7.2 // Il Palazzo Reale

«Forse non ci siamo capiti» sibilò Michael, che continuava a sistemare lo stretto colletto della divisa che portava. «So di conoscere i rudimenti del combattimento, ma non posso mettermi a lottare con le guardie! Non sono al loro livello!»

Everard incrociò le braccia e alzò un sopracciglio. «Hai un'idea migliore? Dimmi, sono curioso.»

L'uomo sbuffò. «Ti hanno mai detto che quando hai paura diventi molto irritante?»

«Io non ho paura» rispose, ed era una mezza verità. Non aveva solo paura, era terrorizzato.

Scappare sui tetti delle case per sfuggire alle guardie era un conto; trovarsi nei cunicoli bui del palazzo reale alla mercé degli uomini di Jasper era un altro; sapere di avere qualcuno che lo avrebbe aspettato a casa e che non avrebbe avuto pace se non fosse tornato era anche peggio. Per questo continuava a tirare fuori un'idea dietro l'altra anche se la maggior parte non avrebbe funzionato. Aveva bisogno almeno di avere l'impressione di avere un piano.

«Come no» sbuffò l'uomo, che lo spinse in malo modo su per le scale. «Ti vedo proprio tranquillo infatti.»

Everard fece una smorfia, ma non emise suono. Per essere una mossa che doveva essere dolorosa, Michael era stato delicato.

«Andiamo, e ricorda di non dire una parola. Fai una faccia preoccupata» commentò. «La più preoccupata che puoi.»

«Questo non sarà difficile. Da che parte andiamo?»

«Beh, qui sotto ci sono le cucine» ragionò Michael. «Direi di risalire, innanzi tutto.»

Everard pensò a Frederick, al fatto che l'aveva coinvolto e con ogni probabilità era già stato passato a fil di spada e sentì le viscere che si torcevano, lasciandolo senza fiato. Non gli importava di non sapere dove fossero rinchiusi, se fossero stati vivi li avrebbe trovati a ogni costo. Scosse la testa. Non era il caso di pensarci al momento, doveva restare lucido.

«Saliamo» concordò, «e non avere paura di essere brusco, hai visto come le guardie trattano i prigionieri.»

Michael annuì. «Se esagero pestami il piede» gli sussurrò all'orecchio.

«Molto discreto, che grande idea» sibilò Everard, sarcastico.

Non dissero più una parola per paura di essere scoperti, non era certo d'abitudine vedere i prigionieri fraternizzare con le loro guardie.

Il silenzio diede al ragazzo il tempo di pensare mentre salivano le scale incespicando, con la paura di cadere per via della posizione scomoda.

Pensare, in una situazione del genere, non era mai una buona idea. Evitò di soffermarsi sulle scarsissime possibilità di successo della missione; su Emeline che era stata catturata e forse già giustiziata senza neanche passare nelle segrete; su Frederick che forse era già sotto terra a causa sua; su Richard che era necessario per sconfiggere Jasper e ora si trovava chissà dove là nel palazzo; su quello che avrebbe perso se non fosse più uscito da lì.

A volte era questo che significava avere una responsabilità, un forte e accecante istinto di autoconservazione. Restare attaccati alla vita perché qualcun altro vi si era appoggiato.

Così chiuse gli occhi un istante e cercò di alienarsi dai pensieri negativi che gli affollavano la mente. Doveva pensare a qualcosa di bello, altrimenti non ce l'avrebbe fatta.

Ricordò che Ingerid aveva assegnato una missione anche a Sigga e Solomon, missione di cui non conosceva nulla se non il fatto che doveva essere meno pericolosa della sua.

Ringraziò gli dèi che i due fossero così giovani, che potessero essere ancora assegnati a un compito più sicuro. Si chiese se fossero già partiti, poi se Sigga fosse ancora arrabbiata con lui. Sperava che le dinamiche di come si erano salutati non la distraessero troppo dal suo compito, anche se le possibilità erano scarse. Sigga tendeva a rimuginare molto, quando era arrabbiata.

Cercò di immaginare cosa stessero facendo senza riuscirci, e quando arrivarono alla fine delle scale non si era neanche accorto di averle percorse, le voci di tutti quelli che animavano i saloni e la luce che arrivava dai candelabri e dalle finestre lo stordì.

Sentiva il fiato pesante di Michael sul collo e lo avvertiva teso come la corda di un arco, mentre i suoi occhi guizzavano da un lato all'altro della sala per capire la direzione da prendere.

Camminarono alla cieca per un po', i passanti giravano al largo al solo vederli e non fecero fatica a farsi strada per i piani inferiori. Erano fortunati che nel palazzo ci fosse tanto via vai, la maggior parte dei presenti non restava ferma in una stanza più dell'attimo necessario per attraversarla, era meno probabile che qualcuno notasse che caracollavano di sala in sala con aria smarrita cercando non si sapeva bene che cosa.

La mano di Michael lo afferrò per il polso e glielo portò dietro la schiena in un gesto doloroso, poi si ritrovò spintonato con forza in una sala adiacente.

«Guardia in arrivo» sentì in un sussurro, e trattenne il respiro.

Nello stanzone in cui si erano appena infilati, alcune sarte tessevano un enorme tappeto col motivo di un pavone. Li osservarono per qualche attimo con aria perplessa e diffidente, ma nessuna di loro aprì bocca o chiese che ci facessero lì.

«Davvero pensavi che un patetico tentativo come quello ti avrebbe permesso di entrare? Verrai interrogata come tutti gli altri, e quando sapremo quello che ci serve ti faremo tagliare la testa.»

«Scommetto che ti senti molto sicuro di te in questo momento, sarebbe un peccato se qualcuno ti rovinasse i piani...» arrivò alle sue orecchie una voce di donna che Everard conosceva, le parole seguite da un breve urlo di dolore e sorpresa.

«Quando verrai giustiziata per alto tradimento chiuderai la bocca una volta per tutte.»

«Ci avete già provato, mi pare. Chissà se questa volta avrete più fortuna!»

Quando le voci si furono allontanate, Michael lanciò ancora uno sguardo alle sarte con aria esitante, ma nessuna di loro aveva più alzato lo sguardo, guardandosi bene dal creare fastidio a un soldato della corona. Everard si sentì trascinato di nuovo nel salone da cui erano arrivati e sbuffò. La situazione cominciava a essere seccante e odiava essere strattonato come una bambola.

«Smettila» gli intimò Michael tra i denti. «Non si è mai visto un prigioniero che sbuffa alle guardie, comportati bene.»

Everard aveva una risposta tagliente sulla punta della lingua che tenne per sé. Michael aveva ragione, questo era l'unico modo, e se avesse mantenuto la sua espressione infastidita la copertura sarebbe saltata.

La guardia che avevano sentito poco prima stava trascinando Emeline e continuava a biascicare insulti, diretto verso le prigioni del palazzo. Si misero a seguirla a parecchi passi di distanza, con l'idea di non dare nell'occhio e nella speranza che non arrivasse nessun altro soldato alle loro spalle.

Camminarono in silenzio per quelli che sembrarono minuti interi, schivando annoiati membri del personale che correvano qua e là, qualche bambino e persino uno o due presenti che li osservavano con malcelata curiosità e interesse, forse perché riconoscevano Everard come quello che aveva creato scompiglio con la storia del druido.

Pensare all'ulteriore "scompiglio" che aveva tutta l'intenzione di creare con Solomon se fosse tornato sano e salvo gli diede l'unico piccolo angolo di gioia da quando era uscito dal rifugio quella mattina.

Commise quasi l'errore di ghignare sbeffeggiando i passanti, quando Emeline svoltò con il suo carceriere in un angolo meno frequentato, distogliendolo dai suoi pensieri.

Michael attese qualche secondo per non dare troppo nell'occhio e poi continuò a camminare sulle loro tracce, rallentando il passo. Meno gente affollava i corridoi più era pericoloso per loro tallonarli.

Svoltarono l'angolo a loro volta e per poco non li persero, adocchiando solo la cima della testa della guardia che spariva in una rampa di scale simile a quella che portava alle cucine, solo più angusta. Iniziarono a sentire del trambusto venire dalla direzione da cui erano venuti, voci concitate che aumentavano di intensità.

Qualcuno doveva aver trovato la guardia che avevano messo fuori uso, la gente iniziava a farsi domande. Era solo questione di tempo prima che il posto si riempisse di soldati.

Le scale erano buie e deserte, più strette di quelle che avevano già percorso ma altrettanto scivolose, con le torce più distanziate tra loro. Michael lasciò la presa mentre scendevano, o sarebbero capitombolati giù entrambi.

Everard fece una smorfia e agitò il braccio, non sentiva più il braccio, solo un formicolio intenso dalla spalla al polso. «Hai un po' esagerato, amico» sibilò, massaggiandosi con il braccio sano.

«Ho preferito essere credibile» sussurrò Michael in risposta.

Sentirono un clangore metallico come di una serratura che scattava, poi una voce che conoscevano bene esclamò: «Mamma! Che ci fai tu qui?»

Everard chiuse gli occhi e permise alla voce di Richard di penetrare in profondità. Prese un profondo sospiro, lasciandosi avvolgere dal sollievo.

Erano vivi. Erano vivi, li avrebbe portati fuori da lì. A breve sarebbero stati al sicuro.

«Dove l'hai trovata?» chiese una voce maschile, e sentirono la guardia che aveva appena trascinato Emeline sbuffare in risposta.

«Era all'ingresso, ha provato a entrare con una scusa, ma gli uomini l'hanno intercettata subito. Penso cercasse il ragazzo.»

«C'erano druidi con lei?»

«Se ci fossero stati druidi avrei portato qui anche loro, non vi pare?»

«Non mi piace il tuo tono, soldato.»

«Scusate, signore. Nessun druido in vista, era sola.»

«Uno di questi idioti» commentò la prima guardia che aveva parlato, «è il principe, non so se ti è chiaro. I druidi l'hanno trovato e noi dobbiamo capire qual è, o saremo noi quelli a cui taglieranno la testa. Sono cose serie.»

«Perché non li uccidiamo tutti e basta? Se il ragazzo è tra loro, morirà.»

«Perché alcuni tra loro sanno dove si trova il loro covo, e trovarlo al momento è la priorità.»

Everard alzò gli occhi al cielo a sentire "covo", ma si morse il labbro per non commentare.

«Quindi? Che ordinate di fare?»

«Tenete gli occhi aperti all'ingresso, se la donna è qui potrebbero essercene degli altri. Se ci sono, portateli da me.»

«Sì, signore, vado ad avvertire i compagni» rispose la guardia, ed Everard e Michael sentirono i suoi passi avvicinarsi alla scala.

Si scambiarono uno sguardo terrorizzato ma eloquente. Everard annuì e Michael sfoderò la spada rubata.

«Non so come si combatte, ho avuto lezioni di spada quando ero bambino, ma...»

«Allora lo coglierai di sorpresa. Non dargli tempo di reagire e andrà bene, non se lo aspetta.»

Michael chiuse gli occhi e annuì, poi restò fermo a raccogliere le idee per qualche attimo. Li riaprì e sistemò le mani incerte sull'elsa, soppesando la lama.

«Devi ucciderlo subito» insistette Everard, «non puoi dargli tempo di urlare o arriverà il suo compagno, e lui sarà pronto.»

Michael annuì ancora, con riluttanza, l'uomo era arrivato alle scale e lo sentirono salire per la curva stretta su cui si erano fermati appena a metà.

Quando dopo una svolta apparve, i suoi occhi si spalancarono per un istante ma prima che potesse emettere suono Michael fece saettare davanti la lama già pronta, recidendogli la gola con un taglio netto.

Quello boccheggiò e una cascata di sangue fiottò dalle sue labbra e dal taglio fresco, ma prima che potesse schiantarsi a terra con un botto Everard saltò in avanti e lo prese tra le braccia, sorreggendolo come un corpo morto, i suoi vestiti che si infradiciavano di sangue.

«È andata benissimo, direi» commentò in un sussurro, facendosi aiutare da Michael a posarlo a terra senza fare rumore.

«Non avevo mai ucciso prima» mormorò lui, che continuava a osservare il cadavere con occhi spalancati. «Non avevo... Ottar, perdonami. Non avevo mai...»

«Beh, loro volevano giustiziarti» gli ricordò Everard, asciutto. «Scommetto che lui non si sarebbe fatto tanti scrupoli al tuo posto.»

«Non questo qui, non lo riconosco. Non era alla guardia l'altro giorno.»

«Sono tutti uguali per me. Mi hanno già tolto troppo, non li lascerò prendere quello che mi resta.»

Michael sbuffò, ma decise di cambiare argomento. «Come facciamo con la guardia alle celle?»

Everard si chinò e sfilò la spada dal fodero del cadavere che aveva adagiato in terra. «Siamo armati, e in superiorità numerica.»

Michael scosse la testa. «Ma inesperti e, da come parlavano, quello là sotto sembra un pezzo grosso. Saprà il fatto suo.»

«Forse potremmo attirarlo qui su con un rumore sospetto e sorprendere anche lui» commentò Everard.

«Se lo attirassimo con un rumore sospetto non potremmo coglierlo di sorpresa, perché avrebbe un sospetto. Lo dice la parola stessa.»

Everard alzò gli occhi al cielo. «Allora dovremo affidarci alle nostre scarse abilità in combattimento e alla fiducia negli dèi, temo.»

Michael sospirò. «Non ho nessuna voglia di presentarmi ai cancelli dell'altro mondo, oggi. Spero davvero che questo tuo insensato ottimismo serva a qualcosa.»

Insensato ottimismo, rifletté Everard, scuotendo la testa. In realtà non c'erano parole più lontane per descrivere come si sentiva, anzi, era certo che niente di tutto quello che stava dicendo avrebbe funzionato. Sapeva solo che provare era meglio di niente, e la consapevolezza di essere destinato al fallimento non poteva fermarlo, non poteva farsi fermare da nulla.

Senza degnarsi di rispondere, tirò fuori il pugnale dalla tasca dei calzoni e ne sfiorò la lama. Per un attimo sembrò che l'oggetto rispondesse al gesto e si intiepidì, come stesse emanando il tanto di energia necessaria da fargli capire che era ancora dalla sua parte. La lama luccicò al buio del sotterraneo e lui non poté che sorridere, anche se solo un istante.

Forse Tanvar, dio delle armi, della guerra e del sangue, poteva sentire che stava per succedere qualcosa di interessante; forse era la magia di Solomon che rispondeva alla sua paura nel tentativo di proteggerlo; o magari erano davvero entrambi, del resto la magia di Solomon e il volere di Tanvar erano quasi la stessa cosa.

Non sapeva perché il pugnale avesse deciso di risvegliarsi proprio in quel momento, ma non si sentiva più solo.

Quando l'attimo finì, Everard ripose il pugnale nella tasca e strinse forte l'elsa tra le mani.

«Sono molto scarso con questa» sentì il bisogno di comunicare. «Scarsissimo. Inetto, in pratica.»

«Lo so, ti ho visto combattere con tua sorella con il bastone. Avrei preferito tu non me l'avessi ricordato.»

Everard si mordicchiò il labbro, cercando di mostrare un sorriso di scuse. «Per strada non ti insegnano a tirare di spada.»

Michael alzò gli occhi al cielo, poi lo guardò come se ci stesse ripensando. «Andiamo, avanti, prima che cambi idea.»

Finì di scendere le scale rapido e silenzioso, con Everard al seguito, e quando arrivò all'ultimo gradino levò la spada. La guardia, con la schiena appoggiata al muro l'aria annoiata, alzò la testa e quando li vide sobbalzò.

«E tu chi saresti?» chiese a Michael, osservando la sua divisa senza riuscire a riconoscerlo.

Quando anche Everard fu in vista la sua mano era già arrivata alla spada, e la sfilò. Sorrideva.

«Ragazzino, ti prego, ragiona, non sai neanche come si prende in mano quella roba!»

Everard alzò le spalle. «So quello che devo farci: infilartela in pancia. È tutto quello che mi serve» rispose, ostentando una sicurezza che era certo di non possedere.

Oltre delle sbarre in ferro arrugginite i suoi compagni osservavano la scena con apprensione. Emeline si massaggiava il polso che il soldato le aveva stretto poco prima, e quando alzava gli occhi li teneva fissi su suo figlio.

Richard sembrava avere già rinunciato a ogni speranza, e aveva un'aria rassegnata, oltre che un ematoma viola sullo zigomo e un taglio sulla fronte.

Frederick era accovacciato per terra e si abbracciava le gambe con le braccia, la testa posata sulle sue ginocchia, li guardava con occhi attenti e concentrati, le labbra strette in una linea sottile e quando aveva visto apparire Everard i suoi occhi si erano illuminati.

Quello che doveva essere il figlio di David si teneva vicino alle sbarre, lo osservava, si teneva il fianco con la mano come se fosse ferito.

Il soldato si decise ad agire per primo, fiducioso delle proprie capacità. Si gettò su Michael che ebbe a malapena il tempo di schermarsi con la sua lama, per poi arretrare di qualche passo nel tentativo di evitare i colpi serrati. Everard provò a inserirsi per difenderlo, la sua goffaggine e l'inesperienza in parte recuperate dalla convinzione, o almeno nella speranza che fosse così.

Non ebbe neanche il tempo di accorgersi di cosa stava succedendo che sentì la sua spada strattonata con forza e l'elsa gli venne strappata dalle mani, vide la spada volare dall'altra parte della stanza e un calcio lo sbatté al muro.

Ci mise qualche secondo a riprendersi dalla botta, si accorse che era a terra senza le forze per alzarsi, e vide che Michael, più esperto di lui con le armi, era comunque un avversario di poco conto per il soldato che l'aveva fatto arretrare di qualche altro passo e stava dominando il duello.

Everard, con la mente che ancora gli ronzava e la fronte aggrottata per il dolore, voltò lo sguardo verso la cella e notò che mentre gli altri avevano gli occhi su Michael e la guardia, Frederick guardava nella sua direzione, con un quasi impercettibile sorriso incoraggiante.

Quanto era tipico di lui. Non importava che Everard rovinasse tanto spesso i piani o combinasse disastri, Freddie sembrava sempre convinto che lui fosse capace di qualunque cosa.

Sapeva di non aver fatto nulla per meritare quella fiducia cieca, ma avere qualcuno che credeva in lui gli dava conforto.

Sentì un tonfo e vide che Michael era arretrato sino alle scale ed era inciampato sui gradini, per poi cadere di schiena.

Tentò di sollevarsi per andare ad aiutarlo ma non ci riuscì, allora fece l'unica cosa che gli venne in mente in un gesto istintivo. Mentre il soldato sollevava la lama per finire il suo rivale, ormai disarmato, e poi occuparsi con calma di lui, sfilò il pugnale dalla tasca e appoggiò le labbra sulla parte piatta della lama, chiudendo gli occhi in una preghiera silenziosa. Il freddo del metallo sulla pelle gli snebbiò la mente. Riaprì gli occhi e senza pensare a niente lo lanciò.

Non fu un tiro molto preciso, e sembrava che il coltello fosse destinato a schiantarsi sul muro a qualche centimetro dai due uomini, ma poi l'arma si illuminò per un istante di luce lattiginosa, e il lancio curvò. Everard vide la lama del suo pugnale piantarsi sino al manico nella gola del soldato, proprio là dove lui aveva puntato col suo lancio. L'uomo non disse nulla, non urlò, non emise fiato. Non appena il pugnale penetrò la carne lui si afflosciò a terra senza un lamento. Era morto.

Sentì Frederick esultare, e un fischio impressionato da parte dell'altro ragazzo che era con loro.

«Bel tiro, ragazzino!» commentò Michael, spingendo via il corpo della guardia che era finito sopra di lui. Saltò in piedi, di nuovo carico di energia.

«Oh, grazie» mormorò Everard in risposta, anche se sapeva che il lancio non sarebbe mai andato a buon fine se il pugnale non fosse stato tanto intriso di incantesimi. Del resto, prendersi un po' di complimenti immeritati non aveva mai fatto male a nessuno.

Michael sfilò l'arma dal cadavere, un ulteriore fiotto di sangue sgorgò dalla ferita, poi gli frugò in tasca e afferrò le chiavi della cella.

«C'è da dire che aiutarvi porta un sacco di guai» commentò Frederick, con un mezzo sorriso, «ma per uno spettacolo simile ne vale di certo la pena.»

Il figlio di David ghignò con approvazione, continuando a reggersi il fianco, mentre Richard aveva l'aria meditabonda.

Michael porse una mano a Everard, che l'afferrò, e lo aiutò ad alzarsi. La testa gli girava, ma riuscì a tenersi sulle gambe, pur appoggiandosi al muro di schiena.

«Lo spirito è perfetto, ragazzo» disse Michael, mentre trafficava con la serratura. «Ma sulla tecnica c'è molto da lavorare.»

«Tu dici?» commentò con sarcasmo Emeline.

«Prego, non c'è di che!» la sgridò lui. «La prossima volta aspetteremo di essere pronti, così non avrete nulla da criticare. Se arriveremo troppo tardi beh, ci avremo provato.»

Con un forte rumore metallico la porta della cella si aprì.

Michael raggiunse un uomo e una donna che Everard conosceva solo di vista e che erano il fornaio e sua moglie, suo fratello e sua cognata. Distolse lo sguardo per dare loro l'intimità necessaria quando un abbraccio lo travolse, sorprendendolo.

Frederick era sgusciato fuori dalla cella e gli aveva gettato le braccia al collo. «Oh, grazie agli dèi» sussurrò al suo orecchio. «Gli altri dicevano che eravamo spacciati, ma io non ci ho creduto neanche per un attimo, sapevo che saresti spuntato, prima o poi.»

Everard ricambiò la stretta, inspirando forte. D'un tratto, persino la buia segreta si era fatta più confortevole. «Mai» lo rassicurò. «Non ti lascerei mai in un posto come questo, lo sai, morirei piuttosto.»

Frederick si separò appena da lui, e gli scostò un ricciolo finito sulla fronte. «Il mio eroe senza macchia» stuzzicò, in un sussurro.

Una vampata d'imbarazzo lo infiammò, ma non riuscì a trattenere un sorriso compiaciuto. «Smettila, dai. Sei uno stupido.»

Una mano gli diede una pacca sulla schiena e lo fece ripiombare nel mondo. «Andiamo» borbottò Emeline, brusca. «Non c'è tempo da perdere.»

Solo allora Frederick si sciolse dalla sua stretta, l'espressione indurita sul viso. «Come facciamo a uscire?»

Everard si rese conto che era davvero quasi finita, che ce la stavano facendo, che a breve sarebbe tornato dalle persone che lo aspettavano, persone che lui aveva un disperato bisogno di rivedere.

Pensò di nuovo a Sigga e Solomon impegnati nella loro missione e si chiese se lo stessero pensando a loro volta. Sperò che andasse tutto bene.

«Direi che vi posso scortare fuori io, come ho portato Everard qua dentro. Se qualcuno di voi riesce a infilarsi i suoi vestiti» Michael indicò la guardia stesa a terra, «faremo il doppio più in fretta.»

Venne fuori che al figlio di David, Trevor, la divisa da soldato calzava a pennello.

Everard si riprese il pugnale e lo pulì dal sangue passandoselo sui vestiti, già fradici di quello della guardia, che ora si stava asciugando sulla stoffa impiastricciata.

Everard avvertì la presenza di Frederick che si affacciava sulla sua spalla. «È stregato, non è così? L'ho visto curvare, prima.»

Non avrebbe avuto senso mentirgli, così annuì. «Sì.»

«Non me n'ero mai accorto» mormorò, il suo soffio gli accarezzava la pelle del collo.

«Non è sempre stato così» spiegò, in un sussurro. La voce si addolcì al ricordo. «L'ha incantato una persona per me qualche giorno fa. È una specie di regalo, credo.»

Per un attimo rivisse il momento di qualche ora prima in cui il resto del mondo era scomparso ed erano stati solo lui e Solomon nella sua stanza, e non gli importava di nient'altro. Scosse la testa per scacciare il pensiero. Non poteva distrarsi, prima fossero tornati prima avrebbe potuto ripetere l'esperienza, cosa che era in cima alla lista dei suoi desideri al momento.

Lo sguardo di Frederick si adombrò, e arricciò le labbra in una smorfia sospettosa. «Mh.»

«Chi vuole uscire per primo?» li interruppe Trevor, che aveva appena finito di cambiarsi. «Vi porteremo fuori un poco alla volta.»

Richard parlò per la prima volta da quando l'aveva visto. «Io resto ancora un po' qui. Ho delle cose a cui pensare.»

«In questo caso resto anch'io» si inserì Everard. «Siamo venuti sin qui per lui, devo stargli dietro per evitare che succeda qualche disgrazia.»

Lui sollevò gli occhi al cielo. «Sono in grado di badare a me stesso, grazie mille.»

«Se resti tu resto anch'io» insistette. «Non accetto discussioni a riguardo.» Allungò la mano verso Frederick e gli diede un buffetto sulla guancia. «Se non dovessi essere qui al vostro ritorno, non aspettatemi.»

Frederick spalancò gli occhi, oltraggiato. «Che dici? Perché non dovresti essere più qui?»

«Potrebbero arrivare altre guardie a controllare e trovare noi due da soli, prima che siate di ritorno. E questo qui» si girò verso Richard e gli rivolse un'occhiata scettica, «ha il vizio di combinare guai.»

«Puoi sempre andare con loro, non ti ho chiesto di stare qui con me» sbuffò lui.

«Invece starò proprio qui e non ti toglierò gli occhi di dosso, lo giuro su tutti gli dèi» borbottò Everard. «Quindi non fare stupidaggini. E, se qualcosa andrà storto, aspettate Richard, fate tutto per lui, ma non fatevi problemi nel lasciare indietro me. Intesi?»

Michael annuì. Afferrò Frederick per il braccio come aveva fatto con lui, e il ragazzo fece una piccola smorfia. «Scusa, è per il realismo.»

Anche Trevor prese Emeline, e decisero di andare. Il fornaio e sua moglie erano rimasti indietro insieme a loro. Li avrebbero trasferiti due alla volta, sperando che nessuno facesse troppe domande.

«Li portiamo fuori dai cancelli e poi torniamo a prendervi» li rassicurò Michael. «Voi restate fermi qui.»

Non appena se ne furono andati, quando l'ultimo passo incerto su per le scale fu scomparso, Richard sospirò. «Bene, ora che ce ne siamo liberati possiamo anche andare.»

«Andare? Andare dove, di grazia?» sospirò Everard.

«A uccidere mio zio, è ovvio.»

«Cosa?!»

Note autrice
E così, Richard ha deciso di non aspettare Trevor e Michael e, nonostante quello che gli è stato raccomandato, vuole andare al cospetto del Re a ucciderlo oggi stesso. Ce la farà?
Intanto, gli ostaggi sono sulla buona strada per essere liberati. Sembrano malconci ma sono vivi, il che è più di quello che ci si sarebbe potuti aspettare.
Nel prossimo capitolo finirà questa serie al Palazzo Reale, con l'ultimo terzo che si focalizza su Everard e le sue avventure insieme a Richard, poi passaremo alla missione di Sigga e Solomon che avranno una bella dose di guai a loro volta!
Intanto, a proposito di Solomon, c'è un Frederick un po' gelosino... in effetti Everard sta facendo l'affettuoso con lui, però è anche parecchio preso da dal druido e vedremo meglio come gestisce tutta la situazione quando tutti e tre saranno nella stessa stanza.
Lasciate pure una stellina o un commento/critica/appunto e noi ci aggiorniamo prsto. Nel prossimo capitolo ne vedremo delle belle!
Intanto, una bella notizia: una mia amica ha disegnato per me la scena del bacio del capitolo 6.2, non è adorabile?

Se volete seguirla, si chiama @emcreatez su Instagram ed è pazzesca! Disegna soprattutto sul fandom di Shadowhunnters.

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