5.2 // Tanto per essere sicuri

Quando Everard individuò Sigga che si svegliava la mattina dopo, alcune delle fronde si erano scostate dal lucernario e i primi raggi di sole scendevano sul giardino illuminandolo di luce soffusa.

Lui non aveva chiuso occhio per tutta la notte, e solo in quel momento si era concesso di lasciarsi un po' andare al sonno.

Lasciò che la ragazza si sbrogliasse dal groviglio di gambe in cui era incastrata con le sue.

«Ancora sveglio?»

Anche lei aveva avuto il sonno disturbato quella notte, forse a causa di tutte quelle persone insieme a lei che in potenza potevano rappresentare un pericolo.

L'aveva osservata dormire per ore, talvolta aveva mugolato nel sonno come in preda agli incubi, e per almeno quattro volte si era svegliata di soprassalto, trovandolo accanto a lei per confortarla e cullarla sinché non si assopiva di nuovo.

«Certo che sono sveglio» replicò. «Sono rimasto qui apposta, il punto è questo.»

«Sei uno straccio» bofonchiò, la bocca ancora impastata.

Lui distolse lo sguardo, e osservò per l'ennesimo controllo ciò che gli stava intorno.

A un angolo del giardino, vicino alle radici della quercia, Richard ed Emeline erano abbracciati sul prato. Lei aveva la testa posata sul suo petto e lui le cingeva il busto con un braccio; il ragazzo intuì che avessero risolto i loro problemi, almeno per la nottata.

Il sarto e una donna anziana che lui conosceva di vista erano al centro del giardino, dove di solito si trovava il tavolo in cui consumavano il cibo; non sembravano aver dormito molto e gli occhi chiusi apparivano stanchi nonostante non sembrassero in preda agli incubi.

Il mercante di Armiral si era sistemato nel punto più lontano da quello in cui stavano - da quello in cui stava Solomon - per sentirsi più al sicuro, e allungato come un gatto addormentato aveva un aspetto regale.

Tre uomini che ogni tanto incrociava nel quartiere, di cui uno era piuttosto sicuro fosse il fratello del fornaio, dormivano sparpagliati sull'erba come se si fossero addormentati, in preda alla stanchezza e alla rassegnazione, solo pochi minuti prima.

Lui sapeva che non era così, eppure non dovevano comunque aver riposato troppo.

Clarice era stesa sulla schiena e sembrava una delle persone più serene là in mezzo, si trovava proprio sotto un'apertura dei rami, e un raggio di sole le illuminava la pancia e parte del fianco; aveva un'espressione beata, come se avesse dormito a lungo e in tranquillità.

«Perché tu sei sveglia, piuttosto? Torna a dormire» mormorò, sentendosi scivolare nel sonno.

Ecco, ora che qualcuno si stava svegliando avrebbe potuto chiudere gli occhi, anche solo un'ora... sì, un'ora sarebbe stato perfetto.

Solomon, sentendo il trambusto, spalancò gli occhi con un sussulto. «Che è successo?»

«Niente, mi sono solo svegliata. Se hai ancora sonno torna pure a dormire.»

«Volete stare zitti?!» arrivò una voce che sembrava quella del sarto, «è ancora presto!»

«Ops» sussurrò Sigga, accennando un mezzo sorriso di scuse.

Everard la fulminò con lo sguardo. «Per una volta che mi viene sonno dopo una notte di guardia devi per forza metterti a schiamazzare?»

«Sigga ha ragione» intervenne Solomon, Everard sobbalzò quando gli afferrò la mano come per impedirgli di alzarsi. «Torniamo a dormire. Siamo gli unici svegli in ogni caso.»

Osservò le dita pallide del druido per qualche istante, deglutì a vuoto dalla sorpresa. D'un tratto, invece che rilassarsi, si sentì più sveglio.

Le intrecciò alle sue e strinse quella mano tiepida in uno slancio di coraggio.

Ecco, si sarebbe spostato volentieri per dormire più vicino a lui, l'avrebbe stretto per tenerlo più al sicuro.

Che male ci sarebbe stato, dopotutto? Era rimasto a guardia per lui, nessuno l'avrebbe trovato troppo strano.

Appena ebbe deciso che l'avrebbe fatto, sentirono un: «Meno male! Siete svegli!» ed Everard si contrasse in una smorfia infastidita.

A quanto pareva il destino aveva altri piani per lui, anche se di sonno accumulato ne avrebbe avuto ancora per una settimana.

Hildebrand era entrato nel giardino con Dameta a seguito, i volti rilassati rispetto al giorno prima ma sempre con un velo di preoccupazione. «Vado a svegliare Richard, dobbiamo riunirci prima che si sveglino tutti.»

«Passa più tardi, Hilde, fai il bravo. Possiamo riunirci con calma a colazione» sospirò Solomon senza neanche aprire gli occhi. Everard sentì che dava una stretta forte e si metteva più comodo. «Si sta così bene qua sotto. Penso che da oggi dormirò sempre in giardino.»

Dameta sorrise scuotendo la testa, Hildebrand alzò gli occhi al cielo. «No, non possiamo passare più tardi. Tua madre ha detto che dobbiamo riunirci adesso. Muoviti» concluse, asciutto, e trascinandosi dietro la ragazza si avvicinò a Emeline e Richard che dormivano ancora, distesi ai piedi della quercia.

«A volte è così scontroso» borbottò Solomon, che si stropicciò gli occhi con la mano libera e lo guardò con aria di scuse.

Everard pensò che appena sveglio, senza ancora quella serietà nello sguardo e senza la sua solita espressione enigmatica, con i capelli arruffati del mattino, sembrava davvero giovane e davvero simile a un essere umano.

Al vederlo, non riuscì a trattenere un sorriso che gli sciolse qualcosa nel petto.

«Però ha ragione» sospirò Sigga, che saltò in piedi. «Accidenti, avrei proprio bisogno di un cambio.»

«Proverò a farvi dei vestiti nuovi dopo colazione. Magari Dameta mi darà una mano» commentò Solomon con uno sbadiglio. «Dobbiamo davvero andare?»

«Se non chiudete la bocca ve lo dico io dov'è che dovete andare!» sibilò Clarice ancora mezza addormentata, girandosi dall'altro lato.

Fu allora che Everard fu costretto ad ammetterlo. «Sembra proprio di sì» borbottò, e a malincuore lasciò la mano del druido e si sedette. «Forza, andiamo.»

Anche Richard ed Emeline sembravano restii a seguire un deciso Hildebrand e una Dameta un po' assonnata, ma dieci minuti dopo erano nella Sala del Pozzo e Ingerid li guardava con aria grave, in piedi e dritta come un fuso accanto al muretto circolare.

La Sala, alle prime luci dell'alba, aveva un'aria eterea e surreale. Le pareti grigie di pietra riflettevano i raggi bassi del sole che ancora sorgeva, inondando i presenti di una luce rosea e facendo brillare le vesti candide di Ingerid come il firmamento.

Lei allargò le braccia e parlò. «Grazie di essere venuti così presto. Ieri notte ho preferito lasciarvi riposare, ma temo non si possa più attendere oltre. Ditemi, che notizie portate dai nostri ospiti?»

La prima a rispondere fu Sigga. «Per ora mi sono sembrati tutti abbastanza collaborativi, ma non mi sento molto ottimista verso il futuro.»

«Ci sono alcuni elementi che sarà difficile tenere sotto controllo» aggiunse Hildebrand, «non so come faremo a trattenerli quando gli diremo che non possono lasciare il rifugio.»

«In che senso "non possono lasciare il rifugio"? Non li abbiamo tirati fuori dalle prigioni del Re per portarli in una prigione nel bosco» commentò Richard, glaciale.

«Questa mattina li avrebbero giustiziati sul rogo» si inserì Solomon. «Stiamo offrendo loro rifugio e sicurezza, li avevano condannati a morte. Stanno comunque meglio con noi che nelle prigioni di Bürgann, questo è certo.»

«Li avevano condannati a morte, beh interessante che tu lo dica... di chi è la colpa di quella condanna, sentiamo?»

Quello era troppo.

«Tua, in effetti» sibilò Everard, facendo un passo avanti. «La colpa è tua, che ti sei abbandonato all'indolenza e hai permesso tutto questo. Se fosse stato per te avrebbero bruciato tutte queste persone senza battere ciglio.»

«No, se fosse stato per me avrebbero bruciato solo quello lì» rispose lui, indicando Solomon. «Siete stati voi due a rovinare i piani.»

Everard sentì le spalle irrigidirsi e dovette prendere una boccata d'aria tagliente per non saltargli al collo. «Stai molto attento a quello che dici di Solomon davanti a me. Potresti finire per pentirtene.»

«Per una volta mi trovo d'accordo con l'umano» aggiunse Hildebrand. «Non mi piace come questo... tizio si rivolge a tutti noi. Non dovrebbe stare qui, è pericoloso, non mi interessa chi era suo padre o a cosa ci serve, deve finirla di comportarsi così, altrimenti dovrà andarsene.»

«Non potete mandarci via» intervenne Emeline, «in città ci stanno cercando tutti. Ci uccideranno.»

«Non manderemo al bando la persona per cui abbiamo fatto tutto questo, Hildebrand» liquidò Ingerid, mettendo fine al dibattito. «So che lasciare andare gli umani è rischioso, ma non abbiamo scelta. Questa non è una prigione.»

«Ma se li lasciassimo andare potrebbero raccontare a tutti dove ci troviamo! Potremmo trovarci le guardie alla porta da un momento all'altro!» esclamò Solomon, che giocava con le maniche della tunica in un gesto nervoso.

«Non è detto che vogliano andare via, sono ancora ricercati» disse la donna, «offriremo loro protezione se ci aiuteranno con la nostra causa, daremo loro una scelta. Dobbiamo mettere Richard sul trono, abbiamo bisogno di più sostegno possibile, inizieremo dal loro.»

«Non avranno bisogno della nostra protezione!» sbottò Hildebrand, e Dameta gli strinse la mano come per intimargli di calmarsi. Si schiarì la voce e riprese con più compostezza, «non avranno bisogno della nostra protezione perché quando usciranno e venderanno la nostra posizione alle guardie smetteranno di essere ricercati. Non possiamo lasciarli andare via. È stupido.»

«Non puoi continuare a vivere dando per scontato che tutte le persone sono cattive, ragazzo mio. A volte bisogna dare fiducia» disse Ingerid.

«Ma non si può neanche vivere dando per scontato che siano tutte buone» commentò Everard, «questa cosa non mi piace per niente.»

Il druido scontroso lo osservò con diffidenza. Non erano abituati ad andare d'accordo, ed Everard lo vide sul punto di commentare, poi scuotere la testa.

«A essere sincera, non credo che ci ascolteranno» sospirò Emeline, «conosciamo solo alcune di queste persone, non credo che seguiranno Roland tanto da mettersi in guerra con il Re.»

Richard si accigliò, lanciò un'occhiata alla madre come se avesse appena pronunciato una totale assurdità. «Io non ho ancora detto che accetto, sia ben chiaro»

«Grandioso!» esclamò Hildebrand, alzando le mani in un gesto di stizza. «Neanche lui vuole farlo!»

«Certo che lo faremo» disse Emeline. «Quando hai accettato di andare a prendere gli ostaggi ti stavi assumendo una responsabilità.»

«Io questa responsabilità non la voglio, sono venuto solo perché non volevo che andassi a salvare gli ostaggi da sola. Per quanto mi riguarda il mio lavoro qui è finito.»

«Beh, ora questa responsabilità ce l'hai» concluse la donna. «E tu sei una mia responsabilità, quindi ce l'ho anch'io.»

«Ecco cosa faremo» parlò Ingerid, e al suono della sua voce, Everard sentì il respiro calmarsi e persino il sonno alleviarsi. «Quando finirà questa riunione convocherò gli ospiti e proporrò loro un posto sicuro e protezione in cambio del loro appoggio nel sollevare la corona dal suo incarico. Quando sapremo con certezza le reazioni di ognuno davanti alla mia offerta, potrò trarne delle conclusioni più adeguate.»

«Posso dire il mio parere a riguardo?» chiese Richard, con uno sbuffo.

«No» fu la risposta di Emeline e Hildebrand allo stesso momento.

«Se non ci sono domande, direi che è il caso di iniziare. Hildebrand, Solomon, andate a svegliare gli altri e portateli da me. Richard, tu mi servi qui per confermare quello che dirò.»

«Resterò anch'io» si inserì Emeline, «devo assicurarmi che non si tiri indietro.»

«Per quanto mi riguarda, tutti gli altri sono congedati.»

«Io voglio stare a sentire» commentò Everard, deciso. «Preferisco restare a controllare come si mettono le cose, non si sa mai.»

«Senza offesa, mia signora» si scusò Sigga, «ma io vorrei davvero congedarmi, per questa mattina. Ho delle cose da sistemare e altre a cui pensare.»

Anche Dameta annuì, posando una mano sulla spalla della ragazza, rivolgendosi a Ingerid con sguardo imbarazzato.

«Nessuna offesa» aveva risposto la donna, «siete libere di andare.»

Così si era allontanata, con Dameta al seguito, mentre Solomon e Hildebrand accorrevano a cercare gli ospiti che stavano ancora dormendo.

Richard si era seduto sul bordo del pozzo sacro, ed Everard ebbe per la prima volta l'impressione che Ingerid fosse davvero infastidita. Si aspettò un rimprovero che però non arrivò.

Guardò con nostalgia Sigga e Dameta che lasciavano la sala, non era abituato a stare lontano da sua sorella e a perderla di vista in luoghi che non conosceva bene, con tutti quegli estranei.

Sperò che almeno Solomon e Hildebrand tornassero per assistere alle comunicazioni, ma si rispose che non era probabile, considerato che erano entrambi stanchi e sapevano già di cosa si sarebbe parlato.

Non sapeva con esattezza perché fosse rimasto a sentire. Forse voleva essere sicuro che la questione fosse gestita al neglio, forse voleva essere il primo a sapere chi sarebbe andato via e chi sarebbe rimasto, forse voleva solo controllare se ci fosse da fidarsi di quelli che si sarebbero congedati quel giorno.

Così, tanto per essere sicuri.

Tutto ciò che sapeva era che se qualcuno degli ostaggi fosse tornato in città e avesse venduto la loro posizione alle guardie sarebbe stata la fine.

Rivide la pira nella piazza del mercato, il soldato che rideva e poi abbassava la fiaccola verso la paglia, gli occhi verdi spalancati di Solomon che riflettevano il fuoco ed ebbe una certezza assoluta e viscerale: in quel momento seppe che non avrebbe mai permesso che una cosa del genere accadesse di nuovo.

L'idea che i loro ospiti potessero spifferare ai quattro venti la posizione dei druidi e metterli in pericolo, rischiando di ripetere gli eventi di qualche giorno prima, lo faceva impazzire.

Rivide sé stesso che dava una spinta a quel soldato e faceva cadere la torcia sul ciottolato in pietra.

Quella mattina al mercato non aveva neanche considerato il fatto che avrebbero potuto ucciderlo, aveva agito in preda a un istinto selvaggio e irrazionale che gli aveva urlato nella testa: non puoi lasciarglielo fare, fermali, non puoi permetterlo, non lui, fermali, tutti ma non lui, devi impedirlo, e sentì quell'istinto prendergli ancora possesso del petto.

«Tutto a posto?» Everard sobbalzò e la sua mano si infilò nella tasca che conteneva il pugnale.

«Ehi, ehi, vengo in pace, amico» scherzò la ragazza davanti a lui con un mezzo sorriso.

Lui emise un sospiro di sollievo e si rilassò. «Clarice. Scusa, ero sovrappensiero.»

«Ho notato» esclamò la ragazza, dandogli un buffetto sulla guancia. «Hai un'aria da funerale. Sei qui per sentire anche tu?»

«Diciamo così» sospirò. Le passò un braccio intorno alle spalle e lei lo assecondò. Almeno c'era una faccia amica in tutto quel che era successo.

Si accorse che Richard lo stava fissando e resse il suo sguardo alzando un sopracciglio come per invitarlo a parlare, sinché Ingerid non si schiarì la voce e tutti tacquero.

Solomon e Hildebrand non erano tornati, e benché se lo fosse aspettato Everard provò comunque una fitta di delusione nello stomaco, che cercò di soffocare stringendo la presa su Clarice.

«Benvenuti, amici» disse la donna, allargando le braccia con un sorriso caloroso. Everard si sentì d'un tratto più tranquillo, come se ogni sua preoccupazione fosse evaporata. Si chiese se fosse uno dei poteri dati dal marchio di Ingar o se fosse solo Ingerid che riusciva a essere autoritaria in modo naturale.

«Vi ho chiamati per darvi alcune informazioni sulla nostra situazione e quello che faremo» continuò la donna, «parlerò io e poi passeremo alle domande.»

*

La riunione non fu un disastro come Everard si era aspettato. Quando Ingerid rivelò la vera identità di Richard, molti di quelli che prima sembravano poco convinti ascoltarono con rinnovato interesse.

La magia con il controllo dell'umore di Ingerid, sempre che non fosse frutto dell'immaginazione di Everard, funzionò e nessuno manifestò rancore nei confronti dei druidi, anche se Everard temeva si trattasse solo di un effetto temporaneo dovuto a un incantesimo.

Alla fine restarono in quattro insieme a loro, la donna anziana di nome Annabelle, il fratello del fornaio che si chiamava Michael, il sarto di nome David e Clarice. Si impegnarono a reclutare nuove persone nei giorni seguenti, e mentre discutevano sulle modalità Everard si convinse che forse, solo forse, avevano una minima speranza di non finire tutti in cenere entro la fine della stagione.

Il mercante orientale che per la sua sicurezza non aveva rivelato a nessuno il suo nome era tra i sei che avevano deciso di andare via, ed Everard sperò che Ingerid avesse avuto qualche tipo di controllo mentale su di lui. Era quello che aveva mostrato più diffidenza nei confronti della situazione e sembrava codardo abbastanza da poter barattare la loro posizione per uscirne pulito.

Richard si era defilato poco prima della conclusione del discorso del druido, di certo per evitare le domande dei curiosi, e non si vedeva da nessuna parte.

Quando la riunione fu conclusa ed Everard ebbe minacciato a dovere le persone che si accomiatavano - sempre meglio una precauzione più che una in meno - la prima cosa che fece fu avviarsi verso la camera da letto in cui aveva dormito le notti prima, per diffondere la notizia.

Sulla strada per la stanza di Solomon, però, fu attratto da un rumore sconosciuto, come dei respiri affannosi, che lo mise sull'attenti.

Si fermò, facendo guizzare gli occhi per il corridoio cercando di capire la direzione da prendere. Non poteva essere tanto lontano.

Dimenticò quello che aveva intenzione di fare e anziché imboccare l'arco che portava al corridoio con le stanze da letto, svoltò a destra. Si affacciò in un breve andito in pietra senza feritoie, appena illuminato da una sola torcia al termine del vicolo cieco.

Non passava quasi mai in quell'area del rifugio, quella che ospitava la stanza di Ingerid e le sale in cui i druidi studiavano o si appuntavano gli incantesimi. Era ancora nuova per lui.

I sospiri sempre più irregolari venivano da una porta semi aperta che lui scostò piano, senza far rumore.

Conosceva già quella stanza, l'aveva vista di sfuggita un giorno che Solomon aveva avuto bisogno di una pergamena in più, ma benché Ingerid avesse detto loro di comportarsi come a casa propria non ci era mai stato da solo, sia per non mettersi a rovistare negli affari altrui sia perché non aveva mai avuto un particolare interesse a riguardo.

Era solo un piccolo studio, con un tavolo colmo di scartoffie e qualche sgabello, alcuni scaffali con sopra dei barattoli di vetro che non aveva alcuna idea di cosa contenessero e dei ramoscelli essiccati appesi al soffitto che riempivano la stanza di un profumo pungente.

Everard aggrottò la fronte.

Seduto sul pavimento di pietra, la schiena posata all'unico muro libero e il volto coperto dalle mani, stava Richard.

Respirava sempre più forte, come se avesse appena finito di correre per miglia, e oltre che per l'alzarsi e l'abbassarsi delle spalle a ogni respiro era immobile e in silenzio.

Everard considerò l'idea di voltarsi e andarsene senza far rumore, ma fu come se i suoi piedi fossero piantati per terra e per un attimo la scena gli fece tanta pena che non riuscì a forzarsi ad andar via.

«Ehi.»

Il ragazzo sul pavimento sobbalzò e alzò lo sguardo. Aprì la bocca per dire qualcosa, Everard non sapeva se fosse per dirgli di andare al diavolo o che altro, ma come lo riconobbe ammutolì.

«Tutto a posto? Vuoi che chiami tua madre?»

Richard sbatté le palpebre, confuso. Forse sarebbe stato meglio chiamare Ingerid, avrebbe capito perché il ragazzo non sembrava tanto in sé.

«In realtà sto cercando di evitarla.»

«Ah» rispose Everard, a disagio. «Va bene, allora io vado...»

«Io non lo voglio fare» lo interruppe, secco. «Non voglio farlo. Voglio solo che tutti si dimentichino che esisto. Non mi interessa questa roba.»

«Me ne sono accorto» commentò, freddo. «Non mi pare l'abbia mai nascosto.»

«Tu mi odi, non è vero? Mi odiano tutti. Non sarei bravo a fare il Re.»

«Non fare la vittima» sibilò allora, accigliato. «Nessuno ti odia perché è divertente, ti sei comportato da egoista.»

«Io voglio solo una vita normale. Perché dev'essere una cosa brutta?»

Lo chiese a bassa voce, quasi disperato. La sua sembrava una domanda tanto spontanea e genuina che Everard non riuscì a non rispondere.

Sospirò. Perché queste situazioni antipatiche dovevano sempre capitare a lui?

È la sindrome da fratello maggiore, rispose la voce di Sigga nella sua mente.

Si avvicinò di qualche passo e si sedette per terra di fronte a lui, in modo da poterlo guardare bene in faccia.

«Volere una vita normale non è una cosa brutta» spiegò, il più paziente possibile. «La voglio anche io.»

«E allora qual è il problema? Lascia in pace me e io lascerò in pace te. Torniamo alle nostre vite e basta.»

«Non funziona così. Quando governa l'ingiustizia non fare niente significa essere dalla parte del carnefice. Quando governa l'ingiustizia non puoi avere una vita normale, puoi stare dalla parte dell'oppressore o dell'oppresso. Non c'è una via di mezzo. Siamo in guerra, non puoi essere lasciato in pace. Puoi solo scegliere la parte più comoda dove stare, la parte della barricata da cui è più facile ignorare ciò che ti sta intorno... ma quella non è pace.»

«E se non mi importasse? Se non mi importasse di essere dalla parte della ragione? Se mi importasse solo di stare per conto mio?»

Everard lo guardò con più attenzione. Rannicchiato in quel modo sembrava più piccolo, benché in piedi fosse uno dei ragazzi più massicci che avesse mai visto. La stanza era poco illuminata, si vedeva appena il collo tozzo, le braccia grosse che si abbracciavano le ginocchia, gli occhi profondi che lo osservavano stanchi e i capelli che in quella penombra non avevano quei riflessi chiari che lo facevano notare in mezzo alla folla.

«Non ti capisco» disse. «Hanno ucciso anche i miei genitori quel giorno. Come puoi non essere arrabbiato? Io a volte sono così arrabbiato che potrei spaccare tutto.»

Richard sospirò. «Anche io vorrei spaccare tutto. Solo che... ho paura, credo. Mi piacciono le cose così come stanno, non voglio che cambi nulla. Non avrò la mia vendetta, ma almeno sono al sicuro.»

Everard fece una smorfia.

«Facile per te parlare così. Dopo la notte delle fiamme io sono finito a vivere per strada, mentre tu hai trovato subito un'altra famiglia. Tu hai sempre avuto da mangiare, hai avuto un tetto sulla testa, una madre e un padre nuovi di zecca che ti amavano e ti lucidavano le scarpe e ti preparavano da mangiare. Nessuno ha acceso una pira in piazza per bruciarti vivo, non sei dovuto vivere per anni nascosto nella foresta mentre tutti quelli che conoscevi venivano stanati e uccisi. Ecco perché puoi permetterti di dire che non ti importa. Io e Sigga non abbiamo avuto questa fortuna. Solomon non ha avuto questa fortuna. E tu, solo perché nella sventura sei stato fortunato, ti permetti di oziare quando potresti fare qualcosa. Puoi tentare di convincerti quanto vuoi che non hai colpe in tutto questo, ma non è così» concluse, alzandosi e facendo un passo indietro. «E io non ho niente di che spartire con te. Seguici, vattene, non mi importa. Noi continueremo con o senza di te. Ma da questo momento ogni morto è anche sulle tue spalle.»

«Non sono un mostro» gli disse, con voce tremante. «Non sono un mostro, Everard. Voglio solo essere lasciato in pace.»

«Allora non comportarti come tale.»

Richard lo guardò sbattendo le palpebre, stravolto. «Perché ti sei fermato a consolarmi? Ho cercato di tagliarti la gola appena qualche giorno fa.»

«Perché sono stupido. Infatti ora me ne vado, se vuoi scusarmi...»

Si voltò e fece due passi verso la porta, quando Richard parlò, facendolo fermare per un attimo.

«Grazie. Penserò a quello che hai detto.»

Non si girò a guardarlo un'altra volta. «Fai come ti pare. Ho già perso abbastanza tempo con te.»

Note autrice
Everard si è fermato per consolare Richard e gli ha dato una bella strigliata. Intanto, sei su dieci ostaggi sono stati congedati e liberati, perché Ingerid sostiene che se vogliono fare ciò che devono, hanno bisogno di fidarsi delle persone.
Sarà stata la scelta giusta?
Almeno quattro persone sono rimaste per aiutarli, a breve i nostri scenderanno in città per reclutare volontari che seguano Richard verso la sua corsa al trono.
Io vi saluto al prossimo aggiornamento e vi ricordo che le stelline e i commenti mi fanno tanto piacere e che sono felice di sapere se avete letto e cosa ne pensate.
Al prossimo capitolo!

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