, ne riparliamo quando ti chiameranno ai convegni in tutto il mondo per parlare di quello che fai, ok? Ne riparliamo quando ci sarà la tua faccia sul Scientific American, figlio di puttana, quando diranno di te che potresti essere il nuovo Akira Yoshino.
Invidioso, stronzo, bastardo figlio di troia.
Cerchi di affossarmi perché sono meglio di te, vero? Cerchi di non sentirti un fallito, ma lo sei, un fallito, perché non dovresti avere neppure l'ardire di respirare la mia stessa aria, lurido verme, figurati permetterti di toccare le mie sperimentazioni di laboratorio.
Verrò al tuo funerale e sputerò sulla tua tomba, quando creperai d'infarto. Verrò a raccontarti quando bella sia Stoccolma a dicembre, col mio Nobel in mano, quando sarai morto, e non potrai dire nulla, non potrai ribattere o dire la tua, come dovrebbe essere anche adesso.
Io, sono un genio.
Tu non sei niente.
Soprattutto in confronto a me.
Prendo un altro sorso, la sensazione di noia mi assale ancora di più.
Sarei più calmo, ora, se Kenma non fosse entrata a passo di valzer nella mia vita, lo so.
Penserei che devo tranquillizzarmi e tornare da Mae, troverei un modo per mandar giù questo groviglio intricato di aspirazioni, arroganza e ambizione, e tornerei a casa mia come l'uomo che sono sempre stato, quello premuroso, spigliato, dolce che tutti vedono.
Ma Kenma c'è.
E non posso bloccare i mille scenari che mi navigano nella mente.
Mi diresti che sono intelligente, se fossi qui, mi diresti che non c'è nessuno migliore di me. Mi faresti sentire come se il mondo fosse mio, perché è mio, è solo mio e non fa altro che aspettare me.
Dove sei, Kenma?
Voglio che tu venga qui, ora.
Voglio che tu appaia con la tua bellezza angelica e il tuo carattere capriccioso e mi dica che ai tuoi occhi, ma anche a quelli di tutti gli altri, non c'è nessuno più importante di me.
Fammi sentire una divinità, Kenma.
Vieni da me e dimmi quanto tutti gli altri siano polvere in confronto a me.
Fammi impazzire.
Fammi stare bene.
Distruggi la persona che ho costruito per nascondere il mio narcisismo e ridammi la gioia, l'euforia di sapere di essere il migliore.
Fammi essere fiero, orgoglioso, della persona di merda che sono.
Sento il cellulare vibrarmi nella tasca, lo prendo con la sinistra mentre con la destra porto di nuovo il bicchiere alle labbra, bevo un sorso e sblocco lo schermo.
[Kenma] >> sono diventata pazza o è seduto al bancone della topaia dove mi hanno portato questi sfigati dei miei compagni? <<
Mi scende un brivido lungo la schiena.
[Kenma] >> riconoscerei quelle spalle ovunque ma forse sto solo allucinando <<
[Kenma] >> le basti sapere che è l'uomo più bello del mondo anche nelle mie allucinazioni <<
Espiro l'aria che avevo, non so quando, tirato dentro i polmoni, appoggio il telefono sul tavolo, mi giro.
Lentamente, come se neppure io ci credessi.
Eccola.
Eccola là.
È...
È lei.
In piedi in mezzo ad un gruppo non ben definito di persone molto meno interessanti di lei, gli occhi che immediatamente si legano ai miei, il cellulare in mano, a mezz'aria, con quella collana di perline che ci ha attaccato e che fa rumore ogni volta che lo usa in aula.
Merda, merda, merda.
Cazzo.
Che cazzo ha addosso?
Una...
Una sottoveste, sembra. Di quelle lisce, di seta, le spalline sottilissime e l'orlo che atterra a metà delle sue cosce magre, scollata tanto da far vedere perfettamente il tatuaggio sullo sterno, più simile ad una camicia da notte che ad un vero e proprio vestito, di un rosa chiaro, cipriato, che ricorda il colore delle sue labbra.
Ha le calze a rete, coi buchi larghi che le stringono la pelle, gli anfibi, il solito collarino che ora è nero, di velluto, alto sul collo sottile.
Sei una visione ogni volta che ti guardo.
Sei un sogno, ogni volta che ti guardo.
Riprendo il telefono in mano.
Perché mentirle?
Perché dovrei?
[You] >> Sto avendo un'allucinazione anch'io, allora. <<
[Kenma] >> come sono nella sua allucinazione? <<
[You] >> Come sei sempre, Kenma. <<
Prendo fiato, la guardo di nuovo.
[You] >> Bellissima. <<
Stringe le mani attorno al cellulare, si morde il labbro, sembra che rida ma non di divertimento, più di timidezza, imbarazzo e allegria tutto assieme, giurerei che le sue guance diventino più scure, ma non posso saperlo con certezza.
Mi rivolge un sorriso enorme.
[Kenma] >> la mia serata era uno schifo fino ad un secondo fa lei ha i poteri magici <<
[You] >> Anche la mia non è che andasse molto meglio. <<
Aggrotta le sopracciglia verso lo schermo.
[Kenma] >> come mai?????? <<
[You] >> Ho litigato col capo dipartimento. <<
[Kenma] >> quel vecchio di merda che ha fatto l'open day al liceo? <<
Ridacchio.
[You] >> Lui. <<
[Kenma] >> e che voleva quel relitto da lei? raccontarle di come fosse la chimica nel quindicesimo secolo quando è nato? <<
Ridacchio di nuovo, le parole scritte nel loro carattere scuro di fronte ai miei occhi, Kenma e la sua inconfutabile, indubbia bellezza dall'altra parte del bar.
Sei perfetta, lo sai?
Sei perfetta, sei tutto quello che a parole non potrò mai descrivere. Mi fai sentire così forte, così grande, mi fai sentire senza limiti, Kenma.
[You] >> Inventati una scusa e vieni qui. <<
[Kenma] >> sti stronzi lo sanno chi è lei sono nel corso anche loro <<
[You] >> Ti ho detto d'inventarti una scusa, Kenma. <<
Ci guardiamo un'altra volta, le sue iridi chiare si mischiano alle mie. Mi sembra di annegarle negli occhi, di immergermi e lasciarmi chiudere dentro la loro superficie morbida e tenue.
[You] >> Ho bisogno di te. <<
Un istante.
Passa un istante e poi la vedo girarsi verso gli altri, dire qualcosa, la prima cosa che le viene in mente, scommetto, prendere la borsetta dal tavolino su cui l'aveva appoggiata, superare con un paio di passi decisi la gente che le sta davanti e dirigersi, tutto tranne che timida, verso di me.
Sorrido, quando lo fa.
Sorrido davvero.
Mi tieni in pugno e lo sai, ma non mi sembra che tu sia tanto più immune a me, piccola, infida creaturina con la bellezza di un angelo.
Sbuca dai tavolini con lo sguardo dritto come un fuso, indica lo sgabello vicino a me con lo sguardo, si avvicina e alza una mano.
È una mano, non la sto baciando.
È solo una mano.
La prendo e l'aiuto ad arrampicarcisi sopra, le dita sottili strette fra le mie, le sue mani che brillano a contrasto con l'oro giallo della mia fede.
Si mette seduta, accavalla le gambe.
Sorride, non mi guarda dritto in faccia ma fissa gli alcolici come stavo facendo io fino ad secondo fa, attira l'attenzione della barista con un gesto svolazzante della mano.
– Vorrei un Cosmopolitan, per favore. –
La barista annuisce, guarda me e guarda lei, le sorride.
– Viene... –
– Sul mio conto. Lo metta sul mio conto. – dico, per la prima volta da anni, ad alta voce in questo bar che è qui da che mondo è mondo.
Mi guarda con gli occhi spalancati, la ragazza oltre il bancone.
Credeva che non sapessi parlare?
Credeva...
Si scrolla di dosso la sorpresa, prende fiato e si gira, immediatamente catturata più dalla varietà degli alcolici che le servono che dalla mia voce.
Credo.
Kenma appoggia entrambi i gomiti sul bancone, si spinge un po' avanti per arrivarci meglio e questo le sposta inevitabilmente l'orlo del vestito più in alto sulle cosce.
– Grazie. –
– Non ringraziarmi. –
– Perché non dovrei, se voglio farlo? –
Appoggia la guancia contro la mano aperta, si gira di sbieco verso di me, sbatte le ciglia piene di mascara.
– Grazie, professore, lei è sempre così premuroso con me. –
Sento il sangue diventarmi più fluido nelle vene, il calore annidarsi sulla mia pelle.
Sorrido.
Le sorrido, metà del mio viso che si alza più dell'altra nel mio solito mezzo ghigno storto.
– Prego, Kenma. –
– Questo è quello che volevo sentire. –
Alza gli angoli della bocca, piega il capo, mi lancia un'occhiata lunga, languida.
Rimaniamo in silenzio, all'inizio.
Lei rimane rivolta verso gli alcolici, dondola con la gamba avanti e indietro, impasta le labbra piene di un gloss rosato fra di loro, osserva la barista che lavora.
Io la fisso.
Spudoratamente.
La fisso e basta.
Lei e i suoi capelli lisci, le sue unghie dipinte di rosa, le sue labbra più scure del solito, i polsi sottili attraversati da piccole bande di velluto simili a quella che porta al collo, le clavicole che sporgono, il nero dell'inchiostro a contrasto col bianco perlaceo della sua pelle.
La fisso.
Incantato, completamente incantato, io la fisso.
Si gira solo quando il cocktail le atterra di fronte alla faccia.
Non ringrazia, lo prende, avvolge le labbra attorno alla cannuccia, ne beve un sorso.
Su e giù.
La sua glottide fa su e giù.
Rimango a guardarla ipnotizzato e in silenzio, finché non è lei a squarciare la quiete con la sua voce ariosa, leggera e tremendamente dolce.
– Lei cosa beve? –
– Assenzio. –
Sbatte le ciglia.
– Lei è vecchio, lo sa? –
– E tu sei una ragazzina. –
Storce il naso.
– Il Cosmopolitan non è da ragazzine. –
– No? –
– No. È da ragazze sofisticate, e poi è rosa. –
– Ragazzina. –
– Vecchio. –
Rido appena.
Si sposta quasi impercettibilmente verso di me. Pende un po' più dalla mia parte con il corpo, mi offre una visuale completa sulla sua spalla, sulla sua coscia, sul profilo delicato del suo viso.
– Che scusa hai usato? –
– In realtà nessuna. Ho detto... "guardate, c'è Kuroo, vado a parlare con lui". –
– Scusami? –
Beve un altro sorso, più breve, e strizza il naso appena appena. Credo sapesse particolarmente di alcol, quel po' di drink che ha bevuto adesso.
– Non è strano, se sono io a parlare con lei. È l'inverso. Ho detto loro che avrei cercato di farmi dire le domande dell'esame e hanno riso, come se fosse una battuta. –
– Ah, è vero. Hai ragione, non ci avevo pensato. –
– Sono più intelligente di quel che sembro, professore. –
– Lo so. –
Stringe le labbra e fissa di nuovo gli alcolici, le esce un versetto, dalla gola, infantile, gioioso, carino. Come se fosse... euforica, credo, o colpita, o...
– Piano coi complimenti o ci rimango. –
– Non ti piacciono? –
Incastra meglio le gambe una sopra l'altra, il vestito sale ancora, e ci sono cosce, solo cosce nella mia testa quando succede.
– Al contrario, sono il mio punto debole. –
– E allora non chiedermi di non fartene. –
Sorride lei, sorrido io, finisco il mio assenzio, mi piego dalla sua parte e sperando che nessuno ci stia fissando e totalmente deciso a dar la colpa all'alcol nel caso qualcuno mi chiedesse spiegazioni, assaggio il suo Cosmopolitan dalla cannuccia.
Sa di...
Sa un po' di Kenma.
Un po' sofisticato, un po' infantile, colorato, dolce, fruttato, interessante.
Aspetto, prima di ritrarmi.
Tanto sono piegato, e le luci sono soffuse, e con la prospettiva nessuno si renderà conto di niente, davvero, ne sono sicuro.
E ne ho fisicamente bisogno.
Fisicamente.
Davvero.
Porto una mano verso di lei, l'appoggio su una delle sue gambe, scendo finché le mie dita non si avvolgono attorno ad una coscia, fra gli spazi larghi lasciati dalle calze e l'orlo tirato su del vestito.
Inspiro.
E lei espira, esalando quello che sembra un tremore molto più di quanto vorrebbe, credo, dare a vedere.
– Lo sai che cosa mi è successo oggi, Kenma? –
Ci sono tante persone, fra noi e i suoi amici, e le luci sono basse, sono certo che nessuno si sia accorto della mia mano, ma per un istante mi dico che anche se qualcuno l'ha vista, tanto vale.
Deglutisce un altro sorso del suo drink.
– Ha litigato con quel signore vecchio del dipartimento? –
– Molto peggio. –
S'irrigidisce.
– Se ci avessi solo dovuto litigare non sarei qui in questo momento, ma a casa mia. – aggiungo, con un velato ma decisamente esplicito riferimento a Mae che la infastidisce, si vede, e la incuriosisce ancora di più.
Appoggia la sua mano sopra la mia sulla sua coscia, la spinge verso il basso, come a dirmi "toccami di più, toccami ancora e vedi da chi vuoi tornare, dopo". Stringo le dita, lo faccio, e affondano fra le distese morbide della pelle liscia e soda di Kenma.
Meravigliosa.
Cazzo, è meravigliosa.
– Quel pezzo di merda, oggi, ha pensato di dirmi e di farmi capire che lui è meglio di me. Ha toccato il mio lavoro, mi ha chiesto se avevo bisogno di una mano e mi ha ordinato di riferirgli per filo e per segno su che cosa stessimo lavorando per approvare le mie scelte sperimentali di ricerca. –
Sposta il viso dalla mia parte, se mi sporgessi potrei baciarla, potrei sentire il sapore delle sue labbra e affogare nella dolcezza delle sue mani, e...
– Pensava di essere meglio di me, Kenma. Meglio di me. Lui pensava di... –
– Nessuno è meglio di lei. –
Come una scarica elettrica.
Si espande in tutto il mio corpo, si annida in ogni muscolo, in ogni organo, in ogni sottilissimo capillare, scorre nelle mie vene, impregna i miei polmoni, si adagia sullo stomaco, mi strizza il cuore.
Sì, cazzo.
– Di certo non quello stronzo. Come si è permesso? Non dovrebbero nemmeno farlo entrare dove lavora lei, non credo dovrebbe averne il diritto. –
Ancora, ancora, ancora.
Di più, Kenma.
Di...
– E permettersi di parlare del suo lavoro, poi. Come se riuscisse minimamente a capirlo. Come se potesse aver qualcosa da dire su un progetto di cui si occupa... lei. –
Non è l'alcol, che diventa fuoco dentro di me, è l'ego. Il mio ego, il mio orgoglio, il bel fiore giallo che è sbocciato nella sezione "Chimica" del mio cervello.
– Lei è troppo intelligente per quelle persone, non crede? Pensano di poterle dire quello che vogliono ma dovrebbero soltanto baciare la terra dove cammina ringraziando il cielo che abbia deciso di lavorare all'Università invece che nel privato. Ingrati del cazzo, non meritano un minuto del suo tempo. –
Affondo di più le dita sulla sua gamba, lei stringe le sue sul mio polso, gli occhi enormi che si aprono e si chiudono di fronte a me, esattamente di fronte a me.
– Lei, in confronto a loro, è praticamente un Dio, professore. –
Prendo fiato.
– Dovrebbero inginocchiarsi e adorarla come vorrei fare io ogni volta che la guardo. –
Ed il mio ego esplode, dentro di me, e si gonfia nella mia testa aderendo ad ogni ansa, ogni parete ed ogni angolo di me, ripetendosi nelle parole di Kenma, nel suo sguardo adorante, nel suo corpo delicato.
Oh, Kenma.
Kenma, Kenma, Kenma.
Accarezzi il mio narcisismo come se ti piacesse e credo ti piaccia, credo ti attragga. Nessun'altra persona l'ha mai fatto, nessuno mi ha mai fermato per dirmi "trovo lodevole l'idea così grande che hai di te stesso nel lavoro" ma tu sì, tu lo fai, tu me lo dici.
Perché dovrei ridimensionarmi?
Perché dovrei pagare, andarmene e tornare a casa dove sono uno fra tanti, una persona normale, e non la divinità che tu guardi con quei tuoi occhi sognanti?
Perché dovrei tornare da Mae a farmi dire quanto fallace pensa che sia?
"Non prendertela, Tetsurō, succede a tutti, sbagliare è umano, e litigare anche. Certe volte nella vita bisogna abbassare la testa e avere pazienza e..."
Io non voglio.
Io voglio sentirmi il centro del mondo.
Io sono il centro del mondo.
E non lo sono a casa mia ma lo sono qui, nei suoi occhi, che mi fissano come se fossi appena disceso dal cielo.
Kenma, io...
Prendo fiato.
Io non sono mai stato così eccitato in tutta, tutta, tutta la mia vita.
Mai.
Non quando Mae mi si è spogliata davanti in Luna di Miele con quel completo intimo costato un rene, non la prima volta che abbiamo fatto sesso, non quando è piegata, sotto di me, e dice il mio nome con quella voce che di norma mi piace tanto.
Ora, ora sì.
Lascia andare il mio polso, rimette la mano sulla mia, la tira verso l'alto.
– Kuroo Tetsurō, il mondo le ruota attorno. –
Su, su fra le calze, sopra l'elastico di un paio di mutandine quasi più minuscole di quelle dell'altra volta, dietro, sul fianco.
Lancio un'occhiata di lato.
Non ci vedono.
Se il tipo di fronte a me si spostasse ci vedrebbero.
Ma non ci vedono, non ci vedono, non...
Stringo le dita.
Ha il vestito oscenamente tirato su, Kenma, per far passare la mia mano dietro di sé, esattamente sul suo culo, le guance rosate, il sorriso malefico, la schiena un po' inarcata.
– Nessuno può reggere il confronto con lei. –
Strizzo la sua pelle, il mio sangue ribolle, il mio cervello si spegne e tutto quello che so, per quell'istante, per quella frazione di secondo è che lo so, che sono sposato, e lo so, che mia moglie dovrebbe essere per me la persona più attraente del mondo, ma che non è così e che non so proprio che farci.
Sei bella, Mae, e sei dolce.
Tu e le tue gambe lunghe, i fianchi morbidi e i capelli folti, le parole di conforto, le carezze prima che mi addormenti e i baci sulla fronte.
Ma non sei... lei.
E lei è peggio di te, lo sappiamo entrambi.
Lei è più viziata, più fastidiosa, più petulante. Lei fa i capricci, lei pretende l'attenzione e se non gliela dai se la prende da sola, lei appare per il gusto di apparire e vive degli sguardi degli altri, che siano d'ammirazione o di odio.
Ma lei mi dice...
Deglutisco la saliva, lascio andare la presa, mi ritraggo e torno seduto bene, dritto, ad una debita distanza.
Il tipo di fronte a me si allontana e gli amici di Kenma ricompaiono sullo sfondo. Ci guardano ma non sono scioccati, più incuriositi, e so quando vedo i loro sguardi che non hanno visto niente, o sarebbero ben più sorpresi di così.
– Ti do venti minuti. – borbotto fra i denti.
Kenma alza lo sguardo verso di me.
– Eh? –
– Io me ne vado, rimango fuori, e aspetto venti minuti. In venti minuti tu trovi un modo per dire a quegli stronzi che devi allontanarti ed esci. –
– Vuole parlarmi in privato? –
La fisso negli occhi.
– Voglio rimanere da solo con te. –
Arrossisce.
– Oh. –
Metabolizza qualche istante, prima di annuire appena appena, tirarsi su e chiedermi un'altra volta la mano per scendere dallo sgabello. Si aggiusta il vestito sulle cosce quando è a terra, si stira i capelli con le mani, annuisce verso di me.
– Arrivo. – mi dice.
– Fa' in fretta. – le rispondo, prima di allungare la mano verso la mia tasca, prendere il portafogli e tirare fuori la carta di credito, in attesa di pagare.
Si allontana e non mi giro a guardarla, perché so che se lo facessi, non riuscirei più a smettere.
Non so quanto pago.
Non ne ho idea.
Dico "carta" di riflesso e la appoggio sopra il POS aspettando che le lucine si accendano in fila, infilo in tasca lo scontrino senza leggerlo, mi alzo dallo sgabello e non degno nessuno del minimo sguardo mentre salgo le scale per uscire.
Il mio ego, Kenma, il mio ego, che cosa non fai al mio ego.
Mi togli le remore morali.
Non che prima ne avessi di particolarmente incombenti, cinque giorni fa ti baciavo fino a finire il fiato sulla sedia del mio ufficio, ma ora, beh, ora...
Che morale mi serve? Io sono la mia morale, le mie scelte sono la mia morale. Il mondo è mio, non è così? Io sono il mondo e il mondo è me, io sono tutto e nient'altro è qualcosa, io vivo di me stesso, mi nutro di me stesso, amo me stesso, mi amo così tanto, così tanto che...
Non so cosa succeda nella mia testa.
Diventa un'eco impazzita.
Io, io, io.
"Io", dice.
E dice anche "Kenma", perché lei mi ha fatto sentire così e sono piuttosto sicuro che da qualche parte nella mia testa si sia formata la chiara sinapsi che la collega alla sensazione di essere euforico di me stesso.
Non c'è dubbio che quello che farò sarà giusto.
Io faccio sempre la cosa giusta.
A prescindere da tutto, io faccio sempre la cosa giusta.
Perché lo decido io.
Perché...
Esco al fresco della sera, prendo una sigaretta dal pacchetto nella tasca sul retro, l'accendo, guardo le volute di fumo tingere la luce opaca e notturna di quest'ora di fronte ai miei occhi.
Ci sono due studentesse che si fermano a guardarmi dall'altra parte della strada per un attimo, prima di ricominciare a camminare.
Guardatemi, sì, fatelo.
Come biasimarvi?
Io, me e me stesso. Io, con la camicia aperta appena sullo sterno, con i polsini tirati su e le vene in superficie sugli avambracci, io coi pantaloni che non fanno altro che abbracciare le mie gambe lunghe, io, con la bellezza scura, sbagliata, palese.
Io lo so di essere bello.
E lo so anche di essere intelligente.
Ma di norma so di essere uno come gli altri.
Ora no.
Ora... ora no.
"Kuroo Tetsurō, il mondo le ruota attorno."
Il potere di quelle sette parole, Kenma, tu non sai nemmeno quanto forte sia. La forza, l'impatto, l'energia.
Mi è sembrato che il mondo mi si aprisse sotto i piedi ma che invece d'inghiottirmi mi facesse vedere nel baratro tutto quello che mi circonda, tutto quello che vivo ogni giorno. E io lo guardavo, il baratro, lo facevo, ma ne ero inevitabilmente sopra. Sopra, a guardare le misere azioni degli uomini dall'alto.
Io so quanto insopportabile, malato e sbagliato sia questo lato di me.
Lo so, davvero.
Ma non ricordo perché cercassi di nasconderlo, prima, nonostante questo.
Perché? Perché l'ho mitigato? Per piacere agli altri? Da quando sono io a dover piacere agli altri e non gli altri a piacere a me?
Maeko cosa penserebbe? Cosa...
'Fanculo Maeko.
Non puoi reggere il peso di... Kuroo Tetsurō com'è in realtà, no? "Devi occuparti del tuo ego" perché ti spaventa, non è così? Perché sei terrorizzata all'idea che io ami più me stesso di te, perché pensi di essere in secondo piano rispetto a me, mi sbaglio? Ma se capissi quanto da amare c'è in me, e quanto sia inevitabilmente corretto amarmi, se...
Prendo un tiro, la notte non fa rumore.
Sto impazzendo.
Sto davvero impazzendo.
Kenma è dinamite di un'esplosione che va contenuta.
Kuroo Tetsurō nella sua versione più pura e non distillata, è davvero troppo per questo mondo, e quando Kenma avrà finito di accarezzare e baciare il mio ego e dovrò tornare a casa, lo rinchiuderò nella gabbia dove sta sempre.
È bello, però, per un attimo, sapere di essere un Dio.
Davvero, lo è.
Guardo il cielo, chiudo gli occhi, respiro.
Mi stai facendo a pezzi, Kenma.
Mi stai davvero facendo a pezzi.
Stai completamente rovinando il lavoro di anni, stai scollando i tasselli che avevo tanto attentamente rimesso assieme per essere un buon collega, un buon marito, una bella persona.
E sai qual è il problema?
Che a prescindere da quando sbagliato sia, mia bella, piccola Kenma, a me piace da morire che tu lo faccia.
Espiro il fumo, mi lecco le labbra al centro, infilo la mano libera in tasca, guardo distrattamente la sede del mio dipartimento, da fuori, come se la stessi osservando per la prima volta da un'altra prospettiva da cui non sono abituato a vederla.
Là dentro sei il professore di Chimica, Tetsurō.
Chi altri potresti essere?
Oh, non ne ho idea.
So solo che sarei il migliore anche in quello.
Mi rendo conto di star sorridendo quando sento il rumore di un click dietro di me e riprendo contatto con quello che mi circonda e quello che faccio.
Mi giro di scatto.
Ha il telefono in mano, Kenma, le guance rosse come se avesse corso, i capelli un po' arruffati, gli occhi che brillano, le labbra tese.
Mi ha fatto...
Sì, mi ha fatto una foto.
La fisso senza dire niente.
Si guarda attorno, prima di spiaccicarmisi addosso, il mento piantato sulla parte bassa del mio sterno e gli occhi che cercano i miei.
– Scusi, è che era davvero bello e ho pensato che mi sarebbe piaciuto avere una foto da riguardare che non fosse quella che mettono in tutte le sue pubblicazioni. –
Le sorrido.
So di quale foto parla.
– È una bella foto, quella. –
– Lo è, ma mi dà noia che la possano vedere tutti, ne volevo una che fosse solo mia. –
Stringo le labbra fra di loro.
– Solo tua? –
– Già. –
Muove le braccia con calma, quando mi chino. Con calma, con delicatezza, le chiude dietro il mio collo, si mette sulla punta dei piedi, sporge il viso verso l'alto.
– Grazie di essere uscita per me, Kenma. –
Sa dove va a parare, sa cosa mi fa, quando risponde.
– Grazie a lei di permettermi anche solo di essere qui. –
Appoggio la fronte contro la sua, per un istante respiriamo la stessa aria.
Se uscisse qualcuno sarei finito. Se qualcuno si affacciasse alla finestra del dipartimento, se qualcuno passasse con la macchina, se si verificasse anche solo una delle infinite, eterne variabili che potrebbero distruggermi, sarei finito.
Ma il mondo gira attorno a me, no?
E allora che importa?
Che importa, davvero, che importa?
Piega il viso di lato, inspira, mescola le labbra alle mie.
Non le apre, non le spalanca, le tiene morbide, rilassate, dolci quando le preme sulle mie. Hanno sempre lo stesso sapore, sempre la stessa consistenza, e mi rendo conto in un attimo che no, la sigaretta non è servita, la temperatura fresca nemmeno, e io sono ancora completamente infiammato per il modo adorante in cui mi guarda.
Le appoggio una mano sulla vita, la tiro più rigidamente verso di me, e l'altra la faccio passare fra le sue scapole, sul suo collo, sulla nuca. Si ferma fra i suoi capelli per un istante.
Mi stacco.
Le brillano gli occhi, sono sicuro brillino anche a me.
Prendo fiato.
– Qualsiasi cosa succeda se non ti piace me lo devi dire, Kenma, va bene? –
Sbatte le ciglia.
– Eh? –
– Se non ti piace, se non ti va, se ti sei stancata. Dimmi che hai capito. –
Sembra... confusa. Confusa? Perché diavolo è confusa riguardo al fatto che le stia chiedendo esplicitamente il conse...
– Ho... capito, credo. Wow, lei è davvero l'uomo più attraente del pianeta. –
– Perché ti sto chiedendo il consenso, Kenma? Non è attraente, è normale. –
Ha ancora gli occhi che sembrano due fari.
– Sua moglie è fortunata, cazzo, è fortunatissima. È davvero... –
– Kenma, non è questione di fortuna, è questione che chi non lo fa è una persona di merda. –
Sembra sognante, il modo in cui mi fissa. Sognante il modo in cui sfiora le mie labbra con le sue e sorride con la lingua in mezzo ai denti, quasi completamente rapita.
– Passerò il resto della mia vita a mettere in confronto gli uomini con lei e nessuno reggerà mai il paragone. Tutti, tutti quelli che avrò. Li guarderò e penserò che non sono nemmeno lontanamente perfetti come lo è lei. Mi sta rovinando la vita, lo sa? –
La preoccupazione si scioglie.
E il mio ego, quello ritorna, ascolta, si gonfia di più, di più ancora.
Io, il gradino più alto della scala.
Io, in cima, a guardare il mondo sotto di me.
– La prego, mi permetta di farle vedere quanto la adoro. –
Il mio cervello fa silenzio.
Tutto quello che so, in questa frazione di secondo, è quanto morbido sia il corpo di Kenma sul mio, quanto stretti siano i miei pantaloni, quando belli siano i suoi occhi, quando dolce debba essere la sua pelle su di me.
– La prego. La prego, mi dica di sì, per favore, per favore, la prego. Io posso farla star bene, posso far diventare migliore la sua giornata di merda e l'ha detto anche lei che sono bella e io potrei... –
Disperata, insistente.
Me lo chiede come se ne andasse della sua stessa vita.
– La prego. La prego, davvero, la... –
Annuisco.
Non rispondo, ma annuisco.
Sì, Kenma, fammi vedere. Fammi vedere quanto sono perfetto e quanto sono importante, fammi sentire quel che sento di essere ma faccio finta di non conoscere, fammi godere del mio puro, schifoso, lascivo narcisismo per un minuto, con te che sembri vedermi come se fossi una divinità, dentro quegli occhi grandi.
Dammi quello che puoi darmi.
Fallo, Kenma.
Fallo.
Io...
Sorride.
Dice "grazie".
Sorrido anch'io, prendo fiato, e subito dopo la tiro su, le mie mani sui lati delle sue cosce, le sue gambe strette attorno a me, la bocca sulla mia, le braccia sul mio collo e il suo corpo intero, morbido, giovane com'è, completamente stretto contro il mio petto.
Si stacca per dirmi "andiamo là", mentre indica la vietta di fianco all'ingresso.
Poi ricomincia a baciarmi.
E io ci vado, là, perché lei è impaziente, lei mi ha pregato, lei vuole me e io voglio lei, e poco m'importa di dove, come, quando. Dove vuoi, Kenma, dove vuoi, dove...
Sono venuto tante volte qui con Mae, quando facevo quel tirocinio una decina di anni fa. Lei veniva a prendermi la sera e mi trascinava coi nostri amici in questo bar, si faceva offrire la birra, ballava un po' sbronza qualsiasi canzone mettessero, rideva ad alta voce, attirava l'attenzione.
Avevo quanti, ventitré anni, ventiquattro?
Finivamo qui.
Esattamente qui.
Nella stradina a fianco del bar, praticamente un vicolo, buia abbastanza perché non se ne veda il fondo dalla strada, stretta abbastanza perché si sentano i passi se qualcuno si avvicina.
Non dovrei portare Kenma in un posto dove ho portato mia moglie.
E non dovrei, a trentacinque fottutissimi anni infilarmi in un vicolo con una ragazzina appena maggiorenne.
Ma lei ha detto di venire qui e io...
Appoggio la sua schiena contro il muro, so che è irregolare e che le potrebbe graffiare la pelle ma non me ne curo più di tanto, apro le mani sulle sue cosce, tiro giù il suo bacino finché non è in linea col mio, la muovo su di me, la abbasso su di me quasi con violenza.
Cazzo.
Cazzo, Kenma, cazzo, quanto cazzo sei...
Bella, eccitante, sensuale, delicata, meravigliosa, dolce, esile.
Ti tremano le gambe come se ci fosse un terremoto, dentro di te. Cerchi di star zitta ma non ce la fai, ti sale il centro delle sopracciglia, la tua schiena tende ad inarcarsi, le tue gambe ad aprirsi, i tuoi fianchi a muoversi contro di me.
Hai un odore così buono, Kenma.
Che cos'è?
È la tua crema?
Sembra zucchero filato.
Tu, sembri zucchero filato.
Mi accendi come un fiammifero, fai sembrare il mio sangue niente più di languide lingue di fuoco, mi fai sentire grande, forte, padrone del mondo, mi fai stare bene, anche se non dovresti, anche se "bene" non dovrebbe essere questo, per me.
Sei...
Dio, Kenma, tu sei...
Infilo entrambe le mani sotto l'orlo del vestito.
Soda, liscia, giovane. Esile, sottile, minuta ma anche giusta, sensuale, eccitante.
Mi piace tutto, di te.
È questo, il problema.
Che mi piace davvero tutto, di te.
Mi prende il viso fra le mani, ad un certo punto, e lo stacca dal suo, appoggia la fronte contro la mia, cerca... di riprendere aria, di respirare, di star ferma.
Trema.
Trema davvero.
Ha le guance rosse, le labbra umide, gonfie, gli occhi che brillano, il fiatone.
Le si è un po' sbavato il mascara.
Del gloss non c'è nemmeno più traccia.
Mi guarda, mi fissa, poi getta indietro la testa, il suo collo si tende, il suo bacino si muove su di me, piano, con una lentezza straziante, le sue labbra si separano, espira in un ansimo arioso come ariosa è la sua voce.
Lo fa di nuovo.
Di nuovo ancora.
Poi piega il capo di lato.
– Sul collo, professore. Mi piacciono i baci sul collo. –
– Come si dice? –
Sbatte le palpebre, aggiusta il bacino un po' più in centro, stringe la mia schiena incrociando i polpacci e mi tira via i capelli dalla fronte, baciandomi piano un angolo della bocca.
– La prego, per favore. –
– Brava. –
Profuma di più, in corrispondenza del collo.
La sua pelle è liscia ed è bianca e ha un così buon sapore quando la mordo, quando la succhio fra le labbra, e la sua voce, cazzo, la sua voce che dice "per favore" e "ancora" e "cazzo" e "sì" mi rotola nella mente, mi invade le vene, mi scende come il sangue fra le gambe, mi eccita, mi fa sentire al centro del mondo.
Piccola creaturina diabolica, tentatrice bella come un angelo e minacciosa come la peggiore delle serpi, tu sì che sai come entrarmi nel cervello.
Non la dimenticherò mai.
La tua voce, non la dimenticherò...
– Cazzo, cazzo, cazzo, ca... –
Le stringo i fianchi fra le mani, le dita si sfiorano tanto esile è il suo corpo, la aiuto nel suo movimento contro di me, la aiuto a strofinare il suo bacino sulla parete dei miei addominali, ne aumento il ritmo senza che me lo chieda, deve mordersi il labbro inferiore per non urlare, quando lo faccio.
Di più, Kenma, di più.
Prenditi quello che vuoi.
Strofinati contro di me fino a impazzire, fino a perdere la testa, fino a sentirti bene.
Cadi a pezzi fra le mie mani.
Fammi vedere quanto ti piaccio, quanto bene ti faccio stare, quanto importante, forte, potente sono per te, fammi vedere che cosa posso farti così, solo strusciandoti contro di me, solo stringendoti fra le braccia, solo affondando i denti sulla tua pelle, solo...
Le stringo forte i fianchi.
La porto su e giù contro di me, aumento la frizione, la spingo più forte addosso a me.
Tutto il suo corpo, si scuote.
Ne tocco un angolo e trema da testa a piedi.
È...
Torno sul suo collo, annuso il suo profumo, mordo la sua pelle, la mordo come se volessi mangiarla, lecco i morsi e mordo dove c'è la mia saliva che scintilla, lei mi chiama, mi chiama di nuovo, la muovo più velocemente, tutta, ti voglio tutta intera, voglio inghiottirti e mandarti giù e mangiarti e divorarti e avere tutto di te e sentirti urlare il mio cazzo di nome e vederti pia...
– Cazzo! –
S'inarca.
Stringe forte le ginocchia contro la mia vita, inarca tanto la schiena da appoggiare sul muro solo le scapole, mi tira i capelli.
Mi stacco da lei.
Ho il sapore...
L'ho morsa fino a farla sanguinare.
Non me ne sono accorto.
E lei...
Ci sono delle lacrime che le scintillano ai bordi degli occhi.
Rimane tesa, all'inizio.
Poi si scioglie, ricomincia a tremare e lascia andare i miei capelli, limitandosi a circondare il mio collo con le braccia, rilassare ogni muscolo e chinare la fronte contro la mia spalla per un istante.
È...
Dimentico sempre quanto reattivi alle stimolazioni siano i corpi più... giovani del mio. Quanto sensibili, quando malleabili, quanto...
– Io l'ho pregata di portarmi qui per farla star bene e lei... cazzo, lei fa venire prima me? È... è ingiusto. –
Soffice, morbida, docile.
Reagisce come un gatto che fa le fusa quando la stacco dal muro che immagino non fosse confortevole per tenerla solo fra le braccia, niente di più.
– Anch'io voglio... – ricomincia, ma le bacio una tempia prima che finisca.
– Non c'è bisogno, Kenma, non devi farlo per forza. –
Respira e le si stringe la gola, quando lo fa, in una sorta di strano lamento.
– Non glielo sto dicendo per forza, lo voglio fare davvero. Ho le gambe che non reggono ma per stare in ginocchio mica mi serve che stiano su, no? –
Rido appena.
– Vuoi davvero metterti in ginocchio qui? –
Mi bacia lo zigomo, la guancia, costringe il mio viso a girarsi con una delle mani, mischia la lingua alla mia, sorride mentre lo fa.
– Gliel'ho già detto, professore. Ogni volta che la vedo mi viene voglia di inginocchiarmi, a prescindere dal luogo. Ora non è mica diverso. –
– Sei sicura? –
Tira giù una gamba.
La appoggia per terra, la fa seguire dall'altra, si fa aiutare a non cadere, prende le mie mani per sorreggersi mentre scende con le ginocchia sull'asfalto, di fronte a me.
Aggrappa le dita all'occhiello dei miei pantaloni.
– Sono sicura. –
Si china col viso finché non è esattamente di fronte a me, e non si ferma, no. Lei ci strofina la faccia, sul punto in cui i miei pantaloni tirano, e lo fa con gli occhi rivolti verso di me, il sorriso sulle labbra, le ciglia che sbattono in quel gesto frivolo come è lei a volte.
– Lei vuole dirmi di no? –
Dovrei.
Lo so che dovrei.
Ma...
Come mi fai sentire, Kenma.
Come cazzo mi fai sentire.
Arrivo con le mani ai miei pantaloni, slaccio il bottone, tiro giù la zip, abbasso le mutande, mi appoggio con la mano libera al muro e le do quello che vuole dal primo, primissimo secondo che ha messo gli occhi sui miei un mese e mezzo fa.
Sorride.
Si lecca il palmo di una mano, me la stringe attorno e mi guarda, dal basso, come se non vedesse nient'altro oltre me al mondo.
Ho perso la verginità a quindici anni, vent'anni fa.
Ho fatto tanto, tantissimo sesso con tantissime persone diverse, prima di mettermi con Mae, e con lei dopo, in qualsiasi posto, in qualsiasi modo, in qualsiasi contesto. L'ho guardata piangere e l'ho guardata venire e l'ho guardata semplicemente godersi quel che stava succedendo, l'ho vista in piedi, piegata, in ginocchio come in ginocchio è ora Kenma.
Ma così, così non mi sono mai sentito.
Mai.
Così adorato.
Così perfetto.
Così...
Eccitato.
C'è la città ad un passo da noi, oltre il muro, qualche piano più in basso ci sono i tuoi amici, altri miei studenti come te. Siamo in un cazzo di vicolo dietro il cazzo di dipartimento dove lavoro.
Eppure...
Sorride, sorride ancora, si tira su meglio sulle cosce, chiude entrambe le mani su di me, le muove su, giù, su di nuovo, tira fuori la lingua, lecca la punta, si stacca, mi guarda.
– Sua moglie è fortunatissima. –
Mi mordo l'interno di una guancia.
– Non parlare di lei mentre... –
– Da quant'è che siete sposati? –
Tira fuori di nuovo la lingua, arriva lentamente fino alla base e traccia una striscia umida mentre lo fa, poi si stacca di nuovo, muove di nuovo le mani, mi guarda ancora.
– Quattro anni. –
– E state insieme da... –
– Dieci. –
Apre le labbra, ce lo fa passare in mezzo, succhia ma lo fa delicatamente, piano, come se fosse più un tentativo che altro.
Mi prudono le mani.
Le tengo ferme, ma prudono.
– Dieci anni a scopare una cosa del genere. Dio, qualcuno deve averla benedetta dall'alto. –
Apre di nuovo le labbra e lo spinge un po' più in fondo, questa volta. È stretta, la sua bocca, e mi vengono le ginocchia molli al solo percepire appena i muscoli della sua gola, ma non tossisce, non sembra nemmeno fare particolare fatica.
– Kenma, fai... –
Lo lascia uscire, un filo di saliva le rimane attaccato al labbro inferiore, sbatte le palpebre, sorride ancora, ancora, ancora.
– Lei è davvero l'uomo migliore del mondo, Kuroo Tetsurō. Non c'è un angolo di lei che non sia perfetto. Sono così grata che mi permetta di farle questo, non vorrei fare nient'altro nella vita. –
Mi si accende una fiammella nella pancia, inizio a sentire lo stomaco che si stringe, l'eccitazione che fa formicolare le punte delle dita.
– Faccia di me quel che vuole. Ha tutto il diritto di usarmi come meglio crede. –
Le prendo i capelli con la mano, li stringo forte e non riesco più a sentire niente che non sia il rumore del sangue che naviga nelle mie vene.
Il cuore rimbomba, l'eccitazione mi avvolge e tutto, tutto, dall'ego all'attrazione alle emozioni che provo per lei alla becera sensazione di trovarla più bella e più giovane, si mescolano nel puro e semplice istinto di vedermela qui davanti.
– Stai zitta. –
Mi guarda dal basso.
La tua faccia, cazzo, la tua faccia da stronza mi rincorrerà fino alla fine dei miei giorni.
Apre la bocca, appoggia la lingua sul labbro inferiore.
Merda, cazzo, porca troia.
Mai stato così eccitato. Mai stato così duro in trentacinque anni di vita, nemmeno quando facevo il liceo, nemmeno quando avevo tredici cazzo di anni e bastava un soffio di vento per far infiammare i miei ormoni di merda.
Le passo una mano sul viso, asciugo la saliva dall'angolo delle sue labbra, le sorrido.
Poi prendo la mia erezione in mano e gliel'appoggio sulla lingua, come mi ha tacitamente chiesto.
Sorride.
Per quel che può, so che sorride.
– Due colpi sulla coscia con la mano se vuoi dire "basta", uno per dire "ok". Hai capito? –
Mi colpisce la coscia una volta.
– Brava, sei davvero brava, Kenma. –
Inspiro, le accarezzo la fronte.
– Ora apri la bocca un po' di più per me, su. –
Infilo le dita fra i suoi capelli.
– Rilassati. –
Stringo le dita.
– E succhia. –
Spingo la sua testa verso di me, appoggio la fronte sul braccio che mi regge al muro, la guardo e sento, dolce ed esile, la sua gola che si apre, si stringe e cerca di rimanere ferma mentre entro dentro di lei con un unico movimento.
È questione di angolazione, puoi rendere la cosa meno impossibile al tuo partner, se sai dove e come infilarlo dentro.
Ed è anche questione di talento.
Tu, piccola seduttrice, ne hai davvero da vendere.
Rimango fermo un secondo.
– Viva? –
Colpisce una volta la mia coscia.
– Posso muovermi? –
Di nuovo, un colpo.
– Sei così brava, Kenma, sei... –
Le si stringono gli occhi, la vedo schiacciare le cosce verso il basso, apre appena di più la bocca ed è lei, a fare il primo movimento, più in basso su di me.
Ok, come vuoi, allora.
Come vuoi.
Come...
Stretta.
Stretta, stretta, stretta.
A malapena riesco a muovermi, mi sembra che la sua gola non voglia lasciarmi uscire, geme e la sua voce mi vibra addosso, mi guarda con i suoi occhioni grandi pieni di lacrime e le cola il mascara sulle guance, i capelli si arruffano sotto le mie mani, gli occhi rotolano un po' indietro ogni volta che arrivo fino in fondo, il petto le si muove come se singhiozzasse.
Ha le ginocchia sull'asfalto, uno dei movimenti le ha rotto le calze, il vestito è teso dalle gambe aperte, dall'alto le si vede l'interno, il tatuaggio, il suo petto.
Kenma, Kenma, Kenma.
Quanto sei bella.
Quanto sei...
– Tu non aspettavi altro, eh? – mi viene spontaneo chiederle, la mia voce più bassa del solito, di sicuro più violenta.
Sbatte le palpebre, ovviamente non risponde.
– È per quello che non mi hai lasciato in pace un minuto. –
Non capisce, all'inizio, ma non ci pensa nemmeno più di tanto, credo.
Le cola la saliva dal mento, piange, piange e il suo viso è un casino.
– È per quello che hai continuato a fare la troia ogni cazzo di giorno, a cercare le attenzioni, a fare di tutto per essere guardata. –
Le esce un lamento un po' stridulo dalla gola, mi vibra addosso.
Stringo più forte i suoi capelli, col timore quasi di strapparle intere ciocche di dosso tanto forte serro le dita fra loro.
Un Dio, mi fai sentire un Dio, quando mi guardi così.
– Se avessi saputo che per farti star zitta e buona sarebbe bastato un po' di cazzo l'avrei fatto prima. –
Stringe una mano su una delle mie cosce.
– Ora prendi quello che ti meriti e ringrazia il cielo che te lo stia dando. –
Aggrappa le dita sui miei pantaloni.
Rilassa completamente il corpo.
E quando sento quanto stretta, quanto invitante e dolce e bella è la sua gola attorno a me il calore nella mia pancia si stringe ancora, il mio ego si mescola alla mia eccitazione e mi sembra di non sapere più niente, né chi io sia, né cosa io faccia nella vita, solo di voler rimanere qui con Kenma per sempre.
Prendo fiato per parlare.
Mi esce solo un mezzo gemito, quando provo, e mi costringo ad un secondo tentativo dopo un altro paio di spinte.
– Vuoi mandar giù, vero? – le chiedo.
Mi colpisce la coscia una volta.
– Brava, sei così brava. –
Il calore si stringe ancora, ancora, ancora.
Le sposto la mano sul viso, tiro via un paio di lacrime dai suoi occhi.
– La mia piccola Kenma. –
Li spalanca, poi si richiudono e c'è un verso lungo, lagnoso che le rotola via dalla gola.
– Sei così... –
È lei.
Lo fa lei.
Lei mette entrambe le mani sulle mie cosce, piega appena la testa per avere l'angolazione che vuole, mi guarda e se lo spinge in fondo, fino in fondo alla gola, là dove credevo non riuscisse a...
Le atterra il naso sulla mia pancia.
Il calore esplode.
Mi sento Dio, quando le vengo dentro la gola, in un vicolo buio dietro al bar dove, dieci anni fa, portavo mia moglie.
Dura un tempo che non so descrivere.
Dura un istante che mi fa sentire in paradiso.
In un mondo molto più bello di questo, dove tutti sanno e riconoscono senza problemi quanto importante io sia, dove posso avere Kenma senza vergognarmene, dove nessuno ha niente da dire, su di me, come è giusto che sia.
È come sarebbe il mondo se fosse perfetto.
Lo so.
Lo...
Tutto crolla.
Quando mi riprendo, tutto crolla.
Mi ritrovo a trentacinque anni nel vicolo di un bar, con una studentessa di diciotto in ginocchio sull'asfalto, una moglie che mi aspetta a casa, di notte, nella più violenta e sfacciata realtà delle cose.
La magia si spezza.
E ricomincio, dopo ore, a vederci chiaro.
Io...
Con calma, Tetsurō, con calma, con ca...
Lo lascio uscire dalle sue labbra, mi sistemo le mutande con le dita che tremano, richiudo i pantaloni, la guardo che mi sorride, piccola e contenta, mentre tira via con le dita il mascara che le è colato sulle guance.
Che cosa...
Che cosa cazzo ho fatto?
Che cosa le ho fatto?
Che ho fatto a me stesso, che ho fatto alla mia vita, che ho fatto a mia moglie, a questa ragazzina, a tutto quello in cui ho sempre creduto, a...
Si tira su con le gambe che tremano.
Ha le ginocchia sbucciate, le calze strappate, il vestito un casino.
Si sporge per baciarmi.
Ma quando lo fa, indietreggio.
– Professore? –
Io...
– Vattene, Kenma. –
– Scusi? –
Ho rovinato tutto. Ho distrutto tutto perché è carina, ho distrutto tutto perché non so controllarmi, ho fatto un casino.
– Kenma, questo non può... non può... che cazzo stiamo facendo, Kenma? –
Spalanca gli occhi, sbatte le palpebre, mi fissa.
– Scusi, non sto capendo per davvero. –
Mi si avvicina di nuovo.
Cerca di toccarmi.
Io...
Mi scosto.
La guardo.
Provo così tanta... paura.
– È stato un errore. –
– Un errore? –
Indico me, indico lei.
– Questo, è un errore. Uno stupido errore, niente di più. Un errore, un errore. Io... io sono sposato e tu hai diciott'anni, non possiamo... –
Io lo so, me ne rendo conto ora, ma prima...
Dio, Kenma, tu... tu hai fatto venir fuori il vero me, non è forse così? Tu hai portato a te il me che pensa solo a se stesso, il me peggiore, quello schifoso, osceno, narcisista che nascondo, tu l'hai fatto parlare e agire e...
Io non sono quel Kuroo.
Io non lo sono, io ho una moglie, un lavoro, io ho una vita, non sono quella persona, non sono...
– Non so cosa mi sia preso, è stato un errore, è stato solo un errore, io e te non possiamo... –
Fa un passo, apre una mano e mi spinge indietro da una spalla.
Non mi fa male, nemmeno mi sposta, ma ci prova.
– Mi mette il cazzo in gola e poi mi dice che è un errore? Un bacetto è un errore, scoparmi la faccia in un vicolo è una scelta, porca puttana, sta diventando pazzo? –
Non la guardo.
Non posso.
Guardarla mi rende stupido, mi rende inetto, mi rende debole.
Devo... rimettere le cose a posto. Tornare da Mae, amare Mae, dimenticarmi di Cleopatra e del suo aspide e rimettere in gabbia il mio ego e ridarmi un contegno. Devo...
– Questa cosa è sbagliata. Non può andare avanti. Devi andartene, devi andartene via, Kenma. Tu... lo faccio per te, per te e per mia moglie e... –
Mi si aggrappa con le mani alla camicia.
Tira... su con il naso.
– La prego, non... mi dica che sta scherzando. Mi dica che sta scherzando, avanti, lo faccia, mi dica che... –
– Io e te non possiamo fare questo. Non... Devi andartene. Io devo tornare a casa da mia moglie. Tu devi andare a casa tua e fare le cose che fanno le diciottenni. È sbagliato, tutto questo è sbagliato. –
– Ma... –
Mi allontano, ma si aggrappa al mio polso con entrambe le mani.
– Non se ne vada. Se lei se ne va... io non le parlerò mai più. Mai più, professore, lo giuro. –
– È la cosa migliore. –
Provo di nuovo a scostarmi.
– È lei che mi ha detto di uscire, lei che ha voluto... perché adesso? C'è qualcosa che non va in me? Non sono... brava? Io... –
Mi viene istintivo, guardarla.
Lo faccio.
So quando lo faccio, perché non avrei dovuto.
Tu mi fai l'effetto di una dipendenza.
Io...
Ho fatto un casino.
Devo rimediare.
Quello che c'è fra noi due è colpa mia, e so che ti sto facendo soffrire, ma è meglio così, anche per te, soprattutto per te, per te e per Mae e per tutte le persone che io ho maltrattato con il mio egocentrismo.
– Kenma, io e te non possiamo stare insieme. Dimenticati tutto quello che è successo. Cancella il mio numero. Non rivolgermi la parola per niente che non riguardi il corso. Non ti chiederò la relazione ma la prossima la dovrai consegnare. Ti auguro... ti auguro il me... –
Mi tira un ceffone.
In piena faccia.
Non fa male, ma...
È in lacrime.
Non dice niente, è solo in lacrime.
Mi guarda e non capisco se mi odi o mi trovi ripugnante o cos'altro.
So che se lo facesse farebbe bene.
Io sono ripugnante.
Tu... non ti meriti di essere condotta giù al baratro con me.
– Lei è un bastardo. –
– Sì, Kenma, lo sono. –
Le trema il labbro inferiore.
– Io la... la odio. La odierò, glielo giuro. Imparerò ad odiarla e la odierò per il resto dei miei giorni, se mi manda via. –
– Dovresti farlo per davvero. –
Le scendono altre lacrime, e mi fa schifo quanto belle trovo che siano sul suo viso.
– Spero che sua moglie crepi e che lei non trovi mai più nessun altro. –
Indietreggio, non cerca di seguirmi.
– Spero che sia infelice per sempre. –
Mi giro.
– Spero che soffra quanto sta facendo soffrire me. –
Non mi fermo.
Io... me ne vado.
Perché lo so, che ti sto abbandonando qui.
Ma so anche che è l'unico modo in cui posso aiutarti.
Io sto soffrendo quanto te, io soffrirò per sempre quanto te, io sarò un eterno infelice, non troverò mai nessun altro.
Ma se posso rendere felici voi, se posso salvare te e Mae dallo schifo che faccio quando il mio ego non mi annebbia, allora ci proverò.
Lo faccio per te, Kenma.
Per te e per Mae.
Per rendervi felici.
O forse no.
Forse solo perché sono un codardo.
Non ne ho idea.
So solo che qualche lacrima, mentre mi allontano, la verso anch'io.
Perché starò anche facendo la cosa giusta, ma mi fa schifo, la cosa giusta, e vorrei avere davvero tanto il coraggio di fare per bene quella sbagliata.
─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───
non odiatemi
la storia non è ancora finita
NON ODIATEMI LO SO CHE MI ODIATE MA NON ODIATEMI VI PREGO giuro che andrà meglio fidatevi di me e non odiatemi
vi voglio bene anche se mi odiate un po'
ma non odiatemi
ABBIATE FEDE NELLA MIA MENTE MALATA
sisissi
ci vediamo prestissimo (spero)
un bacione
mel :D
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