♟ second

A quindici anni, Caleb aveva già capito come funzionava il mondo. Sapeva che quelli come lui non potevano permettersi di sognare in grande, ciò che bastava era trovare un modo per sopravvivere un giorno dopo l'altro in quello schifo.

Le sue giornate erano un susseguirsi di vagabondaggi senza meta nella periferia di New Orleans, piccoli furti, risse; ogni tanto passava la notte in cella, quando veniva beccato. Un cane randagio, ecco cos'era.

D'altronde, dopo l'arresto di suo padre e la morte di sua madre non voleva saperne di trovarsi un'altra famiglia, al diavolo gli assistenti sociali. Non gli dispiaceva, quella vita. Gli andava bene, essere un randagio. A cos'altro avrebbe dovuto aspirare, uno come lui?

Un'uggiosa mattina di novembre aveva conosciuto Roger LaChance. Quello era stato il momento in cui aveva voltato le spalle ai vicoli squallidi per abbracciare con lo sguardo la vita borghese di coloro che stringevano la città nel palmo di una mano -una vita a cui aveva potuto solo avvicinarsi, che tuttavia non gli era concesso toccare.

Non aveva fatto domande. Non aveva chiesto come facesse a conoscerlo, a sapere che fosse un Anormale, e non aveva chiesto per quale ragione il più fidato sottoposto di Amadeus Sharp -colui a capo della più grande associazione criminale della Luisiana- avesse deciso di offire un'occasione del genere proprio ad uno come lui.

Aveva accettato, ovviamente. Si era adattato alla situazione per poter garantire la propria sopravvivenza, come aveva sempre fatto.

Così aveva conosciuto Jude Sharp, il legittimo erede dell'organizzazione denominata Royal. Lo aveva odiato dal primo momento, quel figlio di papà con gli assurdi occhialini da aviatore. E mano a mano che l'addestramento procedeva -sangue, fatica, percosse- lo odiava sempre di più.

Non sembrava neanche un essere umano, con quello sguardo freddo celato dalle lenti ed il viso privo di espressione. Il potere di Caleb -ciò che gli aveva conferito la classificazione di Anormale- pareva essere inefficace contro di lui.

Era frustrante! Perché? Perché non riusciva a controllare le sue emozioni come faceva con chiunque altro?

Quando, poi, l'odio si fosse tramutato in qualcosa di diverso -qualcosa di completamente opposto, eppure estremamente simile- non lo sapeva di preciso.

Dalla fine del suo addestramento aveva trascorso talmente tanto tempo in compagnia del giovane Sharp -era diventato una delle sue migliori guardie del corpo, dopotutto- che non avrebbe saputo definire il momento in cui aveva iniziato a guardarlo con occhi diversi, senza nemmeno rendersene conto.

Scoprì in seguito quale fosse stato il vero intento di LaChance, scegliendo gente come lui -feccia, ragazzi privi di speranze e sogni, facili da addestrare, sfruttare, manovrare- per un compito del genere. Quei cagnolini sarebbero stati fedeli all'uomo che li aveva tratti in salvo dalla strada, non avrebbero esitato a sporcarsi le mani per lui; avrebbero anche ucciso l'erede della Royal al posto suo, se solo glielo avesse chiesto.

E LaChance aveva deciso di affidare l'incarico a lui, che riteneva il risultato migliore.

Era stato il suo primo errore, credere di averlo in pugno, ma Caleb non doveva mai niente a nessuno.

Il secondo era stato rivelargli ogni dettaglio del piano, riponendo fin troppa fiducia in lui che meritava solo diffidenza e odio.

«Quindi, se ho ben capito, Roger LaChance ti ha ordinato di uccidermi prima che io raggiunga i diciott'anni. Dopo la mia morte, la Royal sarà ereditata da mia sorella Celia, che per allora avrà già sposato Darren LaChance. Roger ha intenzione di usare suo figlio come boss fantoccio, mentre lui gestisce l'associazione rimanendo nascosto nell'ombra» aveva snocciolato il Jude appena diciassettenne a cui Caleb aveva raccontato ogni cosa.

«Esatto» era stata la sua unica, distratta risposta, mentre cercava di comprendere come facesse il rasta a rimanere gelidamente calmo anche in una situazione del genere.

«Per quale motivo me l'hai detto? Potrei anche farti uccidere»

Quella frase era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Era trascorso un anno da allora, ma Caleb ricordava bene come la rabbia accumulata nel suo petto fosse esplosa quasi istantaneamente al sentire quelle parole.

«Quindi non hai intenzione di fare niente? Te ne starai sul serio a guardare mentre quel dannato idiota porta avanti il suo fottuttissimo piano malvagio aveva sbottato, senza comprendere per quale motivo fosse tanto nervoso. Aveva cercato di celare la rabbia, ma Jude si era comunque accorto della nota alterata nella sua voce.

«Fallirà, lo sappiamo entrambi. Ma penso che sarà uno spettacolo molto divertente» aveva risposto il rasta, con tono pacato, alzandosi dalla panchina su cui i due erano seduti. Così facendo, Caleb non aveva potuto guardarlo in faccia quando aveva concluso, la voce ridotta ad un sussurro «Tutto ciò non mi interessa, lo detesto. Mio padre, la mia vita, sono cose che non mi riguardano»

In quel momento, Caleb aveva capito che Jude era ancora un universo inesplorato, da scoprire poco per volta. In quel momento si era reso conto che per quanto potesse convincersi di odiarlo, non sarebbe mai stato in grado di ucciderlo.





«Sai... io dicevo sul serio, quando ti ho proposto di fuggire»

Caleb non rispose. Lo sguardo smeraldino vagava tra gli alti scaffali colmi di libri senza soffermarsi realmente su ciò che vedeva, completamente preso dai propri pensieri, estraneo al contesto in cui si trovava.

Jude trascorreva tutti i martedì mattina nella biblioteca pubblica. A quell'ora -ma, sospettava il moro, non solo a quell'ora- era quasi completamente vuota, eccezion fatta per qualche rado gruppetto di studenti che si ritrovava lì per concentrarsi sullo studio.

Una pallina di carta lo colpì in mezzo alla fronte e solo allora tornò a focalizzarsi su ciò che accadeva attorno a lui, abbandonando in un angolo remoto della mente i ricordi degli ultimi cinque anni -tornati, come spesso accadeva, a fargli visita non appena si lasciava distrarre anche solo per pochi istanti.

Aprì il foglio che Jude gli aveva lanciato, mentre questi allungava le gambe sotto al tavolo fino ad farle intrecciare con le sue. Nella grafia ordinata e precisa di Sharp si potevano leggere numerosi caratteri che Caleb aveva già visto, ma che impiegò diversi secondi per riconoscere.

«Questo è l'alfabeto cirillico. A che ti serve?»

«Imparo il russo da autodidatta»

«Non sarebbe più semplice seguire un corso?» Caleb si rese conto di aver posto la domanda sbagliata quando vide le labbra del compagno ridursi ad una linea sottile.

«Mio padre lo verrebbe subito a sapere e andarsene da qui diventerebbe impossibile»

Il moro sgranò gli occhi, sorpreso dal tono serio con cui l'altro aveva parlato. Sorpreso e spaventato.

«Jude, questa è una pazzia! Hai seriamente intenzione di lasciare l'America e nasconderti in Russia? Pensi davvero di poterci riuscire? Questa città appartiene a tuo padre: qualunque cosa accada, lui lo sa» si assicurò di aver scandito bene le ultime tre sillabe, ma capì nel momento in cui vide gli occhi ardenti di Jude che le sue parole erano buttate al vento.

«No, non io, noi. Tutti noi ce ne andremo! Io, te, David e Joe. Siamo Anormali dotati di poteri, voi siete forse i soldati più capaci dell'intera città ed io sarò in grado di trovare un modo per raggirare mio padre»

«A me questa città fa schifo, io seguo Sharp» borbottò Joe, al tavolo che si trovava alla loro sinistra, senza che le iridi grige si alzassero dal libro che faceva solo finta di leggere.

«Zitto tu, non c'entri un cazzo! Neanche ti dovremmo conoscere» ribattè Caleb.

David, seduto di fronte al castano, gli tirò un calcio nello stinco.

«E, di tanto in tanto, vedi di girare pagina. Sono venti minuti che stai leggendo sempre la stessa roba. Dio, King, fai schifo sotto copertura»

Jude spostò l'attenzione sui fogli pieni di appunti che si trovavano davanti a lui -il suo modo per tirarsi fuori dalla situazione-, percependo il sopraggiungere della tempesta.

«Non sono io quello che se ne va in giro con una benda da pirata, Samford. Nel caso in cui tu non te ne sia accorto, la cosa non ti fa passare esattamente inosservato»

Caleb sospirò pesantemente, detestava i battibecchi continui tra quei due. Soprattutto il mal di testa che gli procuravano.

«Lo sapete che ogni volta in cui iniziate a litigare impregnate l'aria di feromoni fino a renderla irrespirabile? Credo di avervelo già detto almeno un centinaio di volte. C'e talmente tanta tensione sessuale da coprire le tracce di chiunque altro in questa stanza!»

Oltre a loro quattro, in realtà, le uniche presenze erano tre silenziose ragazze -che, Caleb se ne era accertato, non rappresentavano alcun pericolo- sedute ad una ventina di metri da loro.

Naturalmente nessuno fece caso alle sue lamentele, il moro ci era ormai abituato. Si allungò sulla sedia, mentre l'aria diventava piano piano sempre più dolce e nauseante.

Situazioni del genere non erano rare, e tuttavia Caleb amava il proprio potere. C'era sempre stato -una parte di lui presente fin dalla nascita- ma solo una volta arruolato tra le fila della Royal aveva scoperto di cosa potesse essere realmente capace, quale fosse il suo vero potenziale. Quando aveva incontrato Celia Sharp, la ragazza che era in grado di riconoscere un Anormale a prima vista -comprendendone il potere, punti deboli e di forza, nonché il livello di pericolosità-, aveva avuto l'impressione di essere finalmente riuscito a conoscere una parte segreta di sé stesso.

Andava fiero del suo alto livello -nove su dieci- dovuto al fatto che non solo fosse in grado di percepire i feromoni altrui, ma anche di controllarli a proprio piacimento. Lo faceva sentire potente. Gli bastava volerlo, emozioni e comportamenti di chiunque erano a sua scelta.

No, non proprio chiunque.

Jude, con quel misero livello quattro, era immune ai poteri degli altri Anormali. Quando era più giovane, Caleb aveva dato di matto cercando di comprendere come mai il suo potere non avesse alcun effetto su di lui.

Un nostalgico, piccolo sorriso gli si dipinse sulle labbra, mentre ricordava il sé stesso di qualche anno prima. Quel ragazzino con la cresta che si credeva tanto forte, ma non sapeva proprio un bel niente. Un po' gli mancava, un po' gli faceva pena, un po' lo imbarazzava. Non aveva la minima idea di cosa il futuro gli stesse riservando.

Spostò lo sguardo su Jude, contemplando la sua espressione concentrata -era assolutamente meraviglioso- mentre appuntava su un foglio alcuni passaggi del libro che aveva davanti. E fu in quel momento, mentre la sua attenzione era concentrata altrove, che la grande finestra dietro di lui andò in frantumi.

D'istinto si sporse in avanti, per cingere le spalle di Jude con le braccia e fargli da scudo con il proprio corpo; eppure, David fu più veloce.

Caleb udì in maniera poco distinta il fruscio della carta e uno spostamento d'aria all'altezza della nuca, poi un libro lo colpì con forza sul collo e cadde al suolo. Conficcati in profondità -tanto da forare la copertina e numerose altre pagine- vi erano due proiettili. Se Samford avesse tardato di un solo istante a lanciare il volume, il moro se li sarebbe ritrovati in gola.

Joe lo afferrò, strattonandolo per il cappuccio della felpa e trascinandolo dietro ad un tavolo rovesciato assieme agli altri due, mentre le poche persone presenti nella biblioteca si accalcavano verso l'uscita come un gregge spaventato. Presto si ritrovarono soli.

«Caleb!» Jude gli prese il viso tra le mani, accarezzandolo dolcemente con le dita, quasi per accertarsi che stesse bene «Oh dio, David ti ringrazio»

L'azzurro annuì distrattamente, mentre toglieva la sicura alla propria pistola
«Mi devi un favore, Stonewall»

Caleb chiuse gli occhi e cercò far ordine in quel caos di pensieri che era la sua testa. Non era facile assimilare ciò che era accaduto in meno di un minuto, sebbene situazioni del genere non fossero rare. Il suo cuore ancora martellava, l'adrenalina gli tendeva i muscoli, il sangue pompava forte nelle vene; la paura di perdere Jude gli stava stritolando lo stomaco.

No. Non così.

Si ordinò di stare calmo e lasciò che il suo potere facesse il resto. Come sotto effetto di un calmante -o come se la paura fosse stata cancellata- le membra si rilassarono, il battito cardiaco ed il respiro tornarono regolari.

Devo pensare.

La sala era ampia e dalla pianta rettangolare. Lungo i lati corti erano disposte le librerie, a formare una serie di corridoi parralleli e perpendicolari tra loro; nel centro si trovavano tre file da tre lunghi tavoli ciascuna, lo spazio era illuminato da quattro grandi finestroni, due su ogni lato. Loro si trovavano dietro il tavolo più a sinistra della prima fila, esattamente sotto alla finestra da cui erano entrati i proiettili. L'uscita era dall'altra parte, a destra, per raggiungerla avrebbero dovuto attraversare l'intero salone.

«È un suicidio»

Jude doveva essere giunto alla sua stessa conclusione. Caleb tentò un sorriso rassicurante e le sue labbra si piegarono in un ghigno storto.

Forse il suo piano era pericoloso, forse alla fine si sarebbe salvato solo Jude. Avrebbe dovuto farsi andare bene quell'unica condizione, ma detestava il pensiero di non poterlo più rivedere, ne era terrorizzato. Non voleva abbandonarlo, egoisticamente desiderava continuare a vivere.

«Solo quando si vuole morire»





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Note: [2173 parole]

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