L'impasto

La spalla un po' le doleva, la causa era lo strattone subito per la partenza improvvisa dell'autobus che aveva serrato le porte prima che riuscisse a prenderlo. Per poco non le aveva chiuso la mano tra queste. Meno male che era riuscita a ritirarla in tempo.
Non importava, una volta a casa avrebbe risolto.

Aveva fretta ora.
Un importante colloquio di lavoro l'attendeva.

Sì specchiò in una vetrina.
Odiava la forfora.
Si spolverò la giacca.

Il palazzo in cui erano gli uffici era nel Centro direzionale della città. Era al, no, non al, l'ufficio era! il trentesimo piano di un palazzo in vetro e cemento.

Si accorse di lasciare una scia di sporco fangoso e appiccicaticcio al suo passaggio.
Dannazione alla pioggia.

Prima di prendere l'ascensore si diresse verso i bagni.

Asciugò la folta chioma bionda e tamponò gambe e braccia con una delle tovagliette di spugna messe a disposizione nei bagni, sporcandola con aloni di crema bianca.

L'ascensore partì proprio mentre lei arrivava.
Stronzi...
L'avevano vista e, invece di premere il bottone per ritardare la partenza, avevano pigiato quello per l'avvio rapido.

Prese quello a fianco appena giunto, da dove le persone uscite si precipitarono quasi correndo all'uscita.
Nessuno entrò ai vari piani, forse perché era l'ascensore più piccolo e, vedendolo occupato già da una persona, gli altri preferivano aspettare il successivo, nonostante lei si fosse rintanata in un angolino.
Tutta colpa di quella maledetta pandemia che aveva terrorizzati tutti su possibili contagi dovuti alla vicinanza.

Il trentesimo, e ultimo piano, era tutto occupato dagli uffici della società. L'ingresso era un'ambiente enorme, con immense vetrate, se non avesse saputo di essere a Napoli avrebbe pensato di essere stata teletrasportata in Giappone.

Tutti erano impegnatissimi, tanto che appena cercava di avvicinarsi per chiedere informazioni, sì chiudevano nei vari uffici. La segreteria alla reception era andata via proprio nel momento in cui stava per entrare. Doveva essere stata colpita da un attacco di enterocolite, vista la fretta con cui si era chiusa in bagno.

Riuscì a trovare da sola il luogo del colloquio. Fuori l'ufficio c'erano già altre tre candidate. Non la degnarono neanche di uno sguardo mentre rispondevano al suo saluto con un filo di voce, impegnate com'erano a rileggere il proprio curriculum.

Quando fu chiamata ad entrare era emozionatissima. Restò di stucco nel vedere il lusso che regnava nell'ufficio e quasi le mancò il fiato.

Il direttore dell'azienda era un uomo anziano, prossimo alla pensione, con un viso rubicondo, una spianata sulla testa di cui lei, avendo in quel momento l'uomo il viso abbassato poiché intento a consultare dei documenti, ne poté cogliere il pieno la lucidità, e un paio di occhialini tondi completavano il quadro.

Lei si schiarì la voce e cortesemente salutò.

L'uomo senza né guardarla, né salutarla iniziò con: «Signora Giovanna, leggo con piacere che si è laureata con pieni voti in economia, che ha anche conseguito un Master e anche varie esperienze di lavoro all'estero. Mi compiaccio, sono proprio giovani come lei che la nostra azienda cerca, intraprendenti e che non si tirano in dietro se si tratta di viaggiare.»

Alzò al fine la testa.
Sì ritrasse sulla sedia.
Sbatté gli occhi.
Li spalancò.
Spalancò la bocca in un grido silenzioso.
Guardò la mano tesa della donna e il suo sorriso compiaciuto.
Scattò di in piedi.
Portò una mano al petto.
L'altra a cercare disperatamente di allargare il colletto della camicia.
Iniziò ad ansimare.
Divenne completamente rosso.
Emise un rantolo soffocato.
Crollò di nuovo seduto.
La testa sbatté sulla scrivania.
Le braccia in giù.
Le punte delle dita a sfiorare il pavimento in parquet.

Giovanna lo guardò strabiliata per qualche secondo. Raccolse la sua borsetta, prese il curriculum che la riguardava sfilandolo da sotto il viso dell'ormai ei fu direttore, e pensò bene di andare via prima che la trottola impazzita, che la morte del principale per infarto avrebbe scatenato, prendesse vita.

Arrivò a casa in pochissimo, ora che non pioveva più non aveva nessun bisogno di prendere un autobus, e a piedi casa sua distava da lì quindici minuti.

Aprì e richiuse la porta; gettò borsa e curriculum vitae sulla panca nell'ingresso; poggiò le chiavi nella cassettina apposita.

«Gió? Dove sei?» chiamò.

«Ah, eccoti qui!»

Osservò, inclinando la testa fino a toccare la spalla con la tempia, la giovane donna seduta in poltrona.

Le sorrise.
«Guarda...», disse indicandomi la spalla, «si è staccata! Eppure te lo avevo detto che dovevi fare l'impasto più consistente. Non hai proprio imparato nulla in questi mesi di quarantena a impastare pane e pizza tutti i giorni?»

Stizzita si strofinò il viso impiastricciandosi così la mano bianca come la farina con il rosso della salsa di pomodoro che le imbellettava le guance.

Giò, sembrò quasi dispiaciuta.
Una lacrima le scivolò lungo il viso fermandosi sulla fascia di impasto che le copriva la bocca e le fermava il capo allo schienale della seduta andandosi ad annotare dietro questo.
Le mani non poterono asciugarla poiché immobilizzate da due gustose ciambelle ai braccioli. Le caviglie bloccate ai piedi della poltrona da strisce di lasagna non poterono scalciare.

L'ultima cosa che vide fu un pezzo di impasto che scivolava fuori dalla ciotola caduta e andava a risanare la spalla di Giovanna, poi l'impasto lievitò, lievitò e lievitò sempre più, fino a ricoprirle naso e occhi.

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