𝚠𝚑𝚢 𝚊𝚖 𝚒 𝚜𝚎𝚌𝚛𝚎𝚝 :: 𝚜𝚒𝚍𝚎 𝚜𝚝𝚘𝚛𝚢

[she/her]

➭ ✧❁ SMUT ALERT

!! lo scrivo per chiarezza questo capitolo si svolge fra l'ottavo e il nono capitolo ovvero dopo che kuroo si è confessato a kenma ma prima che kenma vada a cena a casa loro !!!

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

Incastro la fascia di spugna in cima alla fronte, accendo la fila di luci attorno allo specchio, mi avvicino sul lavabo per potermi guardare chiaramente nel riflesso di fronte a me.

Cerco di trattenere il respiro per evitare che la condensa m'impedisca di studiare ogni centimetro della mia faccia, scavo con lo sguardo in ogni angolo alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa possa non far parte dell'immagine che voglio dare di me.

Ho le labbra secche.

La pelle a fianco del naso è arrossata, devo smettere di usare la carta della cucina invece dei fazzoletti, non mi fa bene, è troppo ruvida.

Passo con le mani sulle guance, sulla fronte, la consistenza è quella di sempre, quella di ieri, forse un po' più asciutta, credo dovrei bere di più.

Mi concedo di sospirare, scendo dalla punta dei piedi, mi sistemo più comoda e, soddisfatta dalla mia vittoria mattutina di aver trovato il mio viso sostanzialmente uguale a com'era ieri, apro l'armadietto per iniziare a lavarmi.

Sono tutti convinti che essere me sia facile. Ogni persona io abbia incontrato nella vita, da quando avevo che so, quattordici anni ad ora, ha sempre, sempre pensato che per me esistere fosse uno scherzo, un piacere, un gioco. Mi hanno sempre guardata tutti con quell'espressione di chi t'invidia, perché tu hai una scorciatoia che a loro nessuno ha spiegato.

Essere me non è facile.

Essere me non è nemmeno piacevole, la maggior parte delle volte.

Essere me è un lavoro.

Essere me impiega tempo, impiega fatica, impiega controllo e intelligenza.

Non è facile.

No, non lo è.

Mi chino sul lavabo e sciacquo il detergente dalla pelle. Prendo un asciugamano pulito – non si usa mai quello delle mani per la faccia, per la cronaca – e mi asciugo delicatamente, senza sfregare, che fa male, ma tamponando.

Verso il tonico su una delle mani, lo scaldo fra le dita, me lo picchietto sul viso.

Nessuno ha la minima idea di cosa significhi vivere come vivo io.

Loro non lo sanno com'è bramare l'attenzione del mondo nel modo in cui la bramo io. Non lo sanno cosa significhi, averne bisogno, averne necessità fin nelle ossa.

Agli occhi di chiunque mi guardi sono solo stronza, sono solo una vipera, nulla di più. Ma io lo so come sono davvero, ed è molto, molto peggio di così.

Io sono sola.

Io sono sola e sono piccola e sono insignificante, io sono quell'ammasso di arti tremanti in un angolo di casa mia che piange pregando che mio padre smetta, io sono gli occhi grandi e spalancati di chi si sente dire che com'è fa schifo, che nessuno la vorrà mai.

Io non attiro l'attenzione per vezzo.

Io lo faccio perché mi serve per sopravvivere.

Mi verso qualche goccia di siero sul viso, lo spalmo con i polpastrelli piano, con calma. È freddo, mi fa rabbrividire, ma so che applicarlo ghiacciato aiuta a sgonfiare gli occhi dal sonno e allora continuo senza pensarci troppo.

Richiudo la boccetta di vetro, la rimetto vicino alle altre che ho già usato.

Da quando l'ho capito, che la cura alla mia ferita era lo sguardo altrui, ho sempre fatto di tutto per poter avere il riflettore puntato addosso. Ho iniziato a curarmi all'inverosimile, a comprare chili e chili di vestiti, a ragionare su quel che dicevo, come, perché.

Ho realizzato, poi, dopo qualche tentativo fallimentare, che a me non interessava piacere agli altri. Non m'interessava che mi apprezzassero, che mi volessero con loro.

A me importava che mi guardassero, che sapessero chi ero e che girassero la testa quando gli passavo di fronte. Male o bene, bastava che se ne parlasse. Mi era sufficiente che avessero di me un'idea salda e solida, che quell'idea fosse positiva, non me ne poteva importare di meno.

Verso dall'applicatore stretto qualche gocciolina di crema sul mio contorno occhi, sento la pelle ammorbidirsi sotto, chiudo le palpebre e mi concedo di godermi la sensazione.

Le sto dietro così tanto, alla mia faccia, che mi provoca un piacere quasi fisico quello di sentirne la consistenza.

Riapro gli occhi, aspetto di sentire il prodotto asciugarsi sulla mia pelle, mi guardo.

È per quello che sono diventata così, per far parlare gli altri di me, per non essere più insignificante. Ho iniziato a dire tutto quello che mi passava per la mente, ad essere velenosa, ad abbandonare tutte le cose che vanno fatte perché "è così che ci si comporta".

So di essere antipatica e so di essere insopportabile.

Non m'importa.

Tutti sanno chi sono, nei posti che frequento, e questo basta.

Quantomeno, mi bastava.

Prima di...

Prendo l'altro siero, quello meno liquido e più gelatinoso. Anche questo è freddo, quando entra a contatto con il mio viso. Profuma di uva, inspiro forte mentre me lo spando sul viso, mi piace particolarmente quest'odore.

Mi chiedo se forse non dovrei comprare qualcos'altro della stessa linea.

Mi fermo prima di pensarci troppo, ho tante cose da finire, non ha senso che ne compri di nuove.

Allungo le mani verso la crema.

La prima volta che Kuroo Tetsurō mi ha guardata negli occhi, in quel secondo, in quell'istante esatto un mese e mezzo fa, ho capito che niente di quello che avevo fatto fin'ora mi sarebbe mai bastato per andare avanti.

Ha spostato le iridi sulle mie e il mio mondo è caduto a pezzi.

Ho capito nel giro di un attimo che nessun altro mi avrebbe mai fissata così, nessun altro m'avrebbe messo gli occhi addosso con tale intensità, che nessun altro mi avrebbe mai fatta sentire così al centro dell'attenzione.

Mi sono resa conto che lo sguardo di chiunque non avrebbe mai eguagliato il suo.

Che ora essere qualcuno per gli altri non m'interessava più, l'unico sogno che avevo era essere qualcuno per lui.

Ha iniziato a piacermi ancor prima che me ne rendessi conto.

Dopotutto, a questo punto, mi chiedo come potessi anche solo pensare di resistergli.

Spalmo una generosa quantità di crema sul mio viso, aspetto che si assorba giusto un po', poi sfilo la fascia, lego i capelli indietro con un mollettone, lascio cadere a terra l'asciugamano della doccia e prendo l'olio di mandorle dalla fila di prodotti di fronte a me. Rende la pelle morbida, anche se ci mette un po' ad asciugare.

Metterò a posto quel che ho già usato mentre aspetto.

Tetsurō è esattamente come dovrebbe essere un uomo, è la coronazione di qualsiasi speculazione o fantasia io possa aver fatto nella vita, è tutto quello che ho sempre voluto.

Ricordo ancora com'è stato guardarlo quel giorno, all'ingresso dell'aula, mentre ansimavo per la corsa che avevo fatto nel tentativo – fallito – di arrivare in tempo.

Perfetto.

Assolutamente perfetto.

Con le gambe lunghe chilometri, i capelli scuri come la notte, gli occhi che scintillavano, che scintillano ancora quando me li mette addosso. Con le mani strette sul suo cellulare a farmi immaginare di averle addosso, il tono di voce pacato ma autorevole, il modo di fare come se chiunque in quell'aula dovesse ringraziare il cielo che fosse là.

Aveva il mondo in mano, Kuroo Tetsurō, era una divinità in una classe di insetti.

Mi sono ritrovata a pensare che ero davvero stata un'idiota, a credere che essere guardata fosse piacevole a prescindere da chi lo stesse facendo.

Quando mi guarda lui mi sento importante anche se siamo da soli. Mi sento perfetta, io che cerco di farmi adorare perché penso di far schifo e mi serve che qualcuno mi provi che è solo una mia impressione.

Da quando l'ho visto per la prima volta, per me non c'è stato più spazio per alcun dubbio.

Lui doveva essere mio.

Niente m'importava che fosse sposato, niente m'importava che fosse il mio stramaledetto professore di Chimica, lui doveva essere mio, doveva guardarmi, doveva mettermi su quel piedistallo che stavo cercando disperatamente di raggiungere da tutta la vita.

L'ha fatto.

Poi mi ha lasciata.

Poi mi ha abbandonata in un vicolo, di notte, con le calze strappate sulle ginocchia sbucciate, e non sono nemmeno riuscita ad arrabbiarmi con lui, perché come avrei ucciso a mani nude chiunque si fosse permesso di fare una cosa del genere, allo stesso modo mi sono ritrovata disarmata di fronte a qualcuno da cui ad un certo punto mi sono dimenticata di difendermi.

Quelli sono stati i quattro giorni peggiori della mia vita.

Neppure ci penso più, a quei quattro giorni, perché il dolore che ho provato è stato quello di essere squartata, mentre mi ricordavo di non essere abbastanza per nessuno, non per mio padre, non per Tetsurō che aveva preferito la sua... famiglia a me.

Lo guardavo in aula e vedevo solo le sue spalle larghe allontanarsi da me, la sua voce dirmi di andarmene, il suo sguardo evitare il mio.

Se non fosse andata com'è andata, se non avessi avuto un motivo per riavvicinarlo, mi sarei gettata ai suoi piedi pregandolo di rivolgermi anche solo la parola entro al massimo un paio di settimane. Avrei gettato ogni grammo di dignità, di cattiveria io avessi raccolto creando il mio personaggio fuori dalla finestra, pregandolo di rivolermi, perché ormai nient'altro mi bastava, nient'altro che non fosse lui.

Alla fine le cose si sono risolte, e di questo sono più che felice. Alla fine si è reso conto di aver sbagliato ed è tornato da me, mi ha detto che mi amava, e il mio cuore si è rimesso assieme, la voragine nel mio petto si è riempita.

Ha lasciato una crepa, però.

Una crepa della quale in questo momento mi sto prendendo cura.

Mi guardo nuda allo specchio, l'olio scintilla sulla mia pelle, mi chiedo se forse non dovrei farmi qualche foto da usare in un altro momento.

No, non ho voglia in questo momento, le farò domani.

Ricomincio a mettere a posto le cose mentre l'aria asciuga via la sensazione umida dal mio corpo.

A me le cose come sono ora, con Tetsurō, a me non vanno bene.

So che al momento è il massimo che posso ottenere da lui perché ha bisogno di tempo per elaborare le cose e per capire se stesso, e so anche che avere una relazione clandestina può rendere la faccenda più interessante e più divertente, però a me non va bene.

Io lo voglio per me.

Per me e basta.

Non voglio che torni da quella stronza ingrata ogni sera e che dorma con lei, non voglio che le dica che la ama anche se non lo pensa, non voglio condividerlo.

Voglio che stia con me.

Voglio che stia con me tutto il tempo e che mi guardi sempre e che mi ami sempre e voglio che mi dica che sono bella e perfetta e che niente e nessuno lo rende felice come lo rendo felice io.

Così non mi basta.

Ogni giorno cerco di tirarlo un po' verso la mia parte, per fargli capire che a me, così non basta.

Ad un certo punto se ne renderà conto.

Ad un certo punto si ritroverà con me e si dimenticherà di aver mai voluto quell'altra.

Lei non è capace di amarlo.

Io sì.

Quando sento che l'olio si è finalmente assorbito, mi metto il deodorante, il profumo, do una pettinata veloce ai capelli ed esco verso camera mia.

Nel mio ordine mentale prima devo decidere cosa indossare, e poi potrò decidere come truccarmi e come farmi i capelli.

Apro l'armadio e lascio vagare lo sguardo fra gli indumenti sperando che qualcosa catturi il mio sguardo.

Cosa potrebbe piacergli?

La gonna verde l'ho già messa, quella rosa oggi non m'ispira, quella blu alla fine non è che mi piaccia tanto e...

Oh, sì, questa non l'ho mai messa. E starebbe da Dio con gli stivali nuovi. Ok, andata, vada per la gonna di pelle. Poi sopra ci mettiamo... il maglioncino a collo alto nero, l'altro giorno ne ho messo uno viola e pareva molto interessato, sono convinta che anche questo potrebbe piacergli.

Sistemo gli indumenti sul materasso, mi chino per tirar fuori gli stivali – alti fino alle cosce, aderenti come calze su tutta la gamba – e guardare l'effetto finito, mi ritengo soddisfatta e apro il cassetto dell'intimo.

Oggi gli andrà di spogliarmi?

Vorrei così tanto che gli andasse, amo quando lo fa. Amo come mi guarda, come se volesse mangiarmi, divorarmi, inghiottirmi, quando appoggia gli occhi sulla mia pelle nuda.

Speranzosa più che realista, probabilmente, tiro fuori dal cassetto un paio di mutande che chiamare mutande è un grande eufemismo e uno di quei reggiseni trasparenti senza le coppe che gli piacciono tanto.

Alla peggio se non mi spoglia mi farò delle foto quando tornerò a casa e gliele manderò per dargli la buonanotte.

Tanto che ci sono arraffo anche un paio di collant, alla fine fa comunque freddo, e una collana da mettere sopra il maglioncino che però, dopo qualche istante, rimetto a posto lasciando perdere.

Non ho gioielli adatti ad accompagnare l'anello che porto al dito.

Meglio da solo che rovinato dalla presenza di qualsiasi altra cosa.

Infilo l'intimo e le calze, lascio però i vestiti là dove sono per non sporcarli di trucco, torno in bagno prendendo il telefono dal comodino per poter mettere almeno un po' di musica.

Sorrido quando mi ritrovo di fronte al lavabo.

Non li avevo visti, i messaggi.

[tetsurō <3<3<3] >> Buongiorno. <<

[tetsurō <3<3<3] >> Come stai? Come hai dormito? <<

Mi mordo l'interno della bocca, la mia voce esce in un versetto un po' emozionato e un po' euforico nel leggere il mittente, sento le farfalle svolazzarmi nello stomaco.

Rimango a guardare i tasti per secondi interi mentre penso a cosa rispondere, poi il mio sguardo cade sullo specchio, l'idea di prima rifà capolino.

Ma alla fine forse ce l'ho, voglia.

Forse potrei decisamente...

Abbasso i collant sulle cosce.

Mi metto di spalle.

Faccio una foto.

La invio.

[You] >> avrei dormito meglio se fossi stato con me <<

Passa qualche secondo, vedo la scritta "ultimo accesso alle..." trasformarsi in "online", le spunte diventare blu, la mia immaginazione naviga nel tentativo di raggiungerlo.

Me lo immagino, col telefono in mano, lo sguardo fisso sullo schermo, il bordo di destra della bocca giusto un po' più in alto del sinistro in quel suo sorriso storto e dannatamente attraente.

Chissà cosa sta pensando.

Chissà se gli piaccio.

Chissà se...

[tetsurō <3<3<3] >> Chiamami. <<

[You] >> la signora kuroo non è in casa? <<

[tetsurō <3<3<3] >> È uscita mezz'ora fa. <<

Mi lecco le labbra, lascio che le mie gambe mi riportino verso la camera da letto mentre scrivo al cellulare.

[You] >> magari allora potresti passare qui e vedermi dal vivo <<

[You] >> mi ero comunque messa queste mutande solo per farmele togliere da te <<

Sposto i vestiti sulla scrivania, mi lascio cadere di schiena sul letto.

[tetsurō <3<3<3] >> Dio solo sa quanto vorrei, Kenma, ma ho lezione alle nove. <<

Lo sapevo, che aveva lezione alle nove, so a memoria il suo orario da prima anche solo di baciarlo, in quel mese in cui ha cercato di resistermi era mio personale diletto presentarmi fuori dalle aule in cui faceva lezione solo per farmi vedere da lui. Però glielo volevo dire, delle mutande, quindi, ecco...

[tetsurō <3<3<3] >> Allora, mi chiami o no? <<

Mi sfilo i collant.

[You] >> arrivo <3 <<

Premo il pulsante della chiamata.

Ho già le mani fra le gambe quando risponde.

È passata mezza giornata quando, vestita e sopravvissuta alle tre ore di esercitazione di Analisi Matematica I, accavallo le gambe seduta sul banchetto del laboratorio di Chimica.

Sono circondata dai miei compagni di corso, tutti intenti a mettersi i camici che l'Università offre in dotazione, e li guardo senza dire niente, ignorandoli, concentrata su pensieri che nessuno di loro neppure immagina.

Non ho ancora avuto modo di vederlo, oggi, e ogni secondo che passo ad aspettare che arrivi mi pare infinito.

Come mai è in ritardo? Cosa sta facendo? So che ha lezione dall'altra parte dell'edificio l'ora prima di questa, suppongo dunque che ci stia mettendo un po' a raggiungerci, ma nonostante questo mi sento comunque agitata, all'idea che ancora non sia qui.

È tutto il giorno che ti aspetto, che spero di vederti, che ti penso, quanto ancora vuoi farmi attendere?

Lo sai che per me è sprecato, tutto il tempo che passo senza i tuoi occhi addosso.

Quindi puoi farmi il favore di...

– Kenma, tu il camice non lo metti? –

Non mi giro neanche per guardare chi me lo stia chiedendo.

So che è una delle stronze del mio gruppo, grazie al cielo non quello della relazione di qualche mese fa ma un altro altrettanto insopportabile, e della sua presenza, della sua voce, non m'importa niente.

– No. – rispondo.

– Non ne hai trovato uno della tua taglia? Kuroo aveva detto che ce ne sono altri nell'armadio al fondo, hai provato a guardare... –

– Non voglio metterlo. –

La voce smette di infastidirmi, solo per ricominciare qualche istante dopo.

– Ma c'è scritto nelle disposizioni di sicurezza che... –

– Non m'interessa cosa c'è scritto nelle disposizioni di sicurezza. Oggi sono vestita troppo bene per rovinare tutto col cazzo di camice di laboratorio. –

Questo pare farla desistere, o quantomeno pensare ad altro, perché s'interrompe e non ricomincia, e io torno a guardare verso la porta.

Tetsurō non mi ha ancora vista, oggi, ci manca che si perda la mia meravigliosa gonna perché devo mettere quello schifo addosso.

Prima mi guarderà, e penserà che sono bellissima, e mi darà tutta l'attenzione che bramo, poi, solo e soltanto se lui me lo chiederà, ci penserò.

Io faccio quello che voglio.

Non l'hanno capito, questi idioti, che io faccio quello che voglio?

Sciolgo le gambe, le incastro al contrario, il tacco altissimo degli stivali batte contro il pavimento, mi tiro più su.

Ne ho comprati almeno tre paia diversi, di stivali alti, negli ultimi dieci giorni.

Ha detto che gli piacciono.

Le calze lunghe, le parigine e gli stivali alti.

Ha detto che mi stanno bene.

Ha detto che...

Prima di chiunque qui dentro vedo la porta del laboratorio spostarsi, aprirsi di poco, giusto uno spiraglio. Si sente la sua voce rivolta a qualcuno, come se stesse parlando ad una persona dietro di sé, poi ridacchia, l'attimo dopo entra.

Guardarlo è uno dei piaceri della vita.

Il laboratorio di Chimica delle matricole non è il laboratorio ufficiale dell'Università. Ce ne sono sei, in tutto il plesso, quello ufficiale è quello in cui lavora Tetsurō, gli altri sono specifici di corsi più avanzati. Questo, che serve solo per chi come me farà questa materia per un solo semestre nella vita, è molto meno attrezzato, molto meno bello, e molto più...

Basso.

È sotterraneo, quindi ha i soffitti bassi e di conseguenza l'arco della porta ancora più basso.

E Tetsurō...

Tetsurō, che è alto due metri, che svetta sopra di me anche quando ho i tacchi, che sembra non finire mai, appoggia una mano sulla parte alta dello stipite, china la testa, letteralmente si piega per poterci passare attraverso, perché altrimenti non riuscirebbe, perché è troppo grosso per entrarci.

Mi si scioglie qualcosa dentro ogni volta che lo vedo fare questa cosa.

È così attraente, cazzo.

Così...

Stiro la schiena, appoggio le mani sul bordo del banco, seguo i suoi movimenti con lo sguardo.

Sorride, per prima cosa, saluta gli studenti subito vicino all'entrata, si sistema la camicia, poi inizia a vagare con lo sguardo.

So cosa sta facendo.

So cosa sta cercando.

Sto ferma e basta, mentre l'ambra dei suoi occhi m'investe e mi soffoca, riempiendomi di tutta l'attenzione di cui ho bisogno.

Se qualcuno mi chiedesse a che ora inizia la mia giornata tipo, risponderei che è quando Kuroo Tetsurō inizia a fissarmi, quando sento il calore, il desidero nascosto dietro la sua facciata così cordiale.

Non aspetto altro.

Ogni giorno, non aspetto altro.

È come un bicchier d'acqua a qualcuno che altrimenti non potrebbe bere, mi disseta, mi fa sentire bene, mi mette di buon umore, ma più di questo mi permette di sopravvivere, perché senza morirei disidratata.

Mi chiedo sempre come facessi ad andare avanti prima di lui, quando mi ritrovo in questa situazione. Come facevo, prima? Come potevo pensare di essere soddisfatta, senza i suoi occhi addosso? Come riuscivo a sentirmi appagata, privata di quell'approvazione palese che mi dà anche solo guardandomi?

Non ne ho idea, davvero non lo so.

So soltanto che ora che c'è, non c'è altro a cui aspiri.

Che lo sai meglio di me, Tetsurō, che ogni mio sforzo può essere coronato solo da quel sorriso mezzo accennato che mi lanci quando mi vedi, che ogni ora passata a scegliere i vestiti, a spalmarmi dodici chili di crema in faccia, a rendermi bella, alla fine è solo perché tu mi dia quel briciolo di attenzione in più che mi fa tremare le ginocchia.

Quando è costretto dal contesto ad abbandonare i miei occhi, dentro di me crescono sia il bisogno di averne ancora, sia il fastidio per chiunque l'abbia strappato così violentemente da me.

No, no, no, così le cose proprio non mi vanno bene.

È divertente, ammetto lo sia, tutta questa segretezza. Mi lusinga in un modo tutto sbagliato sapere che qui dentro ti credano tutti inarrivabile mentre io porto al dito l'indistinguibile segno del fatto che qualcuno, al tuo livello, c'è arrivato, però non è abbastanza, non è sufficiente.

Io voglio che tu guardi solo me.

Voglio che niente al mondo possa farti smettere di guardarmi.

Voglio che tutti sappiano che tu hai occhi solo per me.

Lascio che il fastidio defluisca, tengo gli occhi incollati a Tetsurō come fa ogni altra persona qui dentro, dico alla parte di me che urla per avere ancora attenzione che ce l'ho, che sono speciale, che non sono come tutti gli altri, anche se non sembra, ora come ora.

È che è così...

Così...

Perfetto.

Semplicemente...

– Qualcuno dovrebbe rendere quell'uomo illegale, è un colpo al cuore ogni volta che lo vedo. –

Giro la testa di novanta gradi come se qualcuno me la stesse tirando con una corda.

Le mie compagne di gruppo sono radunate fra loro, parlano a bassa voce perché lui non le senta, ma danno per scontato che io sia come loro e non si curano della mia presenza.

– Sto iniziando a pensare di non dare Chimica solo per rifare il corso. –

– Davvero. –

Stringo lo sguardo, mi mordo l'interno della bocca, la gelosia è come una spina nel cuore, fa male da dentro, un male che non so nemmeno come descrivere.

Come vorrei potervi rispondere.

Come vorrei potervi dire che dovete togliere le vostre mani di merda dalla persona che amo e che mi ama.

Non posso.

Non ancora.

Non mi darò pace finché non potrò.

– Ti prego, guardalo. –

Seguo la direzione dei loro occhi, mi accodo alla questione anche se non ho ancora detto nulla.

Tetsurō è là, mezzo seduto come al solito sulla scrivania al fondo del laboratorio, sta parlando con un paio di studenti che suppongo gli abbiano chiesto qualcosa relativo al corso. Si sta tirando su i polsini della camicia, lo fa sempre quando facciamo lezione sul tardi, credo sia un po' il suo modo di rilassarsi.

– Le sue mani, Cristo. Non so cosa darei per vederle da vicino. –

Le mani, eh?

Le mani.

Io amo le sue mani.

Amo che siano grandi tanto da potermi circondare la vita e toccarsi fra loro, amo che sappiano esattamente cosa fare per farmi star bene, amo che possano essere dolci e delicate quanto violente e aggressive sul mio corpo.

"Non so cosa darei per vederle da vicino".

Stupida stronza, guardale quanto cazzo ti pare, non saprai mai com'è averle addosso.

– Se passo l'esame io il mio numero glielo do. Tanto ormai non ho più niente da perdere a quel punto. Sai mai che... –

– Guarda che è sposato, scema. –

Spalanco gli occhi.

Chi ha parlato?

Chi è che...

C'è una terza ragazza, non seduta vicino a me ma dall'altra parte del banchetto, le ginocchia su sulla sedia e la testa china su un foglio di fronte a sé, completamente disinteressata all'argomento.

La sua voce falcia quella delle altre due come una lama, le interrompe, e interrompe anche me.

La tipa di prima, quella del camice, sbuffa a metà fra l'indispettito e lo scherzoso.

– Lo so che è sposato, ok? Lo so. Una cristiana però può sempre sperare. –

– Sperare cosa? Di farsi il professore di Chimica che ha quasi quarant'anni e una moglie? Bel sogno, complimenti. –

– E dai, non sarà giovanissimo ma guardalo, è letteralmente un sogno erotico con le gambe. –

Rimango zitta, ma sento la gelosia che provavo per le stronze che gli facevano i complimenti diventare astio nei confronti di questa idiota che osa sminuirlo.

– Non capisco davvero cosa ci troviate. Boh, è alto, è sveglio, non è brutto, però basta, finisce lì. –

Il sangue mi ribolle nelle vene.

Lo sento viaggiare nel mio corpo ad una temperatura troppo alta.

Prendo fiato anche solo prima di rendermene conto.

– "È alto, è sveglio, non è brutto"? Sul serio? Cazzo, ma hai sbattuto la testa da piccola o sei sempre stata completamente idiota? –

La ragazza spalanca gli occhi verso di me, dubito si aspettasse di sentirmi intervenire, non parlo quasi mai, non m'interessa perdere il mio tempo con loro.

– È perfetto, quell'uomo è perfetto. Da come lo dici tu sembra che sia alto un metro e ottanta ma quelli sono due cazzo di metri, "sveglio" è riduttivo per uno che ha cinque lauree su cose di cui manco sai pronunciare il nome e non inizio nemmeno sul "non è brutto" perché finirei domani mattina. Adesso dimmi dove esattamente finisca lì. –

Vedo il suo sguardo aprirsi, richiudersi, le sue guance arrossire appena. Respira con calma, fa spallucce.

– È vecchio. –

– Non è vecchio, è adulto, sono due cose diverse. Se preferisci i ragazzini che non sanno neanche cosa cazzo vogliano dalla vita il problema è tuo, non suo. –

– Ha il modo di fare di uno che si sente il centro del mondo. –

– Se nasci con quella faccia e quel cervello sei il centro del mondo. –

Alza le sopracciglia, le mani, indietreggia con la testa.

– È sposato. Letteralmente sposato. Per quanto bello possiate trovarlo rimane sposato. Non vedo la ragione di volere qualcuno che poi alla fine della giornata torna comunque a letto da sua moglie e per cui non sareste nulla più di un passatempo. –

Sento la mia mandibola stringersi, la furia farsi scoppiettante nelle vene, le dita iniziare a tremare.

Tu, brutta stupida figlia di puttana che...

Tu credi davvero che io per lui non sia niente di più di un passatempo? Credi che sia felice di tornare a dormire con lei? Credi che non mi ami, che non mi adori, che alla fine sarò "l'altra" per sempre?

Tu non sai un cazzo.

Tu non lo conosci.

Tu non ci conosci.

Tu non hai alcun diritto di presumere che lui non sia serio nei miei confronti perché non hai la minima idea di come sia con me, tu non sai che mi ha regalato un diamante per il compleanno, non sai che mi scrive tutte le mattine, non sai come mi guarda, come mi dice che sono bella e che mi ama, tu non sai com'è quando fa sesso con me, tu non hai la minima, la minima idea di quanto lui mi voglia e mi desideri e mi ami al punto che nient'altro per lui sia importante tranne...

No, questo no.

Questo no.

Non ancora.

Ma succederà.

Mi mordo la lingua.

Prendo fiato e faccio spallucce.

– Lo so. – rispondo, e nient'altro, perché quello che vorrei dire non posso dirlo, e sono costretta a tenermelo dentro al petto.

Non so se poi dica qualcosa.

Mi perdo a guardare Tetsurō prima di riservarle un altro secondo del mio tempo.

Tu mi amerai al punto che niente avrà più alcun valore per te, lo so, lo so. Mi amerai così tanto che la lascerai. Arriverà un giorno in cui mi amerai fino a guarire la mia solitudine, fino a dimostrare al mondo che quel genere di amore me lo merito anche io.

Non transigo l'idea di essere solo un'illusa.

Io so che succederà.

Farò di tutto perché accada.

Gli studenti con cui sta parlando si allontanano, lo vedo tirarsi indietro i capelli dal viso, appoggiare lo sguardo sul mio, sorridere.

Loro non capiscono un cazzo.

Quella stronza, non capisce un cazzo.

Lo sappiamo solo io e te cosa ci sia fra di noi.

Gli altri, non possono davvero neppure immaginarlo.

Inizia a parlare della sperimentazione di laboratorio di oggi. Si schiarisce la voce, si sistema, inizia con "ok, ragazzi, oggi faremo..." e il mio cervello si stacca presentandomi solo un film muto di Tetsurō che si muove.

È così sicuro di sé, per la miseria. Non fa niente, niente che non sia essere se stesso e ci tiene tutti col fiato sospeso a fissarlo, muti, rapiti, in balia delle sue espressioni facciali, del suo modo di fare. Ha il fascino trascendentale dell'intelligenza, della consapevolezza, della cultura, sa quello che dice, lo sa meglio di chiunque altro, c'è così poco spazio al dubbio che non ti resta altro che ammirarlo in silenzio.

Tetsurō mi fa sentire stupida.

Mi fa sempre sentire stupida.

Lui sa tutto e io mi sento stupida.

Se gli chiedo cosa ne pensa di un libro lui sa sempre cosa rispondere, e se gli chiedo se ne conosca uno va sempre a finire che l'ha già letto, se guardiamo un film mi spiega tutte le citazioni, se sto studiando ha sempre un modo per fare l'esercizio su cui sbatto la testa da ore che impiega solo pochi minuti.

Ho sempre trovato attraenti le persone colte.

Mai mi sarei aspettata di ritrovarmi in ginocchio per qualcuno che mi fa sentire stupida.

Amo sentirmi stupida, con lui.

Amo che mi insegni, che mi spieghi, che specifichi, che mi faccia notare.

Non capiscono un cazzo, i miei coetanei che vedo sempre alla ricerca dei cattivi ragazzi che non sanno mettere in piedi una frase e a malapena sanno leggere e che se la credono giusto perché quattro ragazzine stupide vogliono sentirsi meno noiose di quel che sono in realtà.

Tenetevi gli illetterati che credono di abbordarvi con qualche complimento vuoto e qualche patetico tentativo di seduzione.

Io mi tengo il mio bel professore che legge Dostoevskij per rilassarsi, mi corregge quando dico che ho "sognato un sogno" perché "è vero che la figura etimologica è una figura retorica però non è tanto bella da sentire nel parlato" e mi spiega perché le paraffine cosmetiche in realtà non siano scientificamente dannose per la pelle.

Riemergo dalle mie fantasie quando sento farsi silenzio tutto attorno a me.

Mi rendo conto in un attimo che ho gli occhi di tutti puntati addosso, e nonostante mi dia una sonora scarica di adrenalina essere al centro dell'attenzione, cerco Tetsurō con lo sguardo per capire cosa stia succedendo.

Mi fissa come se si aspettasse una risposta da me.

Mi ha chiesto qualcosa?

Dio, non me ne sono accorta.

Prendo fiato con calma.

– Scusi, non ho sentito, può ripetere? –

Sorride, deve avermi beccata in pieno a rimirarlo con la bava alla bocca.

E io che ci posso fare? Lo sa che effetto mi fa, lo sa che per quanto possa provarci mi perdo ogni volta che me lo ritrovo davanti.

– Ti ho chiesto perché non hai il camice. Non ne hai trovato uno della tua taglia? –

La mia vicina sussurra un "te l'avevo detto" che decido deliberatamente di ignorare perché no, non ho voglia di impiegare il mio tempo a risponderle, soprattutto non quando Tetsurō mi sta parlando.

– Devo metterlo per forza? –

Inarca le sopracciglia scure, per un istante pare chiedersi cosa intenda con queste parole, poi sospira piano.

– Temo di sì. Vieni qui, che ne cerchiamo uno insieme. –

– Ok, come dice lei. – rispondo, fingendo un fastidio che in realtà non provo, troppo euforica che mi abbia chiesto di avvicinarmi anche se siamo in mezzo a tutta questa feccia che ci guarda.

Scendo dal banchetto con calma, atterro sui tacchi senza vacillare, mi prendo il mio tempo per sistemarmi la gonna sulle cosce, sfilo fra le bocche chiuse dalla sua parte.

Tetsurō indietreggia verso l'armadio che immagino fosse quello che prima la mia compagna mi aveva indicato, liquida gli spettatori con un "potete iniziare con l'esperimento", guarda solo me per tutto il momento che impiego a raggiungerlo.

Sempre più mio ad ogni passo.

Sempre più la mia versione dell'uomo che amo.

Sempre più...

Apre l'anta dell'armadio dietro di me, lascia che ci copra dalla visuale altrui, il brusio del laboratorio pieno di studenti torna a farsi strada e in quest'angolo di mondo rinchiude noi, solo noi, nel barlume di privacy che essere distanti e coperti dagli altri ci concede.

Lascio perdere la facciata da studentessa.

Sbuffo, faccio il broncio, mi appoggio con la schiena al muro mentre incrocio le braccia.

– E dai, me lo devi proprio far mettere? Pure oggi che mi sono vestita bene? –

Ridacchia, anche il suo viso assume fattezze più rilassate, più oneste.

– Tu sei sempre vestita bene, Kenma. –

– Sì, ma oggi in particolar modo. –

Sposta lo sguardo verso di me, mi scorre con gli occhi lungo tutto il corpo, dalla testa ai piedi, si ferma sulle cosce strette dalla pelle della gonna.

– Questo non posso proprio negarlo. –

Qualsiasi lamentela potessi avere in mente si perde, e mi ritrovo solo a sorridere soddisfatta dell'apprezzamento.

Tetsurō torna a guardare le grucce piene di camici.

Io allungo una mano e la incastro nel passante dei suoi pantaloni facendo bene attenzione di essere coperta dall'anta dell'armadio.

– Quand'è che ti liberi, oggi? È tutto il giorno che aspetto che tu mi dia un minuto del tuo tempo, signor professore. –

Mi passa distrattamente una mano sul polso, sento le sue dita appoggiarsi contro l'anello che mi ha regalato.

– Mi sa che oggi siamo un po' alle strette. Ho una cena di lavoro e non posso fermarmi, stasera, e ho lezione fino alle sette. –

– Una cena di lavoro? –

– Già. Il Rettore ha assegnato la sperimentazione per la sintesi dei polimeri magnetici ad un mio collega ma sono mesi che si fanno finanziare ma non combinano niente e ho la sensazione che voglia chiedermi di metterci le mani. –

Mi lecco le labbra.

– Senza di te non sanno fare proprio un cazzo, eh? –

– Così sembrerebbe. – risponde, il sorriso che si fa strada fra i tratti del suo volto a indicare quanto gli sia piaciuta la mia risposta.

È vero, quello che diceva prima la mia compagna di laboratorio, lo sanno tutti e lo sa persino lui, che è vero.

Tetsurō è quanto di più distante da una persona umile uno possa immaginarsi.

Però non capisco dove sia il problema, onestamente, non riesco proprio a comprenderlo.

Che c'è di male a sapere di essere il migliore? Che c'è di male a sapere di essere perfetto?

È un narcisista, lo è, è palese.

Se non lo può essere lui, non vedo chi altri potrebbe.

Sposta le mani sul colletto del camice di fronte a sé. Pinza fra le dita l'etichetta, la guarda, poi guarda me.

Lo rimette dov'era.

Non era la taglia giusta.

Ricomincio a tirare il passante dei pantaloni.

– Quindi oggi non hai nemmeno un momento per me? Neanche uno? –

– Mi dispiace, Kenma, ma... –

– Io mi vesto tutta carina per te e tu mi rimandi a casa senza neanche toccarmi? –

Le sue parole si interrompono.

Ricomincia a guardare il mio corpo, pare che quasi non possa farne a meno.

Avanti, guardami, sì, guardami ancora.

Lo so che vuoi saltarmi addosso.

Mi basta solo che tu lo ammetta a te stesso.

Deglutisce, vedo la sua mascella irrigidirsi per un attimo.

Lentamente e facendo attenzione a non farmi vedere da nessun altro, allungo una gamba, strofino la caviglia contro la sua, lo osservo raggiungerla con lo sguardo, perdersi nel modo in cui il materiale così stretto mi avvolga.

– Puoi sempre fare la pausa in mezzo alle tre ore di laboratorio. Ogni tanto la fai. Giusto il tempo di andare nel tuo ufficio e mettermi un po' le mani addosso. –

Vedo l'ombra del dubbio passargli in viso.

È vero che la fa qualche volta, ma solo se l'esperimento è particolarmente complicato, solo se davvero sa che ne abbiamo bisogno.

Però...

– Ti prego, Tetsurō, fallo per me. Ti prometto che ne varrà la pena. –

Si ferma.

Ci pensa.

E dopo un attimo annuisce, liberando in me un miscuglio di felicità per averlo convinto e eccitazione all'idea di quello che mi aspetta.

Sorrido.

Ringrazio.

Se fossimo da soli lo bacerei.

Mi limito soltanto a stringergli piano la mano.

Tetsurō torna ai camici, ricomincia a guardarli, ma passato qualche istante scuote la testa, dice un "al diavolo" che quasi nemmeno io sento, si allontana da me e chiude l'armadio.

Alzo un sopracciglio per chiedergli che cosa intenda.

Mi guarda di nuovo le cosce per rispondermi che ho ragione, costringermi a coprirmi sarebbe un peccato, e che preferisce di gran lunga guardarmi vestita così.

Sorrido, mentre mi giro per tornare dai miei compagni.

Lo sapevo che gli sarebbero piaciuti, gli stivali e la gonna.

Quando torno al banchetto e mi risiedo com'ero messa prima con la totale intenzione di non muovere un dito per tutto l'esperimento, la ragazza del "te l'avevo detto" mi guarda stranita.

– Alla fine non te l'ha fatto mettere? –

Faccio spallucce.

– Non ne abbiamo trovato nessuno della mia taglia. –

Il tempo che passa prima che mi ritrovi ad allineare un piede dietro l'altro sul parquet che conduce all'ufficio di Tetsurō, sembra infinito.

Ogni minuto è più lento del precedente, più lungo, nemmeno guardarlo fare il suo lavoro mi aiuta a farlo passare più in fretta, tutto quel che riesco a pensare è lo scorrere dei secondi che mi separa da lui.

Tutta sprecata, quest'ora e mezza, tutta buttata via ad immaginare cosa succederà quando finalmente sarà conclusa, nulla più di una tortura interminabile.

Quando ha annunciato la pausa e ho dovuto aspettare quegli istanti precauzionali per non far capire che stessimo andando dalla stessa parte ho pensato sinceramente che sarei morta.

Quanto vuoi far aspettare una povera anima in pena, Tetsurō?

Non respiro, se tu non ci sei.

Vuoi farmi morire soffocata?

Vuoi distruggermi?

Vuoi...

Saluto con un mezzo sorriso la segretaria, non mi fermo neanche, supero la sua scrivania e m'infilo nel corridoio che ci separa.

Ogni centimetro un chilometro, ogni passo un valico, ogni secondo una vita.

Quand'è che smetteremo di essere così distanti, quand'è che smetterai di far finta che ci sia qualcos'altro al mondo oltre noi, quand'è che cederai alla consapevolezza che non vuoi niente che non sia io?

Quanto ancora devo dimostrarti che tu non sei più in grado di essere felice senza di me?

Perché io me ne sono accorta praticamente subito, che senza di te non c'è niente, tu invece sei più testardo.

Non busso, solo mi guardo alle spalle per controllare che non ci sia nessuno giusto per scaramanzia, poi abbasso la maniglia, apro la porta e me la richiudo alle spalle l'attimo dopo.

Dio, che sensazione mi fai provare.

Un amore così totalizzante che quasi mi fa male, un bisogno che sembra una preghiera, una boccata d'aria che più che aria è questa strana droga che mi rende assolutamente dipendente da te.

Mi dimentico di tutte le cose che non vanno in me, quando mi specchio nei tuoi occhi.

Mi dico che se tu, tu che sei perfetto, tu che hai fatto del mondo quel che volevi, tu che sei per chiunque t'incontri qualcuno da guardare dal basso, mi ami, allora non ho alcun motivo di sentirmi insignificante.

Se tu mi vuoi, allora chiunque nella mia vita non mi abbia voluta ha semplicemente sbagliato, perché tu hai sempre ragione, perché tu sai tutto.

Lo so che non è sana, questa nostra relazione.

Ma che sia sana non m'interessa.

M'interessa solo che mi faccia stare bene.

Quando Tetsurō si avvicina, mi limito a sorridere e ad aprire le braccia. Le chiudo dietro al suo collo quando il suo corpo aderisce al mio, sento la mia stessa voce ridere, gli occhi chiudersi, le labbra mescolarsi alle sue.

Sì, sì, sì.

È tutto il giorno che lo aspetto.

Sì, Tetsurō, ti prego, ti prego, ti...

Mi afferra le cosce e le tira su. Mi sposta come se non pesassi niente, mi stringe tanto da farmi quasi male, mi trascina verso l'interno dell'ufficio, mi fa sedere sulla sua scrivania ma non smette di baciarmi e non smette di tenermi ferma.

Mi sento sciogliere piano piano fra le sue mani, le articolazioni si fanno più morbide, la pelle più rilassata, la tensione defluisce e il calore inizia ad annidarsi sul retro della mia schiena, come un brivido che trema ogni volta che le sue labbra si muovono sulle mie.

Mi stacco col fiatone quando sento il tessuto dei collant iniziare ad appiccicarsi alle cosce.

Cazzo, ho capito che ho diciannove anni, ma è mai possibile che mi basti baciarlo e sono già ridotta così?

Beh, non che lui sia messo tanto meglio.

Chissà se sua moglie è in grado di farlo eccitare così in fretta.

– Contenta che abbia fatto la pausa? – mi sento chiedere, la voce bassa che mi entra nelle orecchie e finisce da tutt'altra parte.

Sbatto le ciglia verso di lui.

– Contentissima. Anche perché se fossi dovuta rimanere un altro minuto là dentro credo che sarei morta. –

– Morta, addirittura? –

Annuisco sporgendo appena il labbro inferiore.

– Morta e sepolta. Dover passare il tempo a guardarti senza poterti toccare è una tortura. –

– A chi lo dici. –

Sento le sue dita aprirsi di più su di me, tasta e tocca e strizza come se volesse ricordarsi anche la sensazione che gli do sulla pelle. Infila i polpastrelli sotto l'orlo della gonna, il nylon delle calze si sposta al suo contatto.

– Non so se dirti di venire a lezione vestita così più spesso o mai più, Kenma. –

– Ti distraggo? –

– Al tipo che è venuto a chiedermi quanti millilitri di acido cloridrico dovesse mettere nella reazione stavo per rispondergli di spostarsi che non riuscivo a guardarti il culo. –

Mi viene da ridere, lo faccio, divertita ma anche profondamente lusingata dalla mancanza di controllo che quest'uomo dimostra quando si tratta di me.

– Alla tua età ancora a pensare queste cose? –

– Lascia perdere, mi vergogno già abbastanza da solo. –

Rido di nuovo, si accoda a me, poi gli prendo i polsi e li tiro più su, più in alto su di me.

– Comunque se ti piace così tanto puoi anche toccarlo, Tetsurō, sai che puoi farlo. Non c'è mica bisogno di guardare da lontano. –

Sorride.

– Posso? – chiede, ed è una domanda platealmente retorica.

– Ti prego. – rispondo, prima di chiudere di nuovo gli occhi e lasciare che mi baci di nuovo.

Amo come mi tocca.

Nessuno mi ha mai toccato in questo modo prima.

Sono sempre stati tutti troppo cauti, con me, come se fossi fatta di vetro o di porcellana.

So che Tetsurō mi vede come se fossi fragile e delicata ma non mi tocca in quel modo, mi tocca come se volesse rompermi, persino farmi male, tutto per poter imprimere se stesso su di me al massimo grado possibile.

È possessivo, è aggressivo, forse vagamente violento.

Mi ama con dolcezza ma mi tocca con urgenza.

Sembra non possa fare a meno di me.

La sensazione è disarmante.

Ci stacchiamo di nuovo, il cuore mi batte forte nel petto.

Cerco i suoi occhi e aspetto che me li rivolga.

Respiro con la cassa toracica che trema quando m'inchioda sulla scrivania solo concedendomi di guardarlo.

– Quanto tempo abbiamo? –

Ho l'impressione che fissi più le mie labbra dei miei occhi.

– Venticinque minuti al massimo. –

– Bastano secondo te? –

– Dipende da cosa vuoi fare. –

Sa perfettamente cosa voglio fare, lo sa meglio di me, cazzo. Non so se lo odio o lo amo quando fa così, perché mi eccita che mi rigiri sulla mano come un giocattolo, ma m'imbarazza che mi guardi dritto negli occhi mentre cerco di spiegargli le mie intenzioni.

Essere volgare è facile solo se sono io a prendere di sorpresa lui.

Quando me lo impone è...

Non so cosa dire.

Rimango in silenzio.

Questo non fa che incurvare il suo sorriso.

– Vuoi chiacchierare, Kenma? Vuoi raccontarmi della tua giornata? Se vuoi ti racconto della mia. Stamattina Mae mi ha svegliato verso le... –

Il mio corpo si contrae, come la mia mente, mi esce dalla gola un lamento di puro fastidio.

– No, no, non voglio, non voglio. Non mi parlare di lei. –

Detesto che lo faccia.

Io posso parlare di lei, io posso stuzzicarlo e punzecchiarlo e dargli fastidio ricordandogli della sua esistenza quando è troppo perso per ricordarsene. Addirittura forse mi piace farlo, perché mi mette nelle condizioni di capire quanto lui sia pronto a perdere per me.

Però se è lui che la tira fuori, lui che ancora si tiene legato a lei quantomeno dall'affetto, allora...

– Non vuoi che ti parli di Maeko, Kenma? –

– No, cazzo, sei qui con me, non con lei. È a me che devi pensare. –

Avvicina il viso al mio, le punte dei nostri nasi si sfiorano.

– Lo dici come se non lo facessi sempre. –

Il broncio si scioglie, sento un sorriso comparire al suo posto.

– Mmh, davvero? –

– Davvero. –

Mi bacia piano, giusto un attimo.

Poi torna dov'era prima.

– Allora, se non vuoi che ti parli della mia giornata possiamo parlare di... –

– Non voglio parlare. –

– No? –

– No. –

Ridacchia, la sua mano mi stringe il fianco, scende di nuovo sulla coscia, si avvicina piano verso l'interno.

– E chi l'avrebbe mai detto. –

Sale con le dita, sale verso il centro delle mie gambe, ma si ferma prima di toccarmi, ad un centimetro di distanza dal punto dove vorrei avere le sue mani adesso.

Mi guarda come se si aspettasse qualcosa.

E dato che a dirglielo non ce la faccio, perché quando mi guarda mi sento molto meno sicura di me di quanto non finga di essere in realtà, allora glielo mostro coi gesti.

Gli stringo il polso fra le dita e me lo sposto addosso.

La mia voce trema al contatto e quel brivido sulla schiena si assesta là, fra le mie cosce, proprio dove ho appoggiato il palmo della sua mano.

Mi muovo contro di lui prima di riuscire a fare qualsiasi altra cosa.

Merda, anche solo sapere che è lui mi fa...

– Non lo so se abbiamo tempo per questo, Kenma, sai? –

Spalanco gli occhi che, non so quando, avevo socchiuso e cerco il suo viso.

Non sembra serio.

Ma non sembra nemmeno...

– No? Neanche un pochino? –

– Temo di... –

Stringo il suo polso più forte, lo premo più forte contro di me.

Credo si renda conto di quanto umidi siano i miei collant, ora, perché la sua espressione si fa appena appena diversa.

– Ti prego, Tetsurō. Ti prego, ti prego, anche solo una volta, anche in fretta, ti prego. –

Non risponde, mi guarda e basta.

– Per favore. Per favore, per favore, ti prego, solo una volta, poi basta, però una volta, una volta, una... –

Stringe le labbra fra loro.

– Una sola, ok? –

Il sollievo che provo non fa altro che infiammarmi di più.

– Una, una, solo una, però adesso, adesso o... –

Non faccio in tempo a smettere di dire qualsiasi cosa stessi dicendo che mi sento spingere indietro, con la schiena sul legno scuro della scrivania, e un paio di mani molto più grandi delle mie stanno tirando in alto sui miei fianchi la gonna che ho messo stamattina.

Lo guardo fra le mie gambe aperte fissarmi come se si stesse nutrendo del mio solo aspetto, ha le pupille dilatate, le dita sulla cintura dei pantaloni, la mascella contratta.

Ti amo, Tetsurō, come potrei non farlo, guardati.

Sei perfetto in tutto quello che fai.

Non c'è niente, niente che tu non sappia fare.

Sai come toccarmi e sai come guardarmi e sai come farmi star bene, sai essere la persona che sei fuori da qui che si bea dell'autorità naturale che possiede e sai perdere il controllo per farmi sentire speciale.

Come potrei non...

Abbassa la zip dei pantaloni.

Rimette le mani su di me, credo voglia sfilarmi i collant ma non li sfila, ne prende una parte accanto alla cucitura e tira, finché di fronte ai miei occhi il nylon non si smaglia e si rompe lasciandomi scoperta.

Mi ha...

– Non c'è tempo per fare le cose con calma, quindi mi perdonerai se faccio un po' in fretta. –

Mi sposta le mutande di lato – che chiamarle mutande poi è un crimine, perché la striscia di tessuto è davvero minuscola – e si lecca le labbra, per un secondo guarda e basta.

– Dio, ci credo che mi preghi, sei ridotta ad un casino, Kenma. Da quant'è che sei così? –

Da quant'è che sono...

Mi nascondo a fissare un punto indistinto dietro la sua testa.

– Da stamattina. –

– Da quando ti ho chiamata? –

Annuisco.

Lo sento ridere, è quasi... sprezzante, anche se percepisco l'affetto sotto a quel suono che sembra prendermi in giro.

– Forse dovrei chiamarti più spesso. –

Si abbassa i boxer, si tira una delle mie gambe stesa contro la spalla, mi piazza una mano sopra alla bocca e entra dentro di me.

Ha fatto bene a impedirmi di emettere alcun suono, perché non l'avesse fatto...

È tanto.

È troppo.

È un uomo alto più di due metri che si fa strada dentro il mio esile corpicino diciannovenne tutto d'un colpo, senza aspettare e senza nemmeno dirmelo, è...

Doloroso? Piacevole?

Entrambi.

Fa male, perché dire che non faccia male sarebbe una menzogna, ma arriva così in fondo che tocca tutti i punti giusti, anche quelli che non sapevo esistessero.

So che avrò problemi a camminare dopo.

Ma so anche che qualcosa del genere, io non l'avevo mai provata.

Lo guardo con le lacrime agli occhi.

Ha la mascella contratta, so che è uno shock anche per lui all'inizio, ma gli basta un secondo per riprendersi, perché le sue pupille si rifocalizzino su di me.

Mi sorride.

Non toglie la mano dalla mia faccia.

Inizia a muoversi e io inizio lentamente a lasciarmi andare sul legno della sua scrivania.

Non mentiva quando diceva di dover fare di fretta.

Non è tenero, non è pacato, non è paziente.

È letteralmente il suo corpo che fa del mio quel che vuole.

Mi sembra sempre più a fondo ogni volta che rientra dentro di me, sempre più violento, soffoco i gemiti e le parole e le urla sul palmo che mi tiene premuto contro la bocca, le lacrime mi vengono praticamente spremute fuori dagli occhi, sento la schiena tendersi, le cosce tremare, l'incrocio delle mie gambe farsi inevitabilmente sempre più bagnato.

Sono costretta a tirare indietro una mano per cercare di tenermi al bordo del tavolo.

Mi sembra di venir sbattuta avanti e indietro con così tanta foga da non riuscire più nemmeno a vederci bene.

Amo quando mi fai questo, Tetsurō, lo sai?

Lo amo.

Lo amo più di quanto ami ogni altra cosa.

Amo come mi guardi, come mi tieni, come sembra ogni volta che tu non voglia più uscire dal mio corpo.

Amo come stringi la mandibola, come dici il mio nome a mezza voce, come stringi la mia gamba che trema per tenermi ferma.

Lo so che con lei non lo fai, questo, lo so che non lo fai con nessuno.

Lo so che lei non la vuoi come vuoi me.

Lo so che scopare me, che sono più bella, che sono più giovane, che ti amo di più, è meglio qualsiasi cosa tu abbia fatto con lei.

Me l'hai detto tu.

Me lo dimostri ogni giorno.

Quella deve solo ringraziare che io abbia deciso di essere paziente, perché se non fosse così, io non ti lascerei tornare da lei, non ti lascerei trovare da solo la strada per dirle che non c'è più spazio per lei qui.

Entra così a fondo dentro di me che si sposta la scrivania.

Il rumore è secco, violento, mi fa sussultare e dopo avermi fatta sussultare mi fa gemere un pallido tentativo del suo nome contro la sua mano.

Non può toglierla perché sa che il secondo in cui mi lascerà libera di parlare sarà il secondo in cui mi metterò a urlare il suo nome così forte che tutto l'edificio si chiederà se mi stia scopando o uccidendo a mani nude.

Non è colpa mia, sono sempre stata una tipa che fa casino quando fa sesso.

Se ci si mette poi anche lui, che non so mai se stia facendo quello o mi stia aprendo in due, è logico che...

Entra ed esce di nuovo, quasi non me lo aspetto, sussulto di nuovo, più forte.

Mi guarda fra le ciglia.

– Cazzo, Kenma, piano. –

Sbatto le palpebre per chiedere scusa.

Lo rifà.

Sussulto più forte ancora.

Non è colpa mia, non è colpa mia, è colpa sua, è...

– Ti ho detto di fare piano. – ripete, la venatura ambrata dei suoi occhi meno gentile, più...

Mi prende la faccia con la mano. Più che tapparmi la bocca mi afferra proprio dalla mascella, mi sento spingere contro il legno più forte, la schiena inizia a farmi male, il retro della testa con lei.

Quando si muove di nuovo è ancora più aggressivo.

– Ce la fai a fare piano? Eh? –

Ci provo.

Io ci provo, giuro che ci provo, ma la mia voce esce da sola e...

– Ci riesci o dobbiamo per forza far sapere a tutta la cazzo di Università di Tokyo che ti piace farti scopare durante le pause? –

So che sto piangendo e le lacrime sono così tante che la mia vista è sfocata, le dita mi sfuggono dal bordo della scrivania e non riesco a reggermi, mi fa male la schiena, la scrivania è troppo rigida e...

E...

Ancora.

Ancora, ancora, ancora, ancora, anco...

– Se ti piace così tanto la prossima volta scopiamo direttamente in laboratorio davanti a tutti, Kenma, così lo vedono come sei. –

Sì, ti prego, ti prego, ti prego, così sapranno quanto mi vuoi e sapranno di chi sei e sapranno che qualsiasi cosa tu mi faccia io sarò sempre l'unica a cui vuoi farlo e...

Gemo più forte, il rumore è soffocato ma c'è, ed è chiaro, è forte.

– Gli diciamo chi devono ringraziare per la pausa di mezz'ora in mezzo alla lezione, sono sicuro che saranno tutti molto contenti di sapere che è merito tuo. –

Mi tremano le ginocchia, forte che nonostante cerchi di tenere la gamba libera attorno alla sua vita quella finisce giù, inerme, come svuotata dei muscoli, a saltellare nell'aria mossa dai suoi movimenti su di me.

Sento gli occhi rilassarsi e cadere indietro, non ho il controllo nemmeno di quelli.

Non voglio nemmeno sapere in che condizioni ho i capelli che stamattina ho anche tentato di lavare.

– "È tutto merito di Kenma che se sta ventiquattr'ore senza farsi sbattere non sopravvive". –

È vero, è vero, lo sai anche tu che è vero e vorrei che lo sapessero anche gli altri, che io senza te non so stare, che io senza di te non sono niente, che io sono tua e che voglio essere tua e che...

– Magari quella banda di idioti capirebbe perché nonostante tu non faccia un cazzo a lezione rimani comunque la mia preferita. –

La tua preferita, Tetsurō?

Sì che lo sono.

Lo sono, lo sono e non lo è nessun altro, solo io, io e basta.

Io sono...

– "Kenma è la mia preferita perché è una ragazza molto intelligente". –

Mi scappano le dita dal bordo della scrivania.

Smetto praticamente di vederci.

Il mondo per me è solo Tetsurō che entra ed esce dal mio corpo.

– "Perché è molto bella". –

Tremo ovunque.

Le mani, le cosce, le spalle.

Non riesco a smettere.

Mi sembra di sentire la mia stessa eccitazione colarmi fra le cosce e sgocciolare a terra ma non so che farci, non so come, non so...

– "Perché la amo come non ho mai amato nessuno prima". –

Mi toglie la mano dalla faccia.

Mi tira su, di fronte a sé, poi stringe le dita fra i miei capelli e mi costringe a piegare indietro la testa, a guardarlo, ascolta i versi che non posso fare a meno di gemere più chiari e più nitidi.

– "E perché aspetta tutto il giorno di vedermi solo per poter urlare il mio nome e pregarmi di scoparla sulla prima superficie a tiro." –

Lascia andare la mia gamba.

Infila la mano fra noi.

Muove le dita esattamente dove deve muoverle.

Mi bacia giusto in tempo per evitarmi di urlarlo davvero, il suo nome, mentre il mio corpo reagisce inevitabilmente al suo e l'orgasmo mi attraversa come una scarica elettrica.

Non so niente, per qualche istante.

Non so nemmeno chi sono, figurarsi dove, perché, quando, dove.

So solo chi sia lui.

So che è Tetsurō, so che la voce è la sua, le mani fra i capelli sono le sue, è lui dentro di me.

Mi immerge nella sua luce e io mi ci perdo dentro, perché mi sento al caldo, mi sento tranquilla, mi sento amata.

Nessuno oltre te, nessuno prima, nessuno dopo.

Io ho bisogno che gli occhi dentro cui vivo siano i tuoi.

Perché non c'è motivo per cui qualcuno che brilla forte quanto brilli tu debba volermi, e il fatto che tu lo faccia comunque m'insegna che sono gli altri, tutti gli altri a sbagliarsi, e che in fondo, io, alla fine, così schifo non faccio.

Se mi ami tu perché dovrei?

Tu ami solo ciò che è perfetto.

E questo comprende te stesso, e comprende anche... anche me.

Mi accascio contro di lui completamente priva di energia, mi trattengo contro il suo collo con l'unica briciola di forza rimasta, lo stringo forte, rispondo al bacio.

Quando si stacca mi guarda senza chiedere nulla.

Io annuisco.

Lascio che usi quel che rimane di me per finire a fondo dentro al mio corpo.

È così bello.

Stringe i denti e la forma della sua mandibola è rigida, perfetta, netta come quella di un uomo adulto, non ingentilita dalla fine dell'adolescenza come quella dei miei coetanei.

Ha le spalle larghe, sento i muscoli contrarsi sotto le mie dita, ha le vene in superficie sulle mani, la voce calda e bassa e così maschile.

Io ti amo troppo perché sia sano.

Ti amo così tanto che perdo il senno ogni volta che si tratta di te.

Ma come potrei non farlo?

Come potrei?

Mi aggrappo a lui quando lo sento avvicinarsi, chiamo piano il suo nome quando anche lui si lascia andare, mi godo la sensazione di sentirlo parte di me.

Tu sei mio.

Tu sei nato per essere mio.

Prima o poi sarai mio, anche se dovessi uccidere qualcuno, anche se dovessi trasformarmi nel mostro che ogni giorno mi avvicino ad essere, anche se dovessi diventare completamente folle per ottenerlo.

Tu rimarrai con me.

Perché altrimenti, io di me non saprei che farmene.

Senza di te io non sono più niente.

I muscoli delle sue braccia si rilassano sotto i miei polpastrelli. Li sento addolcirsi, farsi più malleabili, il suo respiro diventa più profondo, il suo cuore batte sempre meno veloce.

Lascia andare il mio corpo.

La stretta si fa meno violenta e più gentile.

Appoggia la fronte contro la mia spalla, riprende fiato, mi accarezza piano le gambe che ancora tremano, i fianchi, la vita.

– Ti amo così tanto, Kenma. Lo sai che ti amo, vero? –

– Lo so, Tetsurō. Lo so. –

Certo che lo so.

Se non lo sapessi non riuscirei nemmeno a respirare.

Mi bacia una guancia, uno zigomo, il bordo delle labbra, mi guarda negli occhi e preme la bocca sulla mia, una mano sul fianco, l'altra sul collo che devo tendere per raggiungerlo.

– Anche io ti amo, Tetsurō. –

– Sì? –

– Sì. –

Sorride contro di me, mi bacia di nuovo, con più intenzione, con più dolcezza.

Non so quanto duri.

So solo che non è abbastanza.

Anche se lo vorrei, non è abbastanza.

Si stacca piano e sospira.

Torna alla realtà delle cose guardandosi l'orologio.

– Dobbiamo tornare? – gli chiedo, cercando anche solo per un attimo di tenerlo con me.

– Mi sa di sì. Ho detto che la sperimentazione sarebbe ricominciata due minuti fa. –

– Cazzo, siamo andati un po' lunghi. –

– Ne è valsa la pena. –

Lo bacio io, si lascia baciare, esce dal mio corpo e in un paio di secondi si risistema. Quando si stacca da me è come nuovo, forse coi capelli un pelo più arruffati, ma niente di più.

Io non voglio nemmeno saperlo come sono conciata.

– Come sto? –

– Perfetto come al solito. –

– Tu sei... –

– Lasciamo perdere. –

Ridacchia, mi offre una mano per tirarmi su ma scuoto la testa.

– Vai. Faccio da me. Siamo in ritardo –

– Non vuoi che ti aiuti? –

– Sì che lo voglio, ma se io arrivo in ritardo è un conto, se arriviamo tutti e due in ritardo assieme è un altro. –

– Sicura? –

No.

Sono sicura del contrario.

Sono sicura del fatto che vorrei che rimanessi qui e che vorrei rientrare in quel laboratorio di merda appesa al tuo braccio, tua, assieme a te.

Ma devo avere pazienza.

Tutto quello che devo fare è avere pazienza.

Annuisco.

– Sì. Vai, su, prima che ti diano per disperso. –

Mi guarda un'ultima volta, si china e mi bacia di nuovo.

– I fazzoletti sono nel secondo cassetto a destra. Se hai bisogno di qualsiasi cosa mi chiami e arrivo subito, ok? –

– Ok. Grazie, Tetsurō. –

– E di che, per te questo ed altro. –

Sorrido, reciproca l'espressione, si risistema i pantaloni giusto per abitudine, poi si allontana verso la porta.

Prima che esca tiro su la testa.

– Posso chiederti solo un'altra cosa? –

– Dimmi. –

Prendo fiato con calma.

– Tu lo sai perché al mio gruppo non viene quella reazione di merda che dovrebbe venirci? Le mie compagne di corso sono una più scema dell'altra ma devo ammettere che anche io non riesco a capire dove sbaglino. –

Mi rivolge uno sguardo che non so come definire, se affettuoso o divertito.

– L'errore che fate è uno di quelli di cui ho parlato a lezione settimana scorsa. Tu non mi ascolti proprio mai quando insegno? –

– Sono troppo impegnata a pensare che sei bello per farlo. Ora dimmi cos'è che sbaglio, per favore. –

Ridacchia.

– Com'è che si ossida l'oro, Kenma? –

– Con l'acqua magica, e allora? –

– Acqua regia, non acqua magica. Com'è fatta l'acqua regia? –

– Acido cloridrico e nitrico. –

– In che proporzioni? –

Aggrotto le sopracciglia.

– Che è, una lezione o un suggerimento? Dimmi cosa sbaglio e smettila di trattarmi come se fossi una cretina. –

Ride quando gli faccio il broncio, e sentirlo ridere m'impedisce di fingermi offesa.

– È un composto molto instabile. Non potete farlo un'ora prima e sperare che funzioni, dovete farlo e usarlo subito. E poi dovete farne meno. Se ne fate un litro è completamente inutile. –

– Quanto dobbiamo farne? –

– Trenta millilitri di cloridrico al trentasette percento e dieci di nitrico al al sessantacinque. L'acido nitrico va messo una goccia alla volta. Mischiatelo con delicatezza. –

– Ok, ci sono, grazie. –

Mi sorride, mi specchio nei suoi occhi, mi sembra mi guardi come se non ci fosse niente oltre me.

– Ora vado. –

– Vai. –

Mi fissa l'ultima volta.

Mi ama, mentre tiene lo sguardo su di me.

E poi richiude la porta alle sue spalle e mi lascia sola, stesa sulla sua scrivania a guardare il soffitto, più stanca di prima, con le gambe che non reggeranno fino a stasera dentro questi stivali belli sì, ma troppo alti, e le calze strappate.

Per qualche istante respiro e basta.

Poi prendo la cornice all'angolo del tavolo, che so benissimo essere là e che guardo sempre quando Tetsurō non si accorge.

La porto di fronte alla faccia, la guardo.

Odio questa foto.

Sembrano così felici, lui perfetto come al solito e lei col vestito bianco e il velo fra i capelli mossi.

S'intravede il mio riflesso nel vetro di fronte all'immagine.

Mi guardo dentro la foto del matrimonio dell'uomo che amo.

Povera donna, tua moglie, proprio non si è mai resa conto di nulla nella vita.

Il cielo l'ha benedetta dandole te, che sei tutto quello che chiunque vorrebbe, e lei non si è manco preoccupata di tutti gli stronzi che un giorno avrebbero provato a portarti via.

Non è tagliata per stare con te, Tetsurō, lei ti dà per scontato.

Brilli sempre un po' di meno quando ti vedo dopo che sei stato con lei.

Ti appanna.

Ti oscura.

Non sa come farti star bene.

Io invece lo so.

Ed è per questo, che alla fine, ti renderai conto che l'unica cosa che vuoi dalla vita, l'unica, sono sempre stata io.

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

OK SURPRISEEEEEEEEEEEE

pardon raga ma mi mancava troppo kuro vecchio per me è una droga cioè lo sogno la notte lo sogno il giorno lo sogno sempre lo amo i need it doveva tornare è tornato (continuerà a tornare perché periodicamente inizio a sentirne la nostalgia)

QUINDI NIENTE DUE COSE

1) COME VI SEMBRA IL POV DI KENMA? ero super contro a inserirlo all'inizio perché mi piaceva che kenma esistesse solo dietro lo sguardo di kuro però poi mi sono anche detta che ci serviva di vedere un po' kuro dietro lo sguardo di kenma perché ho letto un po' di commentini che speculavano su cosa pensasse davvero di kuro e che mettessero in dubbio che lo amasse e allora ho deciso di CONFUTARE OGNI DUBBIO. NON è KURO PAZZO. SONO TUTTX E DUE. JULIA X AMORE OSSESSIVO RECIPROCO.

2) vi è piaciuto? sono ancora capace di scrivere sti due cristiani?

3) domani esce new americana

niente basta fine eccovi diecimila parole di julia pazza per i vecchi ci vediamo prestissimo un bacione

mel :D

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