9.2 // Oltre ogni previsione

Everard si svegliò in un sussulto al suono di un ramo spezzato, tutto gli faceva male come quando si era assopito, se non peggio. Aprì gli occhi con una smorfia di dolore e rimase per un attimo pietrificato.

Due informazioni gli piombarono addosso prima che avesse anche solo il tempo di esalare un primo corto respiro.

La prima, si trovava ancora dove ci sarebbe dovuto essere il rifugio, eppure non ce n'era traccia; o la sera prima il suo sogno non era stato affatto un sogno oppure non si era ancora svegliato.

La seconda, una strana creatura alta e dinoccolata lo stava osservando con due occhi neri spalancati.

Aveva un aspetto antropomorfo, si reggeva su due gambe lunghe in posizione eretta, e i capelli neri e lisci scendevano quasi sino alle ginocchia. Aveva una tunica di iuta o quello che sembrava un tessuto di radici intrecciate, un seno appena accennato, e gli occhi erano composti solo da un'enorme pupilla nera.

Ciò che saltava a all'occhio era il colore della pelle, di un bluastro scuro quasi nero, che lo rivelava per quello che era.

Un elfo.

Non appena i loro sguardi si incrociarono, il cuore del ragazzo si calmò, i suoi pensieri che sfumarono in un'allegra indolenza, un senso di pace.

L'elfo schiuse le labbra ed emise qualche suono spigoloso in una lingua che Everard non conosceva, eppure era sicuro di sapere cosa aveva voluto dirgli.

Vieni con me.

Provò ad alzarsi ma il dolore al petto glielo impedì, emise uno sbuffo frustrato. Doveva seguire quell'elfo, sapeva che era importante, avrebbe fatto di tutto per accontentarlo.

Vieni con me. Ti sentirai meglio.

«Ci sto provando. Ci sto- maledizione. Mi fa male, non posso-»

Un'imprecazione di sorpresa lo riscosse.

«Ma cosa...?»

La creatura voltò lo sguardo e interruppe il contatto visivo in cerca della nuova minaccia. La lucidità tornò insieme al terrore, strisciò all'indietro per allontanarsi, dovette trattenere un mugolìo di dolore.

«Oh, no. Oh, no no no no...»

Non aveva mai visto un elfo, ma era ben consapevole di come finissero i loro incontri con gli esseri umani, e non aveva nessuna intenzione di ritrovarsi con le viscere sparpagliate sull'erba.

Una linea di fuoco si interpose tra loro e la creatura gridò, un verso stridulo che gli ferì i timpani. L'elfo non aspettò che il fuoco lo raggiungesse, si voltò e iniziò a correre tra gli alberi, là dove era più buio.

Everard sentì un «Grazie agli dèi» e si voltò di nuovo verso dove avrebbe dovuto già intravedere il rifugio, ma non c'era niente.

«Chi c'è?» l'improvvisa agitazione gli provocò una fitta al petto e contrasse il volto in una smorfia di dolore.

«Everard?» lo chiamò una voce familiare. «Che ci fai tu qui? E perché litigavi con un elfo?»

Il tono, il timbro, l'inflessione. Sembrava proprio... «Hildebrand? Dove sei?»

L'attimo dopo, il druido apparve davanti a lui saltando fuori dal nulla. Everard si ritrasse, provocando una fitta dolorosa. «Ehi! Che fai? Mi farai venire un colpo così!»

«Lo ripeterò solo una volta: che ci fai qui? Hai mostrato a qualcuno la strada? Ci hai compromesso?»

Quelle insinuazioni pesanti gli dipinsero una smorfia oltraggiata sul volto. «Come osi? Sono solo. È per questo che mi avete chiuso fuori? Pensavate che avessi portato qualche guardia? Se è così, non mi conoscete affatto.»

«Prego, comunque » commentò il druido, asciutto. «Ti ho salvato la vita, se non l'hai notato.»

«Grazie mille. Scusa se non ho espresso prima la mia gratitudine, ero impegnato a soffrire qua per terra dove mi avete abbandonato come un cane randagio.»

«Vado a chiamare gli altri, non riesco a portarti dentro da solo. Sono contento che tu sia qui... e non certo perché mi stai simpatico.»

Il druido sparì un attimo dopo e Everard si abbandonò di schiena. «Per la cronaca, neanche tu mi stai simpatico!» gli gridò, sperando che lo sentisse. Aggiunse "urlare" alla lista di azioni che accrescevano il dolore

Cercò di calmarsi, il respiro affannoso peggiorava la situazione. Ogni volta che i suoi polmoni si allargavano, una fitta gli squarciava il petto. Sperò che l'elfo non tornasse mentre era solo, sapeva che avevano paura della magia, ma non poteva essere certo che si fosse allontanato tanto da non notare che Hildebrand se n'era andato.

Non passò tanto tempo quando sentì dei passi avvicinarsi. Si alzò sui gomiti a fatica, senza riuscire a vedere nessuno.

«E poi l'ho trovato qui, un elfo stava cercando di portarlo via.»

«Michael, vai a chiamare Richard subito. Non mi importa se sta dormendo, mangiando, o qualunque cosa stia facendo. Portalo subito qui.»

«Dameta» ordinò una voce che gli era mancata, «fagli vedere, per favore.»

A quelle parole, si animò di nuovo. «Solomon? Ci sei anche tu?»

Un battito di ciglia, ed Everard si accorse di essersi steso proprio appena fuori l'arco ingresso.

Fu Sigga a muoversi per prima. Saltò in avanti, si buttò sulle ginocchia e lo abbracciò. Lui ricambiò in un gesto automatico, un istinto che prevalse sul dolore.

«Oh grazie agli dèi» la ragazza nascose il volto nell'incavo della sua spalla e lo strofinò a lui come un gatto. «Grazie, grazie...»

Anche Frederick e Clarice si avvicinarono, la ragazza gli diede un bacio sulla cima della testa mentre lui gli afferrò una delle mani che tenevano Sigga e la strinse. Everard avrebbe voluto ringraziarli, o dire loro che apprezzava che fossero contenti di vederlo, ma si accorse di non riuscire a respirare, l'abbraccio aveva aumentato il dolore al petto, e lui annaspò. Sentì delle lacrime corrergli lungo le guance.

«Gli stai facendo male» disse Hildebrand, e lei si riscosse.

«Cos'ha?» domandò Sigga, con un filo di voce, senza nemmeno scostarsi per guardarlo.

«Ha almeno tre costole rotte, una preme sui polmoni» spiegò il druido, «l'ho controllato appena l'ho visto per terra. Be', dopo che ho mandato via la bestia che voleva vedere il futuro con il suo intestino.»

«Davvero splendido» riuscì a sibilare Everard, in un roco sussurro sarcastico.

Sigga si ritrasse di scatto.«Oh, scusami! Fa tanto male?»

Provò a dirle che non faceva niente, ma non ci riuscì.

«Aspetta, faccio io» disse Solomon. Non gli aveva rivolto la parola prima di quel momento, si era limitato a fissarlo con occhi liquidi.

Frederick si intromise tra loro, come per fermare l'amico da un assalto. «Fermo! Aspetta!»

Il druido assottigliò lo sguardo. Everard non ricordava di averlo mai visto osservare qualcuno in quel modo. «Sta male, deve essere guarito. Non possiamo lasciarlo così.»

«C'è troppa gente. Non gli piace quando tutti lo stanno guardando. Non è vero Everard?»

Lui annuì, poi strizzò gli occhi cercando di non emettere fiato. Quanto era bello avere qualcuno che lo conosceva? Quanto era bello avere qualcuno che riusciva a capirlo?

«Andate via» ordinò allora Solomon, asciutto, poi esitò. «Anzi, andiamo in camera sua, starà più comodo sul suo letto. Dameta, ripristina gli schermi. Richard, torna in camera tua e restaci, mi sembra di averti detto che non voglio più vederti in giro a meno che non sia necessario. Michael, puoi darmi una mano a farlo arrivare nella sua stanza?»

L'uomo annuì. «Certo.»

Everard l'osservò con tanto d'occhi. Il Solomon che aveva salvato dalla pira era riservato, era dolce. Chiunque fosse questa versione di lui faceva un po' paura e, Ottar, gli piaceva.

Hildebrand si avvicinò per osservarlo meglio. «Sei sicuro di farcela? Ossa rotte, ematomi, un polmone ferito, forse dovremmo aspettare tua madre. Un conto è un ginocchio sbucciato, ma queste cose meglio lasciarle a un figlio di Ingar.»

Solomon non si lasciò smuovere. «No. Sta male, devo almeno provarci.»

Hildebrand lo guardò per qualche secondo e poi si sciolse in un sospiro. «Non insisterò perché tanto non servirebbe a niente. Ma non esagerare, okay? Qualche ematoma puoi anche lasciarlo, non strafare.»

L'altro non si degnò neanche di rispondergli. «Sigga, tu puoi venire con me se vuoi.»

«Ci puoi scommettere che vengo con te!»

Clarice strattonò Frederick per il braccio. «Meglio se andiamo anche noi» incalzò, mentre la piccola folla si diradava, ubbidiente. «Meno gente c'è, meglio è.»

Il ragazzo lo guardò come se avesse difficoltà a prendere una decisione. Everard annuì, il respiro più pacato che riuscì a scandire, per dirgli che andava tutto bene.

Lui si lasciò trascinare dalla compagna, ma restò sino all'ultimo a guardarlo. «Vedi di star bene.»

«Si sente in colpa, e anche io» commentò Michael, che gli aveva teso la mano per aiutarlo ad alzarsi.

Everard gli lanciò un'occhiata gelida. Che idiozia, perché lui o Frederick si sarebbero dovuti sentire in colpa? Lui per primo li aveva pregati di non aspettarlo se non fosse tornato. Era felice che fossero tornati al rifugio sani e salvi.

Dato che Everard non aveva manco provato a rispondere aggiunse: «Farà un po' male.»

Everard afferrò la mano e la strinse, così si lasciò tirare su senza protestare.

Una scarica di dolore lo attraversò, insopportabile. Si morse il labbro per non gridare, perché gli avrebbe fatto ancora più male, e per un attimo tutto quello che vide fu il buio.

Sigga si avvicinò e gli stampò un bacio sulla guancia. «Mi dispiace tanto. Non voglio che stia male.»

«Non fa niente» riuscì a sussurrare, ma se ne pentì subito.

«Non parlare» aggiunse Solomon, il suo tono si era fatto tenero e il suo sguardo ammorbidito, però non l'aveva né toccato né confortato. «Sarà peggio.»

Riuscirono ad arrivare alla camera con l'aiuto di Michael, Sigga gli stava accanto come un'ombra e ogni tanto lo toccava come per assicurarsi che fosse davvero lì. Una carezza sul braccio, una mano sulla spalla, una ciocca di capelli spostata da davanti agli occhi, piccoli gesti per rassicurare entrambi.

Solomon li seguiva a un passo di distanza, stava sulle sue quasi avesse paura di passargli vicino, e non disse un'altra parola sinché non furono arrivati.

Everard si accasciò sul suo letto non prima di aver notato che era sfatto, ma decise che non era il momento di chiedere spiegazioni. Sigga ringraziò Michael, che si accomiatò.

«Ti farò meno male possibile» gli disse Solomon, che guardava un punto imprecisato sul muro sopra la sua spalla, ed Everard annuì.

Avrebbe voluto dire che lo sapeva, che non aveva paura che Solomon gli potesse fare del male, ma parlare sembrava una brutta idea.

«Posso toccarti? È più facile così» gli chiese, proprio come aveva fatto giorni prima quando Sigga gli aveva chiesto di frugare nei suoi incubi.

Quand'era successo, aveva avuto paura di avere Solomon nella sua testa, paura che leggesse qualche pensiero più audace che sarebbe scappato quando si fosse avvicinato troppo.

L'idea non lo spaventava più, e non solo perché sapeva che il ragazzo non avrebbe mai frugato nella sua mente. Aveva i suoi motivi di credere che il druido non se la sarebbe data a gambe se avesse saputo cosa gli passava per la testa quando erano troppo vicini.

Anche se, a giudicare da come stava lì in piedi con titubanza, non poteva esserne troppo sicuro.

«Certo» riuscì a mormorare, anche se gli avrebbe fatto male, perché annuire non sarebbe bastato a spiegare che di chiedere una cosa del genere ormai non c'era più bisogno.

Sapeva che non avrebbe funzionato. Non sapeva ancora tante cose di Solomon, ma una di quelle di cui era certo era che non avrebbe mai rischiato di scavalcare la volontà di nessuno.

«Non parlare, lo farai tra poco» gli ricordò Sigga, poi si voltò verso Solomon e si adombrò. «Non fargli male.»

«Un po' di male deve farlo per forza» disse lui, «ma solo un po'.»

Everard stava per dire di fare tutto il male che serviva, non sarebbe potuto essere peggio della coltellata al petto ogni volta che respirava, ma l'avrebbero sgridato per aver parlato e poi quando sentì la mano di Solomon scivolargli sotto la blusa e le sue dita sfiorargli le costole non avrebbe potuto formulare una frase coerente neanche volendo.

«Trattieni il respiro» intimò, ma lui l'avrebbe fatto anche se non l'avesse detto. Si era dimenticato come si faceva a respirare.

Sentì la magia che lo riscaldava dall'interno. Gli era familiare ormai, un calore che il corpo riconosceva come suo.

Il peso che gli schiacciava il petto si ridusse, poi sentì un suono secco come di un ramo spezzato. Fu come se qualcuno gli avesse dato un pizzico un po' troppo forte, un dolore acuto ma sopportabile e momentaneo.

«Ora puoi respirare, almeno credo.»

«Almeno credi? Che significa?» commentò Sigga.

Everard prese una boccata d'aria e i suoi polmoni gli gonfiarono il petto, liberi. «Funziona!» esclamò, un sorriso che si allungava sul suo volto. «Non mi fa male!»

«Suoni più sorpreso di quanto dovresti» lo sgridò Solomon, ma si vedeva che cercava di nascondere un sorrisetto compiaciuto.

«Grazie» rispose, in un sussurro, e si preparò ad alzarsi in piedi, ma la mano del druido lo fermò, premuta sul suo petto.

«Prego, ma non ho finito. Ho solo spostato una costola che ti stava pungendo il polmone, ma è ancora incrinata, come lo sono altre tre. Per non parlare dell'ematoma enorme che hai sulla schiena.»

Sigga si sedette sul letto accanto a lui e gli afferrò la mano, per poi piazzarsela sulle gambe. «Solo un fesso come te si può fare tanto male cadendo nell'acqua.»

«Ero davvero in alto, e non avevo tempo da perdere per perfezionare il salto, le guardie mi stavano dietro e volevano farmi la pelle, e poi ero in bilico aggrappato al muro da un'eternità e le braccia mi facevano male. La prossima volta provaci tu.»

«Ti preferivo quando dovevi stare zitto» disse Sigga, ma sorrideva e gli stampò un bacio sulla tempia.

Intanto Solomon aveva continuato con la sua magia. Everard sentiva le ossa che si riassestavano, e un leggero dolore soffuso che andava a sostituire le fitte a cui era ormai quasi abituato.

Vide il druido strizzare gli occhi e sentì le dita che tremavano, ancora premute contro la sua pelle.

Si sporse appena in avanti, pronto a sorreggerlo. «Tutto bene?»

«Sì» rispose, in un soffio, ma era impallidito. «Solo, non è la mia specialità. Sono un po' stanco. Se ci fosse mia madre, avrebbe già finito, ma non sono abituato a questo tipo di incantesimi.»

«Non c'è bisogno che continui. Sto già molto meglio. Non voglio che ti stanchi, Hildebrand ha ragione. Devi pensare un po' a te.»

«Hildebrand deve imparare a farsi gli affari suoi» borbottò lui, «avrò solo bisogno di mangiare e riposare un po'.»

«Già, anche io mi farei un boccone, ora che ci penso» rifletté Everard, tornando con la schiena appoggiata al muro. «Comunque, non disturbarti troppo. Sto già una favola.»

«Da quant'è che non mangi?» indagò Solomon, che ignorò la sua offerta di lasciar perdere.

«Mh, quando mi sono svegliato ieri, credo... sì, direi proprio così.»

«Da quando ti sei svegliato ieri?» il druidi aveva spalancati gli occhi e alzato il tono. Si voltò a guardare Sigga in cerca di un appoggio. «E tu non dici niente?»

Lei si strinse nelle spalle. «Al digiuno ci si abitua.»

Solomon sbatté le palpebre, sembrava oltraggiato. «Appena ho finito devi mangiare qualcosa!»

«Appena avrai finito mangeremo qualcosa tutti e due» concesse Everard.

Questo parve essere un buon compromesso, perché il druido si rimise al lavoro senza ribattere. Lo guardò negli occhi per la prima volta da quando erano entrati nella stanza, non li aveva visti solo per un giorno eppure rimase comunque stupito da quanto fossero vivi. Non erano più distanti e freddi come poco prima. Everard vide che scivolavano giù sulle sue labbra, poi il druido strizzò gli occhi e scosse la testa.

«Stai male? Dobbiamo smettere?» chiese, apprensivo.

Sigga gli strinse la mano, forte, questo lo rassicurò.

«No» mormorò, senza aggiungere altro.

Quando ebbe finito, faticava a tenere gli occhi aperti.

«Sdraiati» suggerì Everard, «vado a prendere da mangiare.»

Sigga rise a quelle parole. «Molto divertente. Ora però sta' buono, a prendere da mangiare vado io.»

«Guarda che sto bene» sibilò lui, «posso cavarmela benissimo.»

«Tu starai buono e tranquillo e ti riposerai sino a domani, idiota. Non accetto discussioni a riguardo» cinguettò, e con un salto fu giù dal letto. «Stendetevi adesso, tutti e due! Non scherzo, se quando torno vi trovo in piedi o seduti dovrete vedervela con me» esclamò, poi uscì dalla stanza sbattendo la porta.

«Credo che dovrò davvero sdraiarmi» mormorò Solomon, che barcollò di qualche incerto passo indietro e si abbandonò sul letto di Sigga. «Eri conciato proprio male, sono esausto.»

«Mi dispiace» mormorò Everard, che l'osservava dall'altra parte della stanza. «Forse avremmo dovuto aspettare davvero tua madre. Non mi va che stia male.»

«Non importa» disse lui, sgonfiandosi in un sospiro. «Un boccone veloce e sarò come nuovo.»

Everard esitò per qualche secondo, seduto sul letto a guardarlo. Dopo qualche attimo di incertezza si fece un po' di coraggio e si alzò.

«Non dovresti stare in piedi» disse Solomon, senza voltarsi, con gli occhi puntati verso il soffitto. Doveva aver studiato il movimento con la coda dell'occhio, o forse se n'era accorto dal suono del materasso che si sollevava.

«Non voglio stare in piedi» lo rassicurò, mentre si avvicinava. «Posso? O ti dà fastidio?»

Quando non ricevette risposta, indicò alle sue spalle. «Posso tornare in quello se non vuoi.»

L'idea che preferisse stargli lontano gli punse il petto come la costola di poco prima, ma non gliel'avrebbe mai fatto pesare. Avrebbe alzato le spalle e sarebbe tornato buono sul suo letto senza un commento.

«Non è che non voglio» rispose in un filo di voce, «è che provo così tante cose... non so gestirle, mi confondono. Non mi piace quando non ho tutto sotto controllo.»

Everard sorrise. «Su questo posso capirti.»

«Ieri ho passato la notte con Sigga, sul tuo letto. Ero... fragile. Anche quando ho incontrato le guardie in città ero fragile, sei stato tu a starmi accanto. Ho paura che stare con te mi renda debole. Quando ci sei... non sono più in me, mi permetto di avere paura.»

Everard si accigliò. «Sei stato a letto con mia sorella? Dovrei preoccuparmi?»

«Non volevamo stare da soli.»

«Non sei mai stato debole» aggiunse allora, e avanzò di un passo. «A volte lo dimentico perché sei gentile, ma sai davvero fare paura. Accettare un aiuto non ti rende meno forte, al massimo può fare l'opposto.»

Solomon non rispose, ma si spostò verso il muro per fargli spazio. Non gli aveva ancora rivolto neanche un'occhiata da quando aveva finito di guarirgli le ferite.

Everard si sdraiò accanto a lui su un fianco. Gli accarezzò la fronte con due dita, poi percorse il profilo del suo volto e finì per disegnare una linea immaginaria seguendo la mascella.

«Se quello che mi hai detto ieri l'hai detto solo perché credevi che non ci saremmo più visti puoi dirmelo. Non voglio starti in mezzo ai piedi se non mi vuoi. Non ne abbiamo più parlato, e se ho frainteso le cose non devi...»

«Non essere ridicolo» sbuffò Solomon, i cui occhi restarono fissi sul soffitto. «Certo che voglio stare con te.»

Il suo cuore si allargò. «Bene, perché lo voglio anch'io.»

Solomon prese un profondo respiro e si rivolse verso di lui. Aveva gli occhi annebbiati dalla stanchezza, e a differenza di poco prima erano lucidi. La maschera di indifferenza che aveva tenuto sino a quel momento si incrinò e poi andò in mille pezzi. Si avvicinò ancora, e le mani di Everard gli si allacciarono intorno, stringendolo.

«Sono così contento che sei qui» confessò, a corto di fiato. Tremava. «Scusami, sono ancora un po' scosso.»

«Non ti devi scusare, è tutto a posto» sussurrò al suo orecchio. «Stanno tutti bene, non è successo nulla. È stato solo un breve contrattempo, tutto qui. Va tutto bene. Va tutto bene adesso, stai tranquillo.»

«Stavo per crollare» aggiunse, in un sibilo, «ma mia madre se n'è andata e sono io che devo tenere le redini, e non posso farlo se mi lascio andare, ma tu non c'eri, e pensavo non saresti più tornato, e io non sapevo come fare per restare tutto intero e allora...» la sua frase restò sospesa nel nulla, prese una boccata d'aria per mancanza di fiato ma non continuò.

«Puoi sempre lasciarti andare adesso, io non ho bisogno che tu faccia finta di essere tranquillo. Con me non devi mai nascondere quello che senti, parlo sul serio. Sfogati, se vuoi »

Sospirò e parve darsi un contegno. Si allontanò con la testa per poterlo guardare. «Non importa più, sto bene ora. Comunque grazie.»

Everard sorrise, ubriaco della vicinanza che gli era tanto mancata. «Quando vuoi.»

Solomon si strinse a lui, ed Everard premette le sue labbra nell'incavo della spalla, per iniziare a dargli una serie di baci che salivano su lungo il collo.

Il druido fremette tra le sue braccia, si lasciò andare a un mugolio soddisfatto, poi sollevò il volto in cerca delle sue labbra.

Everard vi si avventò senza troppe cerimonie, una volta che seppe di avere il permesso. Solomon non esitò ad approfondire il bacio e si allacciò più a lui, sciogliendosi in un respiro languido che si scontrò sul volto dell'altro.

Le dita di Everard risalirono lungo la sua schiena e affondarono tra i suoi capelli, il corpo in fiamme.

Solomon si ritrasse appena. «Everard» ansimò, le guance arrossate dalla foga.

«Sì?» gli chiese, ma senza dargli tempo di rispondere lo baciò ancora.

«Everard» insistette Solomon, che si ritrasse ancora.

Il tono allarmato del ragazzo lo fece tornare con i piedi per terra e allontanò il volto di qualche centimetro. «Qualcosa non va?»

«Tua sorella-» non aveva neanche finito la frase, che la porta si spalancò.

Everard lo lasciò e si voltò a guardare Sigga che aveva appena fatto il suo ingresso nella stanza, con l'espressione più innocente che trovò in repertorio.

«Non sapevo cosa prendere, quindi ho portato un po' di tutto! Vi consiglio di mangiare prima le uova perché sono tie-» si interruppe per un attimo. «Perché siete sul mio letto?»

Everard si strinse nelle spalle. «Bella domanda, sono contento che tu l'abbia fatta. Perché avete dormito sul mio letto insieme, stanotte?»

Sigga schiuse le labbra e incenerì Solomon con lo sguardo. «Hai fatto la spia?»

«Non pensavo fosse un segreto!»

«Se vuoi possiamo spostarci nel mio» concesse Everard, che non aveva la minima intenzione di separarsi da lui più di qualche centimetro per il resto della giornata.

«Non c'è bisogno» borbottò la ragazza. «Ma occhio alle briciole!»

I due si sedettero per poter mangiare, Everard si accorse che ogni traccia di dolore era sparita.

Everard afferrò sua sorella per un braccio e la tirò a sedere accanto a loro. Lei si lasciò trascinare di buon grado, e appoggiò la testa sulla sua spalla, in un sospiro.

«Mi sei mancato, idiota.»

«Mi sei mancata anche tu» rispose lui, le arruffò i capelli con la mano. «Ma non ti ci abituare!»

Sigga si strofinò sul suo palmo come un gatto, e lui le accarezzò la guancia.

«È un gran bel giorno per non morire» commentò poi.

«Già, preferirei che restasse un bel giorno per non morire anche domani!» disse lei. «Meglio specificare, con te non si può mai sapere. Buone le uova, vero?» aggiunse poi. «Sono anche riuscita a convincere Hildebrand a scaldarle con la magia! Non so neanche io come ho fatto!»

«Questa è senza dubbio la cosa più strana che ho sentito oggi» commentò Solomon, che si era messo in bocca un pugno di mandorle e le masticava avido.

«Ha detto anche di dirti che sei un idiota e non devi fare tutti questi incantesimi da solo» aggiunse.

«Ecco, questo è più da lui» commentò Everard, con un ghigno.

«Ora dobbiamo solo aspettare mia madre e chiunque abbia deciso di seguirla» commentò Solomon. «Nel frattempo terremo alti gli schermi di Dameta e nessuno ci disturberà.»

Everard fece una smorfia. «Non hai paura che restino chiusi fuori anche loro?»

Solomon scosse la testa. «Un druido potente come mia madre non ha bisogno del passaggio per vedere attraverso gli schermi di Dameta.»

«Sono l'unico che è rimasto chiuso fuori e ha dovuto passare la notte nella foresta allora, questo sì che fa bene all'autostima» borbottò, allora. «Di sicuro avrà fatto piacere all'elfo!»

«Già, scusami per l'elfo, non volevo chiuderti fuori» mormorò Solomon. «Non credevamo saresti tornato da solo e così in fretta» fece per aggiungere qualcosa, quando sobbalzò e si portò una mano al petto per riprendere. «Qualcuno ha passato la barriera. Dev'essere mia madre.»

Sigga si rilassò, scaricava tutto il peso sul suo fianco. «Meno male... mi sento più tranquilla.»

L'amico la ignorò. «Devo sapere se è riuscita a reclutare qualche druido per darci una mano... è così tanto che non incontro qualcuno di un'altra congrega!»

Sigga sembrava incuriosita «Quanti altri druidi ci sono in giro?»

«Non saprei dirlo di preciso. Di nome ne conosco una trentina, ma ce ne sono altri. È difficile mantenere i contatti quando non puoi farti vedere alla luce del sole.»

«Non vedo l'ora di vederli!» sospirò lei. «Voglio sapere se sono tutti strani come te! Quando potrò vederli?»

«Ho paura che cambierai idea in fretta» rispose Solomon. «Mia madre ci ha cresciuti con un'educazione neutrale, per quanto possibile, eppure persino Hildebrand quando vi ha visti per la prima volta è stato un po'... sulla difensiva. Gli altri sono anche peggio. Odiano gli umani.»

Note autrice
Finalmente, Everard è riuscito a tornare a casa. Solomon gli ha guarito le ferite, e sono anche riusciti ad avere tipo... trenta secondi di intimità lol.
Però, ehi, sono arrivati nuovi druidi! Siete felici? Vi anticipo che saranno tre, due dei quali, un maschio e una femmina, molto importanti per la trama. Avete teorie a riguardo?

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