4.1 // Gli Ostaggi
La voce di Hildebrand spezzò il silenzio. «Sono l'unico che pensa che questa sia un'idea folle?»
«Io sono d'accordo» intervenne Solomon, «d'accordo con lei, è chiaro. Così faremo la cosa giusta e otterremo anche la fiducia di Richard; è conveniente sotto tutti i punti di vista.»
«Già, questa cosa ha solo lati positivi...» mormorò Hildebrand, sarcastico, «a meno che non falliamo, è ovvio. In quel caso se saremo fortunati ci giustizieranno al posto di quegli sfigati, mentre se andasse male uccideranno tutti e basta, noi e loro. Che idea grandiosa.»
«È l'unica cosa che interessa a Richard in questo momento» commentò Emeline, «è arrabbiato con voi per il guaio che avete combinato, ma soprattutto si sente in colpa. Sa che se lui avesse già reclamato il trono, forse tutto questo non sarebbe successo. Non c'è modo di convincerlo senza gli ostaggi. Se vi serve il suo aiuto, dovete accettare.»
«Certo che accettiamo» esclamò Everard, attraversando a grandi passi la stanza. Osservò l'illusione di Dameta cambiarne le fattezze e farla risplendere di sfavillante luce dorata. «Faremo in modo che nessuno muoia stanotte. È come ha detto lei, abbiamo la magia, no? Quanto può essere difficile?»
«Tu non hai proprio niente» borbottò Hildebrand. «Noi abbiamo la magia. E l'unico motivo per cui hai accettato è che ti senti in colpa.»
Sigga aprì la bocca per rispondere a tono, ma suo fratello la zittì con un gesto della mano. «Sì, è vero» ammise, in un sospiro. «Mi sento in colpa. Ma è anche la nostra migliore possibilità, e avere una motivazione personale in più non può che aiutare, ti pare?»
Il druido non rispose. Spostò lo sguardo verso il pavimento, con la fronte aggrottata. Dameta gli sfiorò il braccio e poi scivolò davanti a lui. Gli mise una mano sotto il mento sollevandogli il volto, e quando i loro occhi si incontrarono lei annuì. Everard vide tutta la tensione orgogliosa nelle sue spalle sciogliersi, e pensò che forse non era mai stato capace di dirle di no.
«Quindi come facciamo? Andiamo alla locanda e facciamo la proposta a Richard?» domandò Sigga.
«Meglio che non vi presentiate tutti insieme, potrebbe andare sulla difensiva se si sente messo all'angolo.»
Everard annuì. «Vengo io con te» annunciò, poi si rivolse a sua sorella. «Tu vai a prendere da mangiare per tutti. Se dovranno usare la magia, stanotte, ne avranno bisogno.»
«Non hai lavorato questa mattina» fece notare la ragazza, «come potrei comprare da mangiare? Non abbiamo nulla. Rubare oggi, con tutti gli occhi della città puntati addosso, non è saggio.»
Everard rimase interdetto per un attimo a quelle parole. Aprì la bocca per rispondere ma non uscì alcun suono, perché in effetti una risposta giusta non c'era. Pensò di utilizzare il sacchetto pieno d'oro che aveva rubato la Notte delle Fiamme, che non aveva mai sfruttato. L'aveva sempre conservato con la sensazione che sarebbe servito a qualcosa di importante, forse era arrivato il momento di farlo. Non ebbe il tempo di fare la sua rivelazione, che la donna parlò ancora.
«Io ho portato dei soldi con me» disse, e si frugò in tasca tirando fuori un denario d'argento e tendendolo a Sigga. «Prendete questo.»
La ragazza lo guardò per un istante con occhi sconvolti e avidi, come se temesse potesse trattarsi di uno scherzo o una trappola. Dopo quel primo tentennamento, l'arraffò.
«Allora è deciso. Non spingerti più lontano del forno» le intimò Everard, «e voi tre non uscite di casa per nessuna ragione, è pericoloso.»
Si voltò verso Dameta in attesa che facesse il suo incantesimo, ma lei gli rivolse uno sguardo di scuse.
«La magia sugli esseri umani non funziona a distanza, non ha tutto questo potere» commentò Hildebrand, secco. «E comunque avete abusato abbastanza delle sue energie, ha bisogno di riposare.»
«Non fa niente» la rassicurò allora il ragazzo, «staremo attenti. Terrò lo sguardo basso, so come non farmi notare. Non è la prima volta che sono ricercato.»
«Non mi piace questa cosa» commentò Sigga.
«Questa cosa non piace a nessuno» sbuffò Hildebrand, «mi sembra un'ottima ragione per non farla. Torniamo indietro.»
«No.» Con sorpresa di tutti, era stato Solomon a parlare. Non aveva contribuito molto alla conversazione quel giorno, e sembrava immerso nel suo mondo, gli occhi verdi spalancati. «La facciamo, invece.»
Sul volto di Everard lampeggiò per un attimo un sorriso soddisfatto. «Benissimo. Mi pare che siamo quasi tutti d'accordo» disse, poi rivolse lo sguardo su Hildebrand. «Tu non fare scherzi, capito?»
Lui alzò gli occhi al cielo. «Ti sembrerà incredibile, ma so bene come si lavora in squadra, tranquillo.»
Everard decise di evitare di rimarcare il suo scetticismo, e si rivolse a Sigga. «Assicurati di essere l'unica a uscire di casa, non voglio guai.» La ragazza annuì.
Lui si calò il cappuccio della tunica sul volto. Aveva pensato di cambiarsi, di rimettersi i suoi vecchi vestiti, ma con la tunica nera e il cappuccio sarebbe stato più difficile riconoscerlo.
«Possiamo andare?» chiese Emeline, in tono sommesso. Everard annuì.
«Non fare niente che non approverei» sibilò Sigga, severa.
«Chi, io? Io sono molto prudente, sono il Re della prudenza. Al massimo non fare tu niente che non approverei io.»
«Va bene, signor Re della prudenza. Come vuoi» borbottò di rimando.
«Ci vediamo» disse Emeline sbrigativa, voltandosi per aprire la porta.
Everard guardò i compagni per un'ultima volta, prima di sparire nel via vai cittadino. Quando incrociò lo sguardo di Solomon lui fece una smorfia e sillabò «Torna, mi raccomando.»
Un angolo della bocca di Everard si piegò verso l'alto in un mezzo sorriso di assenso, poi si voltò e seguì Emeline all'esterno.
«Ti camminerò davanti» sussurrò lei, non appena si furono chiusi la porta alle spalle. «Tu guarda in basso e comportati in modo naturale.»
«Non preoccuparti» sussurrò lui, «so come si fa.»
Emeline emise un suono che sembrava quello di una risata leggera. Lui vedeva solo il lembo inferiore del suo vestito e il retro dei suoi sandali. «Non ho dubbi a riguardo» commentò, «una volta hai rubato anche alla locanda. Mio marito era ancora vivo allora, Roland serviva ai tavoli e rifaceva i letti delle stanze al mattino, io lavoravo al bancone» spiegò. «Me lo ricordo bene, il mio Robert era furibondo.»
Everard si morse il labbro. Anche lui lo ricordava, era successo cinque anni prima, forse sei. Sperava che lei e Richard se ne fossero dimenticati, a quanto pareva non era successo. «Mi dispiace.»
«Non esserlo» disse la donna, e non sembrava risentita. «So cosa vuol dire avere qualcuno a cui badare e non avere i mezzi per farlo.»
Camminarono ancora per qualche metro, poi Emeline sibilò «Gira il volto a sinistra. Fingi di guardare verso il canale.»
Il ragazzo obbedì. Sentì lo sferragliare delle spade delle guardie che gli passavano accanto. Il suono si allontanò e poi svanì.
«Okay, tutto a posto. Ottar ci sia d'aiuto, siamo quasi arrivati» sentì ed Everard tirò un sospiro di sollievo.
*
«Non riesco a capire» commentò Hildebrand, una volta che Sigga fu uscita per cercare da mangiare, «il motivo che ti spinge ad andare dietro a questi umani come un cagnolino.»
Erano seduti per terra in cerchio, come amavano fare quando erano nel cortile del rifugio, nelle ore libere in cui Dameta si metteva in posa e Solomon la disegnava, con Hildebrand che borbottava quanto fosse uno spreco di carta per poi andare a chiedergli il ritratto della ragazza e portarlo in camera di nascosto.
«Io non vado... io non vado dietro agli umani come un cagnolino» rispose indignato Solomon. «Ho un debito di vita con loro, tutto qui.»
«Loro ti piacciono» commentò lui, asciutto, come se stesse pronunciando una parola sgradevole.
Dameta si batté il palmo due volte sul petto, come per dire: piacciono anche a me.
«No, tesoro, tu sei solo gentile» le disse, il suo tono di voce si addolcì, «lui gli fa da druido addomesticato.»
Questo era troppo, non poteva continuare a offenderlo così. Solomon si accigliò. «Non è vero, sei tu che sei ostile senza ragione. Ci stanno aiutando, è stata mia madre a chiederglielo. Questa cosa con Richard, pensavo la volessi anche tu!»
«Ma certo che la voglio» sbottò l'altro. «Pensi che mi diverta a vivere la mia vita nascosto nei boschi? Pensi che sia come sceglierei di passare il tempo, nascondermi dietro la sottana di tua madre? Sono morti già abbastanza druidi per questa follia, è ora di finirla.»
«E allora qual è il tuo problema? Perché ti rifiuti di essere collaborativo? Perché li odi tanto?»
«Io non li odio, smettila di essere ottuso! Non ti si addice!» rispose, con più veemenza del necessario. Si alzò in piedi e iniziò a camminare nella stanza in un gesto nervoso. «Ti hanno salvato la vita, come potrei odiarli? A volte mi sembra che tu non ragioni affatto!»
«Allora forse troppa magia ti ha dato alla testa» disse Solomon, «perché non sembra che ti stiano tanto simpatici.»
«Non posso farci niente» spiegò, la sua voce iniziava a tremare, «li guardo e vedo solo due umani. Vedo quello che le hanno fatto» indicò Dameta, che fece una smorfia al sentirlo. «Come faccio a fidarmi di loro, me lo spieghi? Lei... tesoro, tu ti fidi troppo e troppo in fretta, è sempre stato il tuo punto debole. E tu, Solomon, da quanto hai incontrato questi due sei andato fuori di testa, se non ti conoscessi direi che ti sei preso una sbandata!» Solomon tossicchiò per distogliere l'attenzione dal fatto che gli si stavano scaldando le guance di nuovo. «Io non riesco a non essere diffidente, a non essere arrabbiato. Sono preoccupato per Dameta, sono preoccupato per te. Come sappiamo che questa volta non finirà come tutte le altre? Non possiamo fidarci degli umani. Se voi volete farlo buona fortuna, ma almeno uno di noi deve restare lucido.»
Solomon restò qualche secondo in silenzio. Dameta si alzò e si avvicinò al ragazzo, posandogli le mani sulle spalle come per tenerlo ancorato alla realtà. Gli accarezzò la guancia e poi si alzò in punta di piedi per stampargli un bacio casto sulle labbra.
Quando Ingerid l'aveva trovata, denutrita e sola, nel bosco, era appena scappata dalle stesse guardie che avevano arso a morte i suoi genitori e sua sorella.
La sua intera famiglia era stata spazzata via dalla crudeltà umana, era stata tradita da persone che ritenevano amiche.
Hildebrand sospirò e assecondò quelle effusioni, la strinse tra le braccia. «Tutti gli umani hanno un prezzo, Solomon. Puoi ammetterlo ora a te stesso o impararlo dopo a tue spese, come ha fatto lei.»
«Questi umani no» rispose lui, ostinato. «Quello che hanno fatto per me non ha portato loro nessun vantaggio, perché farlo per poi buttare tutto all'aria? Non avrebbe senso.»
«Forse sono buoni, in fondo» commentò Hildebrand, «forse davvero vogliono aiutarci. Ma significa solo che il loro prezzo è più alto degli altri, magari molto più alto, ma c'è. E quando arriverà qualcuno in grado di offrirglielo allora noi non conteremo più niente per loro, nemmeno tu. Non voglio essere amico di qualcuno che so già che mi pugnalerà alle spalle.»
«Non puoi giudicare qualcuno per colpe di altri, loro non sono le persone di cui parli, non hanno mai venduto nessuno. Sei ingiusto.»
«Quando i tuoi umani ti deluderanno e verrai a piangere da me» gli disse Hildebrand con un sospiro, «mi piacerebbe poterti dire che ti chiuderò la porta in faccia e ti dirò che te l'avevo detto, ma non lo farò. E sai perché? Perché a me, al contrario loro, importa di te, forse anche troppo. Quindi forse mi toccherà anche consolarti.»
«Smettila di dire queste cose, mi rendi così difficile essere offeso» sbuffò Solomon.
«È perché sono affascinante, è una delle mie tante qualità» rispose lui con un ghigno. Dameta, ancora stretta a lui, gli diede un buffetto sulla nuca.
La porta d'ingresso si spalancò e Sigga fece il suo ingresso con un sacco di tela tra le mani. Chiuse la porta con un calcio e lo posò a terra con uno sbuffo affaticato.
«Alla buon'ora» disse Hildebrand in tono annoiato, «iniziavo a pensare che volessi lasciarci morire di fame.»
«Figurati, non c'è di che!» rispose la ragazza con sarcasmo.
«Grazie, Sigga» intervenne Solomon. «Ignoralo, non sa quello che dice.»
Anche Dameta, separatasi dall'abbraccio, si era avvicinata e le aveva sfiorato la mano in segno di riconoscenza.
Sigga le sorrise, poi con il piede rovesciò il sacco e rivelò delle pagnotte al suo interno e delle forme di formaggio. «Mangiamo» disse, «ne avremo bisogno. Ma lasciate qualcosa anche per Everard, non voglio che resti senza.»
«Sempre che torni» commentò Hildebrand, sedendosi a terra e afferrando un pezzo di pane. «L'idiota è uscito senza illusione, se le guardie lo prendono è fatta.»
«Se è uscito senza illusione è colpa tua, Dameta sarebbe anche potuta andare con lui» commentò Sigga, fredda. «Ma tu non hai voluto.»
«Non vuol dire che sia sicuro, solo che non mi importa» rispose lui con un sorriso.
«Finiscila, Hilde, non è divertente» sibilò Solomon, rivolgendogli un'occhiataccia. «Non si farà prendere, tranquilla. Sono convinto che tornerà a momenti e ci sarà Richard con lui. Mi fido.»
«Infatti. Di sicuro mio fratello avrà tutto sotto controllo» confermò Sigga, con voce ferma. «Proprio come sempre.»
*
Everard chiuse gli occhi e trattenne il respiro, la lama che gli premeva sulla gola.
«Dammi un solo motivo per cui non dovrei ucciderti adesso» gli sussurrò il ragazzo all'orecchio, premendo più forte.
«Richard, lascialo andare! L'ho portato qui perché lo ascoltassi, non perché lo uccidessi» lo implorò Emeline, che li guardava a occhi spalancati, immobilizzata dalla paura. «Tu non sei così.»
«Te ne darò due» rispose Everard, che tentava di mantenere la calma con il cuore che gli martellava nel petto. Sentiva una mano di Richard che gli stringeva i capelli sino a fargli male, per tenergli la testa piegata all'indietro, e il suo stesso pugnale che iniziava a lasciare un segno nella carne. «Primo, non sei un assassino e sono sicuro che non ci tenga a diventarlo. Secondo, tua madre ti guarderebbe per sempre così. È questo che vuoi, altezza?»
«Non chiamarmi in quel modo» sibilò, e lo sentì stringere la presa.
Everard lo seppe allora, in quel momento ne fu certo. Quello era il suo ultimo secondo di vita, stava per morire. Per un istante fu pronto ad andare, sicuro che quello fosse il suo ultimo giorno, e sperò che i suoi genitori lo accogliessero dall'altra parte una volta che Ingar, signore della vita e della morte, lo avesse preso con sé.
D'un tratto sentì la lama farsi rovente a contatto con la sua gola e Richard la lasciò cadere, imprecando.
Il ragazzo si abbassò, svelto, e la afferrò prima che toccasse terra, sentendo che era tornata alla temperatura di sempre. Si voltò verso il ragazzo che aveva davanti e gliela rivolse contro. «Sembra che salvare la vita a un druido abbia qualche piccolo vantaggio, dopotutto. Pare che al mio pugnale non piaccia l'idea di farmi fuori.»
«Non posso credere che hai cercato di ucciderlo» gli disse Emeline, con voce tremante di rabbia e delusione. «Gli ho chiesto io di venire qui.»
«Beh, non avresti dovuto, e lui non sarebbe dovuto venire senza protezione. Non posso rischiare di espormi, se mi unissi a loro nel liberare gli ostaggi avrei tutte le guardie del Regno alle calcagna. Non puoi volere questo per me!»
«Non sapevo che in tutto questo tempo stavo allevando un codardo» sibilò Emeline, «pensavo ti importasse delle persone.»
«Mi importa delle persone» replicò lui, «ma anche io e te siamo persone, le persone di cui mi importa di più! Non posso rischiare la nostra salute per quegli uomini.»
«Sei un egoista!» gli disse Everard, la sua voce vibrava di odio. «Con che coraggio ci hai mandati via, qualche ora fa? Con che coraggio ci hai detto che abbiamo portato solo male alla città? È a te che non importa di nessuno. Sei tu che non ti prendi le tue responsabilità!»
«Io non ho responsabilità in tutto questo» rispose lui, freddo. «Non ho scelto io chi sono, non ho liberato io il druido, non sono io che sono scappato nei boschi appena si sono calmate le acque.»
«Non avrai scelto chi sei, ma hai scelto cosa farne. Potresti portare un po' di giustizia in questo mondo e preferisci startene rintanato qui, a servire birra e a fare la predica agli altri.»
«Non ho bisogno di prendere lezioni da te, so come si sta al mondo.»
Everard lo guardò in silenzio per lunghi attimi, gli occhi colmi di disgusto, poi si infilò di nuovo il pugnale nella tasca della tunica.
Richard era alto, uno dei ragazzi più imponenti che avesse mai visto, come si diceva fosse Re George prima di lui; aveva le spalle larghe che avevano l'aria di aver portato troppi pesi in così poco tempo ed Everard ricordò che anche se non lo sembrava - perché era così alto e serio ed era proprietario di una locanda perché era diventato orfano ben due volte nel giro di qualche anno - doveva avere più o meno la sua età.
«Io salverò quegli ostaggi, che tu ti unisca a noi oppure no. Se non verrai, libereremo i cittadini e tutto finirà stanotte; se verrai con noi forse potremo fare qualcosa di buono per molte più persone, dopo. Per tutto il Regno. Ti lascio tempo per pensarci» i suoi occhi si spostarono su Emeline, che sembrava sul punto di piangere. «Tu verrai?»
«Sarò dei vostri» rispose la donna, e Richard fece per protestare ma un suo sguardo di fuoco lo congelò sul posto. «Ci vediamo alla guardia al decimo rintocco, hai la mia parola.»
«Come desideri» rispose Everard, abbassando la testa in segno di rispetto. «Vostra Grazia» aggiunse, in tono di scherno, e sorrise compiaciuto quando vide il ragazzo trattenere il respiro alle sue parole. «Conosco la strada.»
Non appena lasciò la camera e imboccò le scale che portavano al piano inferiore iniziò a realizzare quello che era appena successo. In un attimo fu di sotto, e i due ragazzi che aiutavano Richard con la gestione del locale, che erano stati lasciati a gestire la sala al suo arrivo, lo guardarono con diffidenza senza fare commenti. Uno dei commensali sussurrò qualcosa al compagno, che incenerì Everard con lo sguardo. Lui se ne accorse appena.
Tutto quello a cui riusciva a pensare mentre calava il cappuccio della tunica e usciva in strada allo scoperto era che la morte gli era passata così vicina che sentiva ancora l'impronta che le sue dita gelide gli avevano lasciato sul polso quando l'avevano stretto per attirarlo a sé; realizzò anche che se una guardia l'avesse riconosciuto in quel momento si sarebbe lasciato prendere senza fare resistenza, non si sentiva padrone di sé, non sapeva neanche come facesse a stare camminando verso casa; era come se osservasse le sue azioni ma non ne prendesse parte, non del tutto. Sentiva il suo petto che si alzava e abbassava più veloce che mai, e le dita gli formicolavano.
L'unico motivo per cui era ancora vivo quel giorno era un puro caso, l'incantesimo di protezione sul suo coltello che non avrebbe dovuto essere lì. Si trascinò verso casa un passo dopo l'altro, e tutto quello a cui riusciva a pensare era "E se Solomon non avesse fatto l'incantesimo?" "E se Richard avesse usato un altro pugnale?" decine e decine di se e ma gli passarono davanti, e tutte finivano allo stesso modo. Quando vide in lontananza la porta di casa si rese conto che le energie rimaste lo stavano abbandonando, e fece quegli ultimi passi incerto sulle gambe.
Note autrice
Richard non si è fatto convincere neanche stavolta, non c'è verso, lui non vuole saperne nulla ed è stato impossibile smuoverlo, anche con la proposta di liberare gli ostaggi.
Everard però ha deciso che agirà comunque, perché è giusto farlo e si sente in colpa. Scoprirete come andrà l'inizio della missione nel prossimo capitolo.
Abbiamo anche scoperto un po' di più del carattere aspro di Hildebrand. Vi ha convinto?
Noi ci aggiorniamo martedì!
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