9.1 // Oltre ogni previsione

Everard credette di essere morto per un istante, le orecchie che ronzavano, freddo sulla pelle e un buio totale, poi si accorse che sentiva troppo dolore per aver smesso di esistere. Si forzò a dare un colpo di gambe ed affiorò con la testa fuori dal pelo dell'acqua, spalancò la bocca e inghiottì ingordo una boccata d'aria.

L'atterraggio non era andato bene come aveva sperato. Non era abituato a cadere da quelle altezze ed era finito nell'acqua di schiena, respirare gli faceva male. La mente ovattata era rallentata nella formulazione dei pensieri più semplici, e a malapena registrò che se non avesse continuato a tenersi a galla sarebbe annegato.

Gli mancarono le forze e sparì con la testa sott'acqua. Era tanto intontito che non riusciva a capire quale fosse il sopra e quale il sotto, sapeva solo che aveva i polmoni che bruciavano e bisogno di respirare. La corrente lo sbatté a una sponda del fiume, riuscendo a orientarlo, e con un'altra spinta dolorosa sbucò ancora in superficie.

Più lucido, mosse le gambe deciso a non affondare di nuovo.

Si portò le mani agli occhi e li asciugò, mentre veniva trascinato dalla corrente. Sbatté le palpebre per dissipare le gocce incastrate sulle ciglia e guardò in alto, al castello che si allontanava mentre il fiume lo trasportava verso la foresta.

Se fosse riuscito a restare sveglio e non annegare la corrente lo avrebbe avvicinato al rifugio. L'unico problema era che si sentiva davvero esausto, le gambe e le braccia andavano a indebolirsi, aveva i sensi intorpiditi e faticava a tenere gli occhi aperti.

Alcuni passanti che attraversavano il fiume nei vari ponti della città lo studiarono con aria perplessa e un po' diffidente mentre passava, non era comune che qualcuno si buttasse nel canale che scorreva dentro la capitale, era sporco e poteva essere insidioso per via della corrente.

Everard non voleva essere riconosciuto, quindi si decise a restare dov'era. Guardandolo a distanza dalle due sponde, mentre si muoveva lungo il percorso dettato dall'acqua, sarebbe stato difficile per loro determinare chi fosse. Attraversare la città per la strada sarebbe stato meno sicuro.

Le gambe iniziarono a fargli troppo male per continuare a tenersi a galla proprio quando il fiume lo portò fuori dalle mura, e aspettò di essersi addentrato tra gli alberi prima di darsi una spinta finale e aggrapparsi a una delle sponde, tirandosi fuori con le braccia. Non ebbe la forza di muoversi più dello stretto necessario che servì per strisciare via dalla corrente e restò steso per terra di schiena, con le foglie che lo grattavano e zuppo di fango sulla blusa fradicia. Si voltò su un fianco con un gemito di dolore e si sfiorò il dorso con la punta delle dita.

«Maledizione» mugolò, tra i denti. Il semplice tocco gli provocava fitte acute, il dolore che pulsava. «Devo imparare a tuffarmi meglio.»

Chiuse gli occhi, abbandonandosi alla stanchezza. Sapeva che c'erano persone che lo stavano aspettando, persone che si sarebbero preoccupate della sua assenza. Sapeva che Richard lo aveva dato per morto - anche lui si sarebbe dato per morto sino a pochi minuti prima - e sapeva che sarebbe dovuto tornare verso il rifugio il prima possibile, in teoria.

Nella pratica trovava l'idea di alzarsi ridicola.

«Non sono morto» rifletté, tra sé e sé. «Mi riposerò un attimo e quando mi sveglierò tornerò a casa. Che male può fare se mi rilasso un po'?»

Ogni volta che inspirava e il suo petto si gonfiava, doveva trattenere uno spasmo per il dolore. Non era un buon segno.

La stanchezza ebbe la meglio sul corpo che bruciava, e scivolò nel buio prima del tempo di un altro respiro.

🔥🔥🔥

Quando il morso della fame e della sete si fece troppo ingombrante per essere ignorato, il ragazzo aprì gli occhi in un sussulto. La fitta che derivò dal gesto improvviso gli fece contorcere il viso di dolore.

«Cosa... dove sono?»

Non si trovava più nella foresta, il suo sguardo puntato verso un soffitto in legno annerito.

Si rese conto di essere steso di sbieco su una panca, in un salotto che aveva un'aria familiare.

Mise a fuoco ciò che aveva intorno e la prima cosa che notò dopo aver compreso dove si trovava fu che dovevano essere passate delle ore. Era notte, la stanza era illuminata da un candelabro su cui erano accese diverse candele, e dalle finestre non entrava luce, neanche della luna, forse a causa delle fronde degli alberi.

Everard si accigliò e studiò meglio la stanza. C'era una chiazza cinerea che copriva parte di un muro e arrivava al soffitto, sembrava quasi che qualcuno avesse acceso un falò troppo alto le cui fiamme avevano macchiato le pareti di fumo. Anche le poltrone davanti a lui erano consumate, colte da una fiammata improvvisa che doveva aver occupato quasi tutta la stanza, la puzza di bruciato era forte.

«Non girare il coltello nella piaga, ragazzo, se stai lì a fissarlo in quel modo è la volta buona che sbotto. Il tuo druido ha quasi dato fuoco a tutto, oggi. Non hai idea dello spavento che ci ha fatto venire, tutto per una banale visione» commentò una voce, e Everard si voltò nella sua direzione, allarmato. Una donna druido dagli occhi di ghiaccio era seduta su una delle panche accanto a lui, il ragazzo la riconobbe all'istante. «È stato qui con tua sorella e la tua amica poco fa. Una vera seccatura.»

«Non è il mio druido» borbottò, a bassa voce. «È un druido.»

«Un druido, certo» rispose, con un ghigno. «Un druido a caso, tanto che non hai neanche considerato l'opzione che mi riferissi a qualcun altro.»

Everard non rispose. «Questa è la casa in cui ci ha portato il pescatore quando eravamo piccoli. Sto sognando, vero?»

«No» rispose la donna. «Non stai sognando. Ti abbiamo portato qui perché eri messo male. Perché non ti calmi e non mangi un po' di pane dolce?»

«Il ragazzo sa tutto, Clene» una voce la interruppe, nel momento in cui una delle porte si aprì. Una donna umana gli sorrise affabile ed entrò nella stanza con loro. «È nel pieno delle forze ed è venuto qui per avere qualcosa da noi. Ha senso che tu continui a fare i nostri giochetti con lui in quel modo.»

Everard si accigliò. «Ma cosa stai dicendo? Non sono neanche venuto qui apposta!»

«Ti sei rammollita forse? Non dirmi che ti importa di questo ragazzo, adesso» sbuffò l'altra.

«Tanto lo so che non importa neanche a te. Non ti sei affezionata affatto, quando era un bambino.»

«Ho fatto tanti sogni strani nella mia vita» rifletté Everard, «ma questo è senza dubbio il più strano di tutti.»

Il druido sbuffò di nuovo, poi lo studiò con occhi attenti. «E va bene, hai vinto, non giocherò con lui.»

«Tante grazie» sbuffò Everard, poco convinto. «Potrei avere dell'acqua?»

«Certo che no, caro» rispose la donna gentile, poi si voltò e si diresse verso il tavolo su cui Everard ricordava che consumavano i pasti.

«Ti abbiamo raccolto vicino al fiume, è pericoloso dormire in quel modo nella foresta. Ci sono animali selvatici e anche di peggio» sibilò l'altra, severa.

«Grazie di avermi portato qui.»

«Non ringraziarci e sparisci il prima possibile, piuttosto. Non riceviamo così tante visite da quando sei capitombolato qui con tua sorella quindici anni fa, non siamo abituati a ragazzini che ci ronzano intorno.» Everard annuì diligente e lei sospirò. «Se ti dico come arrivare al fiume, sai tornare a casa da lì? Hai bisogno di cure e noi non facciamo magie.»

«Ho bisogno di svegliarmi» corresse Everard. «Ma sì, so tornare a casa dal fiume.»

«Benissimo, allora bevi e sbrigati ad andartene.»

Al ragazzo sembrava un tono un po' troppo scontroso per i suoi gusti, e si chiese perché i suoi sogni gli mostrassero una scena del genere. Forse gli dèi cercavano di mandargli un messaggio come quando aveva sognato Richard bambino che si buttava nel fiume. Sentiva ancora male ovunque e sperò di svegliarsi presto.

L'umana si avvicinò con dell'acqua, rivolse alla compagna un sorriso soddisfatto. «Pessimo lavoro, sei una vera delusione. È anche per questo che ti odio.»

Everard bevve avido, e nascose il volto imbarazzato dietro la coppa colma d'acqua per evitare di commentare quello strano insulto.

«Ora non ti spiegherò dove devi andare» continuò poi l'umana, una volta che lui ebbe finito di bere e si fu ripresa il calice vuoto. «Non ascoltare quello che ti dico...»

L'altra la fermò, posandole una mano sulla spalla. «Lige, tesoro, meglio che ci pensi io, l'hai già confuso abbastanza.»

Everard trattenne una smorfia confusa.

Ricevette le indicazioni per tornare al fiume, e quando le donne lo ebbero salutato in modo ancora più strano -«Torna quando vuoi!» «Non farti più vedere!» - e lui si ritrovò a camminare ancora in mezzo al bosco, iniziò a chiedersi sul serio se si trattasse o meno di un sogno.

L'acqua e il sonno lo avevano rinfrancato ma era indolenzito e le fitte non accennavano ad abbandonarlo, soprattutto alla schiena e al centro del petto. Ogni respiro che prendeva lo pungolava dall'interno.

Ogni tanto, il frusciare delle fronde dietro di lui lo allarmava, eppure non si voltò. Ricordava le voci sulle creature che popolavano la parte più profonda del bosco. Sogno o meno, trasformare quello strano viaggio in un vero e proprio incubo era l'ultima cosa che desiderava.

Non avrebbe saputo dire da quant'era che stesse pensando solo a mettere un difficile passo dietro a un altro, ma quando riconobbe il fiume sospirò di sollievo. Attraversò il guado con un po' di titubanza, era difficile tenersi in equilibrio sulle rocce quando ogni muscolo del suo corpo urlava dal dolore e dalla stanchezza.

Si consolò un po' all'idea che presto sarebbe arrivato dove voleva andare. Aveva bisogno di parlare con Sigga, aveva bisogno di rivedere Solomon, e chissà se Frederick era già arrivato con gli altri al rifugio.

Il fato parve avere altri piani per lui.

Quando arrivò all'altezza dell'albero con il marchio di casa, o almeno a quella che ricordava fosse l'altezza giusta, quello non c'era.

Occhieggiò tutt'intorno con aria confusa, l'esasperazione che iniziava a montare, chiassosa e distruttiva. Accartocciò il volto in una smorfia frustrata.

Forse si trattava davvero di un sogno - meglio, di un incubo. Uno dei classici incubi in cui aspiri a un obiettivo e quello si allontana, senza permetterti di raggiungerlo.

Certo doveva essere l'unica spiegazione. Certo non potevano essere spariti senza lasciare traccia.

Certo non potevano averlo abbandonato e basta, giusto?

Al respiro doloroso e i muscoli contratti si aggiunse un principio di panico. Forse era morto e questo era il suo aldilà. Forse Ingar, guardiano delle anime che lasciavano il mondo dei vivi, l'aveva punito perché aveva tentato un'impresa persa in partenza. Gli dèi non amavano i superbi.

Forse era questo che lo aspettava per l'eternità, il dolore del corpo per la caduta e lo sfibrarsi dell'anima per l'infinita ricerca delle persone che amava che non avrebbe mai trovato.

Restò in piedi per un attimo, rassegnato. Non aveva nessuna idea di cosa fare, nessun'altra opzione se non restare fermo immobile nella speranza di svegliarsi accanto al fiume e tornare davvero nella direzione del rifugio.

Non sarebbe potuto tornare in città, era ricercato. Al rifugio, a quanto sembrava, nessuno era ansioso di vederlo tornare. E di certo non sarebbe sopravvissuto a lungo da solo nel bosco, non ferito e in quelle condizioni.

Everard si sgonfiò in un sospiro. Era buio pesto e non era mai stato solo nella foresta di notte, ma non era nuovo agli incubi.

Chiuse gli occhi prese un respiro profondo, anche se in questo modo il petto gli faceva più male. Chissà se dormendo, alla fine si sarebbe svegliato. Chissà se si sarebbe svegliato mai più.

🔥🔥🔥

Sigga si trascinò a dormire appena dopo che Richard ebbe finito il suo racconto, anche se il sole non era ancora tramontato del tutto. Non aveva più voglia di picchiarlo sino a farlo sanguinare, ma forse la ragione era solo che era esausta e non aveva voglia di fare niente e stare con nessuno.

Entrò in camera sua e di Everard, e senza neanche doverci pensare due volte si infilò nel letto di suo fratello.

Afferrò il cuscino di piume in cui aveva dormito solo una notte e lo abbracciò tanto che ebbe paura di fare scoppiare le cuciture, ci affondò il volto e urlando a pieni polmoni con la voce attutita dalla stoffa premuta sul suo viso.

Questa non te la perdono. Adesso vattene.

Ecco, aveva rovinato tutto come sempre. Everard non era tornato, forse non sarebbe tornato, e prima che andasse via lei cos'aveva fatto? I dispetti. Come sempre.

Si limitò a fissare il soffitto con gli occhi spalancati, immobile, aspettando che il sonno avesse la meglio con il cuore che le bruciava nel petto come ferro arroventato.

Quando sentì la porta aprirsi spostò gli occhi stanchi sull'ingresso della stanza. Non sapeva che ore fossero o quanto tempo era passato, ma si era fatto buio fuori. Osservò la figura che stava entrando nella stanza senza che nessuno dei due proferisse parola.

Solomon la studiava con occhi incerti, accanto al letto di Everard. Non era neanche passato in camera sua a cambiarsi, portava la tunica sporca di foglie e terra con cui aveva attraversato il bosco. I suoi occhi verdi erano arrossati e stanchi. Sigga sapeva che lei doveva essere anche peggio.

Senza bisogno che lui lo chiedesse si spostò verso il muro per fargli spazio e lui si sfilò i sandali e le si sdraiò accanto.

Nessuno poteva capirla in quel momento, neanche lui, perché nessuno aveva mai amato suo fratello come l'aveva fatto lei, e questo lo sapevano entrambi. Sapevano anche che avevano più cose in comune di quanto sembrasse, quella notte, così lo accettò senza fiatare.

Non gli chiese perché era venuto, la risposta sarebbe stata scontata e lei non aveva voglia di sentirla.

Sigga posò il braccio tra loro con la mano rivolta verso l'alto, e lui interpretò l'offerta per quello che era, prendendola nella sua.

«C'è qualcuno che ronza intorno alle nostre barriere difensive qua fuori» disse Solomon. La sua voce era ridotta a un soffio. «Pensavo che se ne sarebbe andato, il rifugio è nascosto, ma è ancora vicino all'ingresso. Devono aver mandato un soldato in ricognizione.»

«Non è stato Everard» chiarì, prima che il druido potesse aggiungere altro. «Non può aver detto a nessuno dove siamo. È impossibile.»

Lui fece una piccola smorfia. «Lo so. E comunque è ancora vivo, ho controllato poco fa. Se si fosse lasciato scappare dove siamo l'avrebbero ucciso.»

«Vuoi che usciamo e facciamo fuori chiunque ci sia?»

«Nah» rispose Solomon, distratto. «Tanto non può trovarci sinché non esce fuori qualcuno.»

«Magari è tua madre, forse dovremmo andare a controllare.»

«Mia madre non sarà da sola, e comunque sa vedere oltre gli incantesimi illusori che abbiamo lanciato. Sarebbe già entrata.»

«Tu dici che ne manderanno altri? Che riusciranno a entrare, alla fine?»

«Non credo. Dameta è giovane, ma ci sa fare con gli incantesimi di Sunnar. Gli schermi devono reggere solo qualche ora, domani mattina mamma sarà qui.»

«E poi andrà a prenderlo, vero?»

Lui annuì. «Certo. Se glielo chiederò io lo farà.» Restò in silenzio qualche attimo, poi aggiunse: «È colpa mia, penso che dovresti saperlo.»

Sigga sbuffò. «Anche io avrei dovuto insistere. Avrei dovuto ricattarlo o andare con lui di nascosto.»

«Non in quel senso. L'Oracolo. È colpa mia, e non posso neanche dire cosa ho trovato in quello stupido messaggio.»

No, no, no. Perché parlavano di colpe in quel modo? No, Everard era vivo, doveva pur valere qualcosa. «Non importa» gli disse. «Tanto tua madre ce lo riporterà domani stesso.» Sospirò. «Pensi che riusciremo ad addormentarci?»

«Prima o poi di sicuro» rispose Solomon. La ragazza non era altrettanto convinta. «Dipende tutto dalla lunghezza di quel poi.»

Dopo quelle parole restarono fermi e in silenzio. Gli unici dettagli che le suggerivano che ci fosse qualcuno accanto a lei erano le loro mani rimaste intrecciate al centro del letto e il suono di un respiro oltre al suo.

Quando riaprì gli occhi e notò che il sole entrava dalla finestra, non si era neanche accorta di essersi addormentata. Era sola nel letto, tanto che per un attimo pensò di aver sognato la visita di Solomon, poi notò le coperte spiegazzate, e si disse che doveva essere successo davvero. Si alzò e si infilò uno dei vestiti nuovi.

Andò fuori nel giardino interno, dove come sempre veniva servita la colazione. Le grandi tovaglie stese sul prato erano colme di frutta e c'erano anche caraffe di latte e qualche uovo bollito. Non aveva molta fame, ma pensò che avrebbe dovuto sforzarsi di mangiare.

Michael, David e quello che sembrava suo figlio mangiavano parlottando tra loro intorno a un angolo delle tovaglie. Dal lato opposto, Clarice parlava a Dameta di qualcosa, aveva un'aria sbattuta, ma non quanto Frederick che accanto a loro sembrava non prestare attenzione al discorso e dall'aspetto che aveva non doveva aver chiuso occhio. Emeline e Richard non si vedevano da nessuna parte.

Il suo sguardo fu catturato da Solomon, la sua tunica doveva essere stata sostituita, o forse era stata sistemata con la magia, perché non era impolverata e non sembrava il ragazzo ci avesse dormito su. Parlava con Hildebrand a bassa voce, e sembrava irritato, ma non a pezzi come l'aveva visto ore prima.

L'argomento di cui discutevano sembrava seria, quindi si avvicinò a loro con circospezione. «Ehi.»

Solomon si voltò a guardarla e per un attimo tutto il dolore del giorno prima gli si lesse in faccia. Il momento passò veloce com'era venuto e un attimo dopo aveva indossato la sua maschera di indifferenza. «Ciao.»

«Buongiorno» la salutò Hildebrand.

«Non la parola che avrei usato, ma grazie» borbottò lei in risposta. «Che succede?»

«Gli stavo parlando dei due messaggi che abbiamo ricevuto ieri» commentò Solomon, con un'occhiata allusiva. «Stavamo cercando di decifrare il secondo.»

«I due messaggi» rifletté lei, per fargli capire che l'avrebbe coperto. «Certo.»

«Ora però non è il nostro problema principale» aggiunse Hildebrand. «C'è qualcuno qua fuori, forse mandato dalle guardie, hanno capito dove siamo. Lo sento da quando mi sono svegliato qualche ora fa, non accenna ad andarsene.»

«Ah, è ancora lì?» domandò Sigga, assonnata.

Hildebrand si accigliò. «In che senso "è ancora lì"?»

«Solomon l'ha percepito ieri notte prima di dormire.»

Il druido si voltò verso Solomon con un cipiglio seccato. «Tu sai che ci hanno trovati da ieri notte e non hai detto niente?»

Lui si strinse nelle spalle, le labbra pallide arricciate in una smorfia. «Chi se ne importa. Tanto non possono entrare comunque.»

«Chi se ne importa? Chi se ne importa?! Loro non possono entrare ma noi non possiamo uscire! Quando finirà da mangiare cosa faremo, eh? Ci hai pensato, almeno?»

Solomon alzò le spalle di nuovo. Sigga, conoscendo Hildebrand, era sicura che avrebbe sbottato o se ne sarebbe andato da Dameta a lamentarsi.

Invece la sorprese.

Il ragazzo sospirò e sfiorò il braccio dell'altro con la mano. «Senti, capisco che-»

«No invece» rispose, brusco. «Non lo capisci. Se ti importa tanto di questa guardia, affacciati all'ingresso e controlla come mai non è ancora fuori dai piedi. Non uscire dalla porta, altrimenti potrà vederti. Poi torna qui e dimmi che diamine sta combinando.»

«Sì» rispose Hildebrand, senza troppe storie. Quella reazione comprensiva non era proprio da lui.

«Hilde» aggiunse Solomon, appena prima che il fratello se ne andasse. «Non farti vedere, dico sul serio. Non posso... ho bisogno... io... non posso perdere anche te.»

«Lo so. Resterò dentro i confini, promesso.»

Note autrice
Everard ha preso una bella botta tuffandosi dalle mura del castello, ma sembra essere tutto intero. Sigga e Solomon però non lo sanno, e a modo loro stanno cercando di elaborare la cosa.
Meno male che è riuscito ad arrivare sul luogo del rifugio, pur non trovandolo. Hildebrand andrà là fuori aspettandosi un soldato e troverà lui ad attenderlo, in una situazione... spinosa. Diciamo che non è proprio del tutto fuori pericolo ^^"
Troverete questo e altro nel prossimo capitolo.
Attendo impaziente opinioni e teorie, come sempre!

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