12. Cocci
Duecentosettantanove giorni prima.
"E siete stati coinquilini?" domandò Midoriya interessato, ridacchiando insieme a tutti gli altri al tavolo della mensa dell'Università.
"Puoi scommetterci, bro!" rispose arzillo Kaminari, ed io mi preparai mentalmente a riascoltare e rivivere per la centesima volta quella storia, che mi faceva sempre piegare in due dalle risate.
A posteriori, ovviamente.
Lì per lì avevo scansato l'infarto per un pelo.
Infatti, proprio come previsto, il Biondo iniziò con l'esilarante racconto.
Ci fu un periodo della mia vita in cui condivisi l'appartamento con Denki e Sero, dal momento in cui ci trasferimmo a nord della Nazione per prendere parte ad un lungo festival artistico.
Proprio allora si svolse il misfatto.
"Allora, era il giorno di Carnevale, ed io volevo travestirmi, ma i signorini qui a fianco hanno preferito continuare a lavorare ad un progetto che avrebbero dovuto esporre il giorno dopo".
"Che razza di stronzi." commentò Mina sarcastica, divertita nonostante conoscesse anche lei tutto il racconto a memoria.
"Le dirimpettaie di appartamento però decisero di festeggiare tutta la cazzo di notte, con addosso dei costumi bellissimi, per giunta!"
"Così te le sei scopate in gruppo mentre Capelli di Merda e Faccia Piatta lavoravano al posto tuo?"
"K-KACCHAN!"
"Dannazione, perché non l'ho fatto?"
"Ti avrebbero preso a calci, va' avanti." lo rimproverò secca Yaoyorozu, senza nemmeno alzare gli occhi dall'enorme tomo all'interno del quale aveva immerso il nasino.
"Vabbè, insomma, non dico che fossi geloso, ma-"
"Eri geloso. Prosegui".
"Okay, forse un pochino, ecco, tanto così. Dunque mi sono seduto a cavalcioni sulla finestra, rischiando pure la vita con il 70% di corpo a penzoloni nel vuoto, e ho guardato Kiribro diritto nelle palle degli occhi".
"Le palle degli occhi?" Mina soffocò una risatina.
"Le palle degli occhi." s'infiammò quello, indicandosi le pupille e ficcandosi irrimediabilmente un dito nell'occhio.
"Vai avanti tu, Sero, me ne sono appena fottuta una".
L'amico ridacchiò di gusto, prendendo le redini in mano e proseguendo.
"Beh, ha guardato Kiribro e ha detto:
-Se non ci travestiamo, io mi butto-.
E a quel punto, che altra scelta avevamo, insomma?"
"Farlo buttare".
"Kacchan, piantala!"
Sorrisi.
Non piantarla mai.
"Soltanto che ovviamente non avevamo portato niente in vista dell'occasione, a parte i nostri vestiti".
"Così ebbi un'idea!" ricominciò il Biondo, tappandosi l'occhio infortunato con la mano e poggiando la forchetta sul piatto oramai vuoto.
Una risatina soffocata mi uscì dalle labbra.
"Ci travestimmo da... Noi!"
"Noi?! Cioè, voi? In che senso, Denki-kun?"
"Ti domandi anche il senso, MerDeku, davanti a questi?"
Kaminari sorrise, per poi proseguire trionfante.
"Nel senso che io mi vestii da Kiribro, Kiribro da Serobro, e Serobro dal sottoscritto!"
"Dunque, ricapitolando, hai minacciato di defenestrarti per indurre i tuoi amici a scambiarsi i vestiti?"
"Non solo, Todoroki-kun. Non solo." intervenni rassegnato.
"Beh, la vita nei panni di Kiribro risultò alquanto noiosa. Anche se ci eravamo travestiti, le fanciulle alla finestra di fronte si divertivano più di noi, diamine!"
"Dunque hai convinto anche loro a vestirsi da Kirishima e Sero?" gnignò Momo sarcastica.
"No. Mi sono levato una scarpa e gliel'ho lanciata a 300 km/h sul vetro della finestra".
Poi, di nuovo Katsuki.
"Ma drogarti come tutte le persone normali era troppo noioso?"
Andò avanti Sero.
"La scarpa ovviamente era quella di Kiri, perché Denki era vestito da Kiri".
"Interessante, questo dettaglio".
"Non è interessante, mia cara Momo, è ESSENZIALE. Il vetro si frantumò, ed ero stato io. Ma io non ero io, ero Kiri! E, ancora, io non ero io, Sero era me! Dunque chi era stato davvero? Intendo, davvero-davvero?"
"Spiegami perché questa idiozia dovrebbe essere essenziale".
"Perché è quello che abbiamo raccontato alla polizia due ore dopo".
L'intero gruppo scoppiò in una fragorosa risata.
"Ebbene sì, li abbiamo confusi. Non sapevano più che pesci prendere!"
"Così anziché i pesci, hanno preso la scarpa del delitto, e hanno chiesto a chi appartenesse l'altra." proseguì il Corvino.
"Chiaramente apperteneva a Kirishima, ma io ero Kirishima, e Kirishima era Serobro! È un maledetto cane che si morde la coda, capite?"
"Quindi com'è finita?"
"Nel dubbio, hanno multato tutti e tre".
"Fantastico, direi." commentò Mina, divertita come sempre.
"Beh, le abbiamo pagate con i soldi del premio".
"Che premio?"
"Quello per l'installazione che stavamo preparando, e che non abbiamo potuto finire perché abbiamo passato la notte in caserma ad essere interrogati. Kiribro, la mattina seguente, era talmente incazzato con noi che sul piedistallo ha deciso di mettere la scarpa gemella, quella appaiata con l'arma del delitto, intitolando l'opera io, tu, lui".
Fu Sero a concludere.
"Vinse il primo premio. La interpretarono come un'opera d'arte moderna. La scarpa, simbolo del cammino, e tre soavi parole, IO, TU, LUI. Perché nella vita bisogna sempre indossare le scarpe dell'altro prima di giudicare".
"Amen." sussurrò Denki teatrale, godendosi le reazioni dei compagni divertiti.
Anche Katsuki lo sembrò.
Per lo meno, aveva ascoltato tutta la storia da inizio a fine, senza alzare i tacchi svogliato, come spesso faceva.
"Ragazzi, in ogni caso stasera potremmo tutti vederci all'Aizawa, che ne dite?" esordì a quel punto Deku.
Una richiesta piuttosto insolita, dal momento in cui quella sera il turno A non avrebbe lavorato.
"Cosa stracazzo dici?!" ringhiò prontamente il Biondo, ma l'altro replicò in fretta.
"Kacchan, stasera c'è la musica dal vivo!"
E ovviamente fu tutto mio il compito di convincerlo.
Quel giorno, quando rincasai, il sole era già tramontato da un pezzo. Cominciava a fare freddo e, nonostante adorassi l'estate, mi piaceva anche così.
Ero solo.
I miei genitori erano impegnati nel turno di notte, ed io ero più che abituato al silenzio assordante e al buio fitto tra le pareti sottili di casa mia.
Sul tavolo della cucina, lo notai subito, spiccò un mazzo di anemoni rosso cremisi, all'interno di un vaso di cui credevo mamma si fosse sbarazzata da anni.
Mi precipitai ad ammirarli, ed avvicinandomi posai l'occhio su un biglietto scritto a mano.
Conoscevo la calligrafia.
Buonasera, tesoro!
Oggi pomeriggio è passata a farci visita zia Karin, e ha lasciato questi. So che ti piacciono, perciò sentiti libero di spostarli in camera tua.
Ti voglio bene,
Mamma!
Li squadrai ancora per un po', contemplandone la bellezza.
Decisi che sarebbero stati meglio in camera mia, ma prima di spostarli mi fiondai in cucina per riempire il primo panino che mi capitò sotto mano e divorarlo voracemente.
Tra un morso e l'altro, colto da un impeto di noia, scorsi veloce i messaggi lasciati sul mio smartphone.
Il gruppo di rugby.
I deliri di Denki.
Fat Gum con la targa di una macchina da riparare.
All'improvviso, Touya.
Era dal giorno del mio compleanno che non si faceva vivo, e onestamente credevo non l'avrebbe fatto mai più.
Avevo ferito il suo orgoglio, dopotutto, ed io sapevo quanto per lui fosse importante.
Avevo scelto la moto di uno sconosciuto, avevo scelto Katsuki Bakugo e non la persona che più amavo sulla faccia della terra.
Eppure, nonostante tutto, mi scrisse.
Un caffè, non domandò altro.
Io, lui, e una cazzo di tazza di caffè.
Come due perfetti estranei.
Come se non avessimo mai condiviso gioie, dolori, risate, letti.
Come se non fossi cresciuto insieme a lui, come se non gli avessi mai insegnato la differenza tra un bassorilievo ed un affresco, come se non gli avessi mai presentato la parte migliore di me, e quella peggiore.
Seduti davanti a un tavolo per chiarire.
Dopo l'addio più doloroso della mia vita.
Dopo che avevo buttato all'aria tutto quanto.
Mi strinsi la maglietta in corrispondenza del petto, cercando in qualche modo di placare il dolore.
Non ci riuscii.
Nemmeno la sigaretta che mi ficcai fulmineo in bocca lo fece.
Faceva male.
Faceva male da togliere il fiato.
Come potevamo essere arrivati a quel punto?
Avevamo condiviso talmente tanto.
Come poteva, l'amore della mia vita, essere diventato un perfetto estraneo?
Peggio, un nemico, quasi.
Non conoscevo più nulla di lui.
Eppure, avrei voluto chiedergli tutto.
Ti piace ancora il gelato al limone?
Indossi ancora quel dolcevita bianco latte, o l'hai buttato, come spesso dicevi avresti fatto?
Il sellino della moto è vuoto, da quando non ci sono?
E il tuo cuscino è ancora macchiato di tinta rossa?
Ti manco?
Che cosa hai fatto, durante questa dolorosa eternità?
Troppe domande, nessuna risposta, e valanghe di ricordi.
Non lo potevo sopportare.
Non riuscivo a reggere il gigantesco peso di un amore sfiorito, sfociato nella violenza e in un cumulo di parole sputare amare, senza ripensamenti alcuno.
"Tu mi manchi, sai?" sussurrai a denti stretti, fissando attonito lo schermo del telefono, e decidendo che fosse proprio quello il momento di portare i fiori in camera, un passo alla volta, tra una lacrima e l'altra, con la sigaretta tra le labbra.
Non esiste giorno in cui io non pensi a te.
Tu che sei stato il mio primo grande amore.
Il letto, senza di lui, era uno schifoso deserto, ed io avevo imparato a nuotarci, nella mia distesa di solitudine.
Avevo chiuso tutte le porte.
Quella ferita era impossibile da rimarginare, ed io avevo troppa paura del mondo, troppa paura di me, per lasciare che qualcun altro mi desse il colpo di grazia.
Soltanto lui poteva distruggermi.
Soltanto i suoi occhi chiari potevano, che prima erano Casa, e in un battito di ciglia si erano trasformati in un corridoio vuoto, che non riconoscevo più, nemmeno sforzandomi.
Nessun altro prenderà mai il tuo posto.
E ne ero convinto.
L'Amore, per me, aveva il profumo dei suoi capelli.
Ma quanto cazzo mi sbagliavo.
Io volevo passare la vita con te.
In sella alle nostre moto.
Noi due contro il mondo.
Ma non c'era più me, non c'era più lui e non c'era più mondo. Avevo distrutto tutto, quel giorno, distrutto tutto e tutti completamente.
Ero arrivato in camera. La sigaretta finita, i fiori ancora in mano, e gli occhi lucidi colmi di lacrime.
Che cosa mi è rimasto, da quando ti ho lasciato andare via?
Quanto è stato grande il dolore che ti ho provocato?
(TW 🚩⚠️)
Fu allora che inciampai distratto su un paio di libri abbandonati sul pavimento legnoso.
Franai a terra, e insieme a me il gigantesco vaso di fiori. Si ruppe rumoroso in mille pezzi.
C'erano vetro, petali, ed acqua dappertutto, ed io avevo appena iniziato la mia discesa infinita nel buio più totale.
"Merda!" esclamai in un attimo di lucidità, cercando con un gesto fulmineo di recuperare per primi i bellissimi fiori.
Gli anemoni rossi.
Mi piacevano così tanto.
Fu proprio durante quel tentativo che, poggiando l'indice su una scheggia, mi tagliai involontario, accorgendomene soltanto una volta di fronte al sangue.
Niente.
Non avevo provato niente.
Rimasi immobile sulle ginocchia, puntando gli occhi sull'ammasso di cocci sul pavimento e lasciando cadere a terra i pochi fiori che ero riuscito a recuperare.
Che fine aveva fatto il dolore?
Perché non sei più con me?
Perché ho dovuto rovinare tutto?
Allungai automatico una mano sul pezzo di vetro più grande.
Perché cazzo non sento più niente?
Non l'avevo mai fatto, era la prima volta.
Eppure mi mossi fluido, meccanico.
Non c'era più acqua, fiori, vaso rotto.
Soltanto un mare di vuoto, ed io al centro esatto, ad annegare.
Che fine ha fatto il dolore?
Volsi il palmo in alto, pallido, più del resto del corpo.
Non farlo.
Fermati, Eijiro.
Ma io proseguii, assetato.
Bramavo il dolore, bramavo qualsiasi cenno di sentimento, qualsiasi cosa fosse riuscita a trascinarmi via di lì.
Dai tatuaggi di Touya.
Dal sangue sul marciapiede.
Dal sellino della mia moto.
Da tutto quello che avevo fatto.
Tagliai.
Come se il corpo non fosse stato il mio.
Come se eliminarmi fosse diventata la prima di tutte le altre necessità.
Il sangue ci mise un po' a farsi vedere, rosso come piaceva a me.
Piccole scariche di adrenalina corsero lungo il mio corpo, insieme a, finalmente, del puro dolore.
Che cosa diavolo ho appena fatto?
Devi fermarti.
In un certo senso, sentii come se fosse a tutti gli effetti, semplicemente dovuta andare così.
Come se quello fosse stato l'incastro giusto, la legge divina, il contrappasso perfetto.
Era il mio pegno, ed io lo pagai quasi sollevato, lavandomi la coscienza con il sangue scarlatto al posto dell'acqua.
Espirai profondamente, puntando il canino sul labbro e lasciandolo lì.
Ancora.
Fallo ancora.
Di più.
Da un lato il dolore, dall'altro l'appagamento.
Un piacere fittizio, contraddittorio, proveniente dalla soddisfazione delle mie uniche necessità, quella di tornare a sentire qualcosa, e quella di non sentire più niente.
Premi più forte.
Premi più forte ancora.
Era la cosa migliore per me.
Per me che non ero nient'altro che un mostro.
Per me che non avevo pagato abbastanza per l'irreparabile danno in moto.
Aveva le labbra carnose, Touya, e un tatuaggio nero come la pece sull'avambraccio, che conoscevo a memoria.
Solevo baciarli entrambi, all'oscuro di tutto quello che sarebbe successo.
Mai avrei pensato che glieli avrei strappati via.
Premetti più forte allora, quasi eccitato all'idea di scavare fino in fondo, di rimettere le cose in pari.
La verità è che non fu nient'altro che sangue versato.
Ma io allora non lo compresi, e recisi un terzo lembo di pelle.
Nessun sentimento, nessuna lacrima.
Niente di niente.
Solo una voragine buia, e la mia sete di autodistruzione al centro.
Dio solo sa quanto mi detestavo.
Portavo costantemente sulle spalle il peso di una guerra logorante, che proseguiva per inerzia, anche se avevo issato bandiera bianca da tempo.
Tirai un lungo sospiro, poggiando la nuca al muro e volgendo lo sguardo al soffitto.
Per un attimo, soltanto un attimo, pace.
Avevo espiato una parte delle mie colpe.
Anche se non era abbastanza.
Non lo sarebbe mai stato.
Mi chiesi quando sarebbe finita davvero.
Quando sarei riuscito ad abbandonare quel tratto di esistenza, che non era più mio, non mi apparteneva più.
Sottili rivoli di sangue scesero lungo i miei palmi, per poi gocciolare lenti sui pantaloni puliti, mentre puntavo ad una nuova sigaretta.
Cosa cazzo avevo appena fatto?
Il mio impeto di lucidità mi scaraventò addosso del nuovo senso di colpa.
E così in un loop infinito, disastroso.
Anbandonai la presa sul coccio di vetro e lasciai che si ricongiungesse con gli altri, ancora sparsi sul pavimento.
Mi stava tremando la mano.
Sempre più lucidamente, cominciai a realizzare, ed il cuore mi schizzò dritto in gola.
Perché l'ho fatto?
I ricordi ripresero a rimbalzare veloci da un lato all'altro della mia mente, ed io non riuscii a fermarli.
La bile iniziò a pizzicarmi la gola.
La sensazione di vomito.
Ancora sangue.
Senso di colpa.
Accesi una nuova sigaretta, automatico, come ogni volta che ero sul punto di perdere il controllo, o che addirittura l'avevo già perso.
I baci.
Le corse.
L'odore di dopobarba.
Gli schiaffi.
Poi di nuovo i baci.
Le scuse, i litigi.
Il senso di colpa.
Ancora gli schiaffi.
Sorrisi amaro, passando il dito lento, quello con la sigaretta appoggiata sopra, sulla guancia.
Me lo sono meritato.
Tutto quello che mi ha fatto, l'ho soltanto meritato.
Ed anche quel dolore, lo meritavo.
Non era ancora abbastanza.
Inspirai profondamente, annegando nel totale disprezzo nei confronti della mia persona.
Esattamente in quel momento, crollai, come un castello di carte al vento.
Iniziai a piangere, come un bambino, ad affogare nella più totale disperazione.
Mi manca l'aria.
Devo vomitare.
"Perché a me?" singhiozzai in preda ai tremori, accasciandomi a terra, sui fiori scarlatti della zia Karin.
Non avevo mai versato una lacrima, da quel giorno.
Non in quel modo, per lo meno.
Soltanto sorrisi fittizi.
"Perché a me?!" ripetei alzando notevolmente il tono di voce, battendo un pugno sul parquet scuro, e lasciando che alcune schegge si conficcassero nella mia pelle.
Tra tutte le persone del fottuto mondo, perché a me?
Le lacrime si unirono all'acqua sul pavimento.
Come se non fossero mai state versate.
Proprio allora, inopportuno come sempre, lo squillo del telefono.
Era la sveglia.
L'avevo impostata per non arrivare in ritardo all'Aizawa, dove sicuramente tutti gli altri mi avrebbero aspettato per almeno mezz'ora.
Ma io non avevo intenzione di presentarmi.
Non quella sera.
Ancora scosso da tutto il casino che avevo appena combinato, agguantai lo smartphone, componendo tremante il primo numero amico che mi capitò sotto tiro.
Bastarono tre squilli.
"Che cazzo vuoi adesso?! Ti ho già detto che vengo, basta che la pianti di tormentarmi, diavolo!"
Altri tremolìi.
Il sangue che colava lungo il braccio.
"B-baku io..."
Mi interruppe.
"Stai bene?"
Era serio.
"S-sì, sì, semplicemente non so se riesco a venire, ecco, io..."
"Non osare, Capelli di Merda, io sono già per strada. Hai fatto il maledetto inferno per trascinarmi in quella fogna fuori dal mio orario di lavoro. Adesso, anche se ti stessi fottendo a sangue lo strafottuto Brad Pitt, lo molli lì con le chiappe per aria e porti le tue qui. Chiaro?"
Non voglio alzarmi.
Non ci riesco.
"Ma Kat-"
Aveva attaccato.
L'ansia prese possesso di me completamente.
Che cosa faccio?
Dovevo andare.
Altrimenti sarebbero venuti a prendermi, e non era proprio il caso di farsi trovare in quelle condizioni.
Mantieni la calma.
Così, con ancora la sigaretta in bocca, mi trascinai esausto fino al bagno, intento a fasciare alla svelta l'irreparabile danno oramai compiuto, con ancora il viso rigato dalle lacrime.
Tremavo come un bambino, e non riuscii a smettere, nemmeno quando scelsi di coprire il sottile strato di garza con una bandana rossa, la quale solevo portare tra i capelli durante i giorni di ricrescita.
Come se niente fosse stato.
Eppure io sapevo tutto ciò che era successo.
Ma era troppo tardi per rimuginarci sopra, ed io dovevo lasciare casa mia per dirigermi al bar, prima che i miei amici, in particular modo Katsuki, si fossero preoccupati più del dovuto.
Lasciai cadere alcuni fogli assorbenti sul pavimento zuppo, pensando che dopotutto, al resto, avrei potuto pensare al ritorno.
Dopo essermi lavato la faccia con acqua gelata, mi preparai, ficcai prontamente un'altra sigaretta tra le labbra e uscii a passo svelto e nervoso.
L'effetto dell'adrenalina stava svanendo, ed io proprio allora cominciai a sentire sulle spalle il peso della stanchezza.
Non ce la faccio più.
Ero esausto.
Confuso.
Smarrito.
Ma nessuno mi avrebbe aiutato.
Ero soltanto io, contro tutto il resto del mondo.
E contro me stesso.
Le immagini di quello che avevo appena fatto continuavano a ripresentarmisi davanti, e mentre il polso pulsava dal dolore, io continuavo a camminare annegando nel fumo.
Fu proprio così che, senza nemmeno accorgermene, misi piede all'Aizawa, dove tutti gli altri mi stavano, come al solito, già aspettando.
Entrai veloce, montando un sorriso di circostanza ed ordinando uno dei cocktail più carichi.
Seduto al tavolo insieme ai ragazzi il tempo corse veloce, ed io, forse per l'alcol o forse no, mi allontanai per un po' dalle mie galere, intervallando la mia permanenza a frequenti pause-sigaretta nell'area fumo.
Quella sera, strano ma vero, avevamo trascinato lì anche Momo, la quale si era ovviamente portata dietro il suo solito tomo, e ci aveva abbandonato la testa dentro.
Denki, proprio per questo, non si diede pace.
Mentre una band per niente conosciuta suonava musica jazz, il Biondo fece un becero tentativo.
"Secondo me, cara Momo, ti servirebbe un po' di compagnia".
Quella si lasciò sfuggire una risatina di sottecchi, prestando metà delle sue attenzioni a Kaminari e l'altra metà al suo studio.
Era davvero capace di farlo.
"Ovviamente, tu che sei bellissima, intelligentissima, e di buona famiglia, hai bisogno di qualcuno che ti somigli, non credete anche voi, ragazzi?"
Mina mi puntò leggera un gomito sul costato per attirare la mia attenzione.
"Dove vuole andare a parare?"
Ma riuscire a capire Kaminari, talvolta, era difficile pure per me.
Quella sera, inoltre, si potrebbe dire che non ero proprio nel pieno delle mie forze, e che forse ero un po' perso a nuotare in altre acque.
Non mi accorsi nemmeno che Bakugo, seduto a pochi passi da me, stava condividendo la sedia con una tizia dai capelli verdi e mossi, un corpo sinuoso ed elegante, ed occhi brillanti, puntati solo su Kat, il quale, ovviamente, non la degnava di uno sguardo.
Sorrisi divertito all'idea, tirando su una fredda golata dal mio cocktail.
Almeno qualcuno, quella sera, si sarebbe divertito.
Un lieve pizzicorio si fece sentire sulla punta della mia lingua, quasi come se la visione mi avesse arrecato fastidio.
Sono geloso?
E di che cosa?
Io all'amore avevo rinunciato da tempo, dopotutto.
Anche al sesso.
Quel sentimento mi fece sentire tremendamente in colpa.
Bakugo, in fin dei conti, era uno dei miei più grandi amici ed io avrei dovuto essere soltanto felice per lui.
Felice per lui.
Denki mi risvegliò dai miei pensieri.
"Dunque, sono giunto alla conclusione che dovresti uscire con Todoroki".
Shoto si fece paonazzo nel giro di un millisecondo.
Vidi Katsuki ghignare fiero, senza commentare nemmeno una volta la scena. Era troppo occupato a godersi l'imbararazzo del compagno.
Mina intervenne nuovamente.
"Ma ti ha dato di volta il cervello? Denki, lo capisci che così metti a disagio la gente?"
Quello fece per giustificarsi, ma Yaoyorozu intervenne, con infinita nonchalance e il viso ancora immerso tra le pagine del libro.
"Todoroki-kun, sarei una pessima fidanzata. Ho troppo da studiare." commentò leggera, ed anche il suo interlocutore sembrò calmarsi, rispondendo con una risatina amichevole.
L'aveva appena bidonato con estrema eleganza.
A quel punto fu Sero a farsi sentire. Volse lo sguardo verso Mina, sornione come sempre.
"Non è che per caso ti è venuta voglia di uscire con me?"
E quella, inesorabile e quasi divertita:
"N-O".
Lo pensammo tutti, ma soltanto Denki aprì la bocca per dirlo.
"Duecentotrentasette, Bro. Non mollare, hai capito? NON MOLLARE, SOLDATO".
E finalmente, anche io risi di cuore, lasciando scivolare via dal petto un po' delle mie ansie.
La band jazzista, aspramente criticata da Bakugo, lasciò il piccolo palco poco tempo dopo, cedendo il posto ad una minuta ragazza, dal trucco pesante e le dita sottili.
Non si presentò, né qualcuno lo fece per lei.
Si sedette leggera al pianoforte.
Proprio lì, quella sera, la magia scese sopra al locale, come aurora boreale.
(PLAY VIDEO ▶️)
Le note di una canzone si fecero limpide nella mia mente, ed io le riconobbi subito, chiudendo automatico gli occhi.
Era un brano di Yiruma, un pianista che amavo sopra ogni altra cosa.
La ragazza suonava delicata, leggera.
Catturò l'attenzione di tutti, ma proprio tutti, quella sera all'Aizawa.
Fu proprio allora che la vidi.
Momo aveva alzato gli occhi dal libro.
Suonava, suonava a perdifiato la pianista, mentre i capelli corti ondeggiavano lievi ogni qualvolta muovesse la testa, spostandosi da un lato all'altro dello strumento.
E, come se comandata dai fili di un mastro burattinaio, Yaoyorozu abbandonò sul tavolo il libro e si alzò.
Era bella, bella come il sole, e con passo incerto irruppe sul palchetto, prendendo posto, senza chiedere il permesso, al fianco di quella ragazza.
Quella ebbe un violento sussulto, ma non si fermò.
Improvvisamente, le voci a suonare si moltiplicarono. Divennero due.
Armoniose e perfettamente a tempo, come se fossero sempre rimaste in attesa di quel singolo, fugace momento.
Come se fossero nate soltanto per esplodere quella notte.
La pianista alzò gli occhi grandi verso Momo.
Per un secondo, soltanto un secondo, i loro occhi si incrociarono.
Una delle due sorrise, prima di ritornare sullo spartito.
Quella melodia mi arrivò dritta al cuore.
Mentirei se dicessi di non aver avuto bisogno di una sigaretta, di non aver ripercorso a memoria tutta quella giornata, di non aver rivisto in un attimo tutti i momenti trascorsi con Touya.
Era pieno di persone là dentro, ma io ero rimasto di nuovo solo, accompagnato dalla musica.
Ero rimasto accasciato su una poltrona dell'Aizawa, realizzando forse che mai e poi mai ci sarei riuscito.
Mai e poi mai avrei riavuto indietro Touya.
Mai e poi mai avrei riavuto indietro me stesso, il vecchio me, quello che aveva forza, quello che aveva coraggio da vendere.
E proprio allora.
Dal nulla.
In un angolo della mia mente.
Una voce isolata, parole che avevo già sentito.
Sei ancora in tempo per ricominciare, Kirishima.
Non puoi tornare indietro e cambiare l'inizio, ma puoi sempre iniziare dove sei e cambiare il finale.
Presi un forte respiro, sentendo di nuovo il sangue tornare a scorrermi nelle vene.
Forse, avrei potuto farmene qualcosa, di tutto l'ammasso di cocci.
Di tutto ciò che era rimasto di me.
Lontana, armoniosa, si accese fioca la speranza.
Nemmeno più mi ricordavo che cosa fosse. Stentai a riconoscerla.
Eppure era proprio lei.
Luminosa speranza.
Lentamente le note della melodia suonata dalle due ragazze si fecero più rare.
Il loro attimo di magia si spense lento, lasciando posto soltanto al silenzio, che era calato sul locale nel momento esatto in cui era partita la musica.
Le avevano ascoltate tutti.
Letteralmente tutti.
Nel giro di qualche secondo, l'intero bar esplose in un soave applauso.
Fu allora che Momo si alzò imbarazzata, voltandosi un'ultima, ultimissima volta verso la pianista.
Si sorrisero ancora.
Poi tornò a passo svelto da noi, rossa in volto e, glielo si leggeva negli occhi, felice.
Non l'avevamo mai vista così.
Quella sera, Yaoyorozu dimenticò il libro sul tavolo.
La musicista passò alla chitarra e continuò a deliziarci con altri brani.
Era nata per suonare.
E nemmeno Katsuki riuscì a sputarle addosso qualche cattiveria.
Quando ci ritirammo era oramai notte fonda.
Io ero sufficientemente brillo da riuscire ad abbandonare i pensieri distruttivi, mentre Katsuki camminava a passo spedito, seguito dalla ragazza dai capelli verdi.
Ci ritrovammo tutti nel solito parcheggio, ed io attesi come sempre che i ragazzi si allontanassero tranquilli prima di avviarmi verso casa.
Sero accompagnò Mina, Denki andò con Yaoyorozu, e Deku, la piccola Uraraka, e Todoroki si gettarono in sella alla moto nello stesso viale.
Rimanemmo soltanto io, Bakugo, e la venere in verde, visibilmente confusa di fronte all'esitazione del Biondo, insolita anche ai miei occhi.
"Dove hai la bicicletta?" domandò acido, cercandola in tutto il parcheggio con lo sguardo.
"Sono venuto a piedi, abito qua vicino, te lo ricordi?" ridacchiai con una nuova sigaretta tra le labbra.
"Hai bevuto troppo." mi ammonì serio, scrutandomi attento dalla testa ai piedi.
Alzai le spalle con noncuranza.
"Scusa, mamma." lo provocai sornione, ficcando una mano nelle tasche.
Rimase in silenzio.
Per un attimo volse lo sguardo alla ragazza alle sue spalle.
Parve combattuto.
Sbuffò sonoro, quasi scocciato di fronte a non seppi nemmeno che cosa.
"Adesso ti riaccompagno a casa." ringhiò. Ma non era rivolto a me.
"Che?! Ma non avevi detto ch-"
"So quello che cazzo ho detto, ma ho cambiato programma. Dimmi dove abiti".
La ragazza, di tutta risposta, si sistemò impettita il cappotto, alzando i tacchi e allontanandosi.
"Di fronte al locale, lunatico, non ho bisogno di essere riaccompagnata".
Così, sinuosa e decisamente incazzata, se la filò velocemente, e Bakugo le tenne addosso lo sguardo finché non varcò in lontananza le soglie della sua casa.
Che diavolo sta facendo?
Sorrisi intenerito.
L'aveva bidonata, non seppi per quale motivo, ma si era in ogni caso premurato per lei.
Aveva un cuore d'oro, Katsuki, ma supposi non lo riconoscesse nemmeno lui.
Quando si voltò verso di me, era visibilmente arrabbiato e infastidito.
"Andiamo." grugnì imperativo.
"Andiamo dove?"
Ero confuso.
"Ti accompagno a casa".
Una risatina mi uscì automatica dalle labbra.
"Ti ha dato di volta il cervello, Bro?"
Ma quello sembrava piuttosto serio.
"Sei brillo, a piedi, e fa freddo, porco cazzo. Ho una pessima sensazione addosso, quindi ora ti tappi quella cazzo di fogna e ti fai portare alla fottuta casa. Ho rinunciato a una scopata per te stasera, Capelli di Merda, non farmi incazzare più del dovuto".
Ma io puntai i piedi, mostrando i canini e ridendo bellamente in faccia al biondo.
"Nessuno te lo ha chiesto, Biondino".
Giurai di averlo sentito ringhiare.
Ma non avevo la benché minima voglia di litigare con lui.
Semplicemente, non volevo addosso pesi che non mi appartenevano.
Ne avevo già abbastanza sulle spalle.
"Andiamo sì o sì?" tuonò quello, ma io, non so che cosa mi prese, feci dietrofront.
Salii a cavallo della moto, senza chiedere il permesso.
"Sì, andiamo".
Sorrisi.
Volevo andare in moto.
Inaspettatamente, anche il Biondo sorrise, allacciandosi il casco ed allungandomi prontamente quello che, quella sera, non sarebbe dovuto finire sulla mia testa.
Quando mise in moto, tirai un sospiro di sollievo.
Bramavo quell'attimo di libertà.
E solo Katsuki poteva darmelo.
"Sei arrabbiato con me?" domandai durante il breve tragitto.
Anche se cercavo di non addossarmi la sua scelta, sentivo un pizzico di senso di colpa puntellarmi il fianco.
Aveva rinunciato ad una scopata per me.
Nessuno però glielo aveva chiesto. Aveva fatto di testa sua.
"Nah." rispose quello secco, alzando gli occhi di rimando e posteggiando fulmineo di fronte a casa mia.
Il disastro era appena cominciato.
Proprio come il giorno del mio compleanno, quella sera, di fronte alle porte del mio appartamento, ci ritrovammo in tre.
Era appoggiato al solito muretto, Touya, ed alzò lo sguardo sulla mia figura, mentre scendevo dalla moto di qualcun altro.
Al contrario di Bakugo, ci misi un po' ad accorgermi della sua presenza.
Cedetti al panico, come sempre, come ogni volta che me lo ritrovavo davanti.
La gola asciutta, le gambe molli.
Non seppi che cosa fare.
Rimasi in mutuo silenzio, precipitando in una disperazione palpabile, accentuata forse dal troppo alcol.
Avevo bisogno di una sigaretta.
Ma le mie mani non rispondevano a nessun comando.
La pelle attorno alle sue braccia si era scurita ancora.
Una volta, là sopra, brillava il suo tatuaggio.
"Maledizione." ringhiò il Biondo, sfilandosi il casco.
"Traffico anche stasera." sussurrò l'altro, apparentemente calmo, silenzioso.
Abbandonò il muretto e si avvicinò a noi.
Troppo vicino.
Troppo vicino.
Mi mancava il fiato.
Di lì a poco sarei soffocato senza ombra di dubbio.
Qualcuno mi dia una sigaretta.
"Si può sapere che diavolo vuoi, ah?" continuò Bakugo.
Improvvisamente, si spostò.
Si piazzò esattamente davanti a me, quasi come se in qualche modo avesse voluto proteggermi.
Aveva sbagliato tutto, però.
L'unico mostro, là davanti quella sera, ero soltanto io.
"Qualcuno ti ha interpellato? Spostati, devo parlare con Eijiro".
Scandì con prepotenza il mio nome, rivendicando un'appartenenza velata, secca, quasi insindacabile.
Mi viene da vomitare.
"Non prendo ordini neanche dal Diavolo. Prova a spostarmi tu, se davvero ci tieni".
Due cani rabbiosi, senza guinzaglio.
Finirà male.
Per colpa mia.
Devo vomitare.
Fulmineo agguantai uno dei sacchetti sotto il sedile della moto.
Katsuki, a quanto pare, ne aveva tenuto qualcuno di scorta.
Mi allontanai a passo spedito, cominciando a rigettare nel sacchetto.
Fulmineo e inaspettato, il Biondo mi corse dietro.
Avvertii la sua mano salda sulla fronte, l'altra tra i capelli.
Mi aveva già visto vomitare, eccome se lo aveva fatto.
Quella volta lessi però della preoccupazione nei suoi occhi grandi, chiusi a fessura dalla rabbia.
Anche Touya ci raggiunse, rimanendo a diversi passi da noi.
"Capelli di Merda, che diavolo fai? Non è il momento di vomitare, questo!"
Suonò allarmato, quel rimprovero.
Che cosa mi prende?
Non riuscivo a parlare.
Le gambe tremavano, boccheggiavo come un pesce fuori dall'acqua.
Non c'è più ossigeno.
Non respiro.
Una sigaretta.
Datemi una sigaretta.
"Eijiro, calmati. Adesso andiamo a casa." ringhiò lui a denti stretti, contornandomi le spalle con un braccio e portandomi lento verso l'appartamento.
Persino Touya rimase pietrificato, senza sapere cosa fare.
Non so come feci ad arrivare sulle mie gambe davanti alle porte di casa.
So solo che ci riuscii grazie all'aiuto di Bakugo.
Dovette strapparmi di mano le chiavi per aprire. Io, dal canto mio, stavo tremando troppo, in assenza totale di ossigeno.
Prima di entrare, il Biondo si voltò verso Dabi.
Aveva una smorfia rabbiosa stampata sul viso.
"Se ti rivedo un'altra volta, lo giuro, ti ammazzo con le mie mani".
Poi si richiuse la porta alle spalle, e il volto del ragazzo scomparve dalla mia vista.
Quello fu soltanto l'inizio.
Senza aria nei polmoni, con i battiti a mille, ero ad un passo dal collasso.
Sto per morire.
Troppo.
Davvero troppo, in una sola giornata.
Montagne russe continue.
Su e giù, su e giù, senza mai nemmeno un secondo di respiro.
Fu però Bakugo a prendere in mano le redini della situazione.
Sapeva che i miei avrebbero avuto il turno notturno, glielo accennai a mensa quella mattina, perciò si mosse sicuro, senza preoccuparsi del resto.
"Oi, Capelli di Merda?" domandò tentando di richiamare la mia attenzione.
Ma non mi uscì nemmeno un filo di voce.
Tremavo fuori da ogni controllo, e volevo soltanto chinare la testa nel bagno e soffocare là dentro, senza pensarci più.
"Dov'è la tua camera?"
Ovviamente non ottenne risposta.
Gli toccò tirare a indovinare, ed azzeccò al primo colpo, accompagnandomici dentro.
Non realizzai, in quel momento, che il casino di quel pomeriggio era ancora per terra.
"Ma che cazzo!" esclamò Bakugo schivando il vetro, lasciando che mi sedessi finalmente sul letto.
Il panico aveva oramai preso possesso di me, ed io non sapevo che cosa sarebbe successo.
Non sapevo più niente.
Devo vomitare.
Voglio una sigaretta.
Tremavo, sudavo. Non avevo più il controllo del mio corpo.
Fu allora che Bakugo si inginocchiò di fronte a me, puntando le pozze rosse sulle mie.
"Oi, va tutto bene, Kirishima, siamo a casa. A casa, al sicuro".
Ma a me mancava l'ossigeno.
"Calmati, Capelli di Merda. Calmati".
Ci provai.
Lo feci per lui, per la sua dedizione, per il tempo che perse a causa mia, per la mano leggera che aveva appena poggiato sul mio ginocchio.
Non servì a nulla.
"U-una sigaretta..." bisbigliai a denti stretti.
Fu letteralmente un'impresa, trovare la forza per quelle sottili parole.
Vidi il Biondo accigliarsi.
Non c'è più aria.
Le sue dita ferme si poggiarono sulla mia guancia, ed io rimasi intrappolato nel suo sguardo.
"Oi, non hai bisogno di quella merda, adesso. Respira".
Non ce la faccio.
Non vedi che non ce la faccio?
"Respira".
Provai ancora, con scarsissimi risultati.
Tremavo come una foglia.
Sto facendo una pessima figura.
"Insieme a me, Capelli di Merda, dai. Respira".
Mi soffermai sul suo petto.
Inspirare ed espirare.
Come stava facendo lui.
Provai ad imitarlo lentamente, boccheggiando pallido.
"Bravo, Capelli di Merda, così".
La sua voce era pacata, ferma.
Quasi stentai a riconoscerlo, mentre una parvenza di ossigeno ritornò a circolare nei miei polmoni.
"I cornetti alla crema. Domani mattina all'alba ne compriamo 20! E col cazzo che andiamo all'Università! Restiamo qui, tutto il maledetto giorno, tutta la notte. Guardiamo i film e, oh, le foto! Vuoi vederle, le foto? Ne ho caricate un fottio nel telefono!"
Annuii debole.
Lo volevo davvero.
"Allora respira".
Provaci.
Respira.
Lasciai entrare altro ossigeno.
Gli occhi seri di Bakugo erano fissi su di me, ed anche le sue dita calde sulla mia guancia.
"Bravo. Sei bravissimo, Capelli di Merda".
Inspira.
Espira.
Serrai gli occhi.
Ci volle del tempo, prima di farcela.
Pensavo soltanto a lasciar passare l'aria, e a riprendermela avido.
Stavo tornando a respirare.
La mia stanza era un casino, la mia intera vita era un casino ed io forse avrei davvero dovuto smetterla di respirare.
Ma non lo feci.
Contro ogni aspettativa, strinsi i denti.
Volevo vedere le foro di Bakugo, volevo addentare i cornetti caldi, volevo andare in moto.
Sì, volevo andare in moto.
In quel momento esatto lo realizzai, con l'aria che finalmente mi riempiva i polmoni e i tremori che abbandonavano lenti le mie gambe.
Voglio andare in moto.
Un sorriso stanco mi si dipinse sul volto, mentre tutti i colori di quella stanza ripresero a farsi vividi.
In quel momento, le dita dita di Bakugo lasciarono la mia guancia.
Tirò un profondo sospiro.
"Che cazzo ridi, Kirishima, mi hai fatto prendere un fottuto spavento!" esclamò, lasciandosi cadere per terra e rimanendo seduto lì.
Soltanto allora me ne resi conto.
Volsi lo sguardo verso il basso, vergognandomi da morire per tutto ciò che era appena successo.
"Scusami, io... Io non so proprio cosa mi sia preso".
Quello sbuffò sonoro, alzando le spalle.
"Solo un cazzo di attacco di panico".
Sembrava essere abituato.
Li hai avuti anche tu?
Quanti altri idioti come me hai aiutato?
Cosa succederà quando andrai via da qui?
Il Biondo si voltò, puntando gli occhi sui cocci per terra.
"Che diavolo hai combinato lì?"
Verità a metà. Come sempre, dopotutto.
"Mi è caduto il vaso dalle mani. Poi ero in ritardo e ho pensato di sistemare al ritorno".
"Ti sei tagliato? C'è vetro nel fottuto dappertutto".
"No, tranquillo".
Ho fatto di peggio.
Si alzò rassegnato, iniziando a raccogliere da terra ogni singolo anemone, lasciato dal sottoscritto a morire di sete sul pavimento.
"B-Baku non c'è bisogno-"
"Taci. Rimani su quel cazzo di letto e pensa a respirare".
Non ubbidii.
Mi alzai lento, allontanandomi da lui soltanto per raggiungere lo sgabuzzino e tornare con scopa e paletta.
Insieme impiegammo pochi minuti a rimediare a quello che diverse ore prima mi era sembrato un danno irrimediabile.
Scopammo via tutti i cocci, e Katsuki recuperò silenzioso i fiori. Li sistemammo in un nuovo vaso, al centro della mia scrivania.
"Visto? Che cazzo ci voleva?" grugnì infastidito, mentre tornavo a prendere posto sul letto.
Ero esausto.
Ma soprattutto, ero spaventato.
"Baku, io..."
"Mh?"
"Ti devo delle scuse".
Inarcò un sopracciglio.
"La questione di Touya, tu che mi riporti qui, e la serata con quella ragazza-"
Mi interruppe.
"Meh. Era una cazzo di racchia".
Non seppi nemmeno io perché.
Contro ogni mio principio, scoppiai in una fragorosa risata.
E inaspettatamente, anche Bakugo mi venne dietro, soffocando una risatina.
Agguantai solo a quel punto una sigaretta dalla tasca, ma il Biondo me la sfilò dalla mano, con silenziosa gentilezza.
"Basta così per oggi, Kirishima".
E per un attimo mi sentii come un bambino colto in flagrante con le mani nelle caramelle.
Era serio, di nuovo.
Poggiai l'oggetto del mio senso di colpa dietro all'orecchio, sorridendo colpevole.
Il Biondo si sentì in dovere di aggiungere spiegazioni.
"Io non scopo, tu non fumi." ringhiò aspro.
Ma io amavo terribilmente provocarlo.
"Che ne dici se invece io fumassi e tu scopassi? Sai, non per vantarmi, ma sono un gran bel ragazz-"
"Finiscila, idiota." mugugnò in risposta, fingendo serietà.
Ma io lo vidi, con la coda dell'occhio, accennare un altro sorriso.
Con lentezza inaudita, mi concessi qualche minuto in bagno, per darmi una sciacquata e infilare il pigiama rosso.
Quando tornai in camera, trovai il Biondo seduto sul letto, intento a contemplare qualche tela che avevo appeso al muro.
"Li hai fatti tu?" domandò indicandoli.
Annuii imbarazzato.
Non erano un granché.
Poi, un'altra domanda.
"Sei tranquillo, adesso?"
"Sì".
Stava per andarsene.
Stava per lasciarmi da solo.
"E io non me lo merito un fottuto pigiama?"
Sussultai.
"Che?"
Alzò gio occhi al cielo.
"Ho detto, io non me lo merito un fottutissimo pigiama?"
Sorrisi.
Rimane con me.
Rimane con me per davvero.
Scattai euforico verso l'armadio, lanciandogli addosso il pigiama più bello che avevo. Quello che non usavo mai, quello che si conserva sul fondo della mensola per le occasioni speciali, i viaggi, le nottate fuori.
Si cambiò in fretta, e quando tornò mi accorsi che vestiva un po' largo, ma tutto sommato poteva andare bene per una notte.
Alzò lo sguardo accigliato, agguantando un plaid che avevo lasciato abbandonato sulla sedia della scrivania.
"Vuoi vedere le foto?"
Sì.
È tutto ciò che voglio.
Annuii ancora.
Così si piazzò al mio fianco, coprendo entrambi con quella coperta striminzita, stretta quasi quanto il mio letto.
Eravamo vicini, vicinissimi, e quel calore non mi dispiacque per niente.
Insieme cominciammo a sfogliare i suoi capolavori dallo schermo dello smartphone.
Avevo dedicato gran parte della mia vita all'arte, sapevo riconoscerla, quando la vedevo.
Eppure non proferii parola. Rimasi meravigliato, al fianco del Biondo, in totale silenzio.
Quella sera infatti, a voce bassa e pacata, quella che non gli avevo mai sentito usare con nessuno, decise di spiegarmi scatto per scatto.
Dal lato tecnico, a quello artistico, li sviscerò uno ad uno completamente, e fu soltanto allora che compresi che ciò che mostrava Katsuki al mondo era soltanto la punta dell'iceberg.
Celava un universo intero al di sotto del suo caratteraccio, e soltanto quella sera, al freddo di fine autunno, esausto e con l'animo in frantumi, io compresi di volerlo conoscere per davvero, di volerlo per sempre nella mia vita.
Cullato dal tepore di quella velata dolcezza, di quella cura improvvisa, scovolai lento nel sonno, sereno come non mi sentivo da tempo.
Non mi ero nemmeno reso conto che la mano libera di Katsuki si era infilata leggera tra i miei capelli.
Il vaso si era rotto per sempre.
Ma i cocci non erano più per terra.
Qualcuno li aveva inaspettatamente raccolti insieme a me.
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