3.1 // Il Gabbiano Ubriaco
«Vedo che stai bene!» la mattina dopo, Ingerid li indirizzò al giardino interno per la colazione, ed Everard individuò subito Solomon, che sembrava tutto d'un pezzo.
Quando lo sentì, alzò gli occhi stanchi verso di lui, erano un poco arrossati, e dei cerchi violacei appena accennati gli davano un'aria esausta, ma sembrava stare bene.
Hildebrand sbuffò, ed Everard ricordò la sua presenza solo in quel momento. «Certo che sta bene. L'erba cattiva è la più dura a morire» commentò, asciutto. «E poi ha solo passato la notte in bianco, niente di preoccupante.»
Solomon restò muto per un secondo a guardarlo, sbattendo le palpebre. Sembrò per qualche attimo rimasto congelato in un pensiero scomodo, poi il sorriso che spuntò sul suo volto oscurò ogni altra cosa in quel giardino. «Sembrate un po' druidi anche voi, vestiti così.»
«Come no» commentò il compagno, «Se i druidi fossero alti, denutriti, e neri. Proprio identici.»
«Sempre una buona parola, tu» sibilò Sigga, come sempre la sua ombra.
Solomon si sgonfiò in un sospiro. «Ignoratelo, per favore. A Hildebrand piace scherzare.»
La ragazza parve starlo a sentire, per una volta, e rispose a Solomon cancellando il battibecco appena avvenuto. Guardò in basso e osservò la tunica nera da druido che le era stata prestata la notte prima. «Piace anche a me, comunque» disse, compiaciuta. «È carina.»
Everard non fece alcun commento a riguardo, nel tentativo di sviare l'attenzione da sé e dal suo aspetto. Vagò con lo sguardo verso il tavolo mentre i druidi lo stavano osservando, e la sua attenzione fu catturata da un oggetto familiare. Fece un passo in avanti e disse: «Ehi, quello è mio!»
Hildebrand ghignò e sfiorò il pugnale che stava sul tavolo di fronte a lui, facendolo girare come l'ago di una bussola con un gesto del dito. «Intendi questa? L'arma che hai brandito contro di me in casa mia? No, grazie, pensò che la terrò con me per la mia sicurezza.»
«Hai detto che volevi ucciderci» fece notare Sigga. «Lui te l'ha rivolto solo per questo. Sei stato tu a iniziare.»
«Voi siete venuti armati, non è un po' sospetto?» chiese il ragazzo, alzando le spalle con finta naturalezza.
«Non insinuare, Hilde» si intromise Solomon, «abbiamo attraversato la città, c'era il rischio di incappare nelle guardie, per questo l'hanno portato. Rendigli il pugnale, avanti.»
«Gli è caduto ieri e io l'ho trovato, ora è mio.»
Sigga si avvicinò ancora e si sedette insieme agli altri, vinta dalla fame. Si mise in bocca una fragola e commentò «E cosa ci farai? Lo trasformerai in una rana? Perché dubito tu sappia usarlo.»
Everard la seguì svelto, sedendosi accanto a lei. Dameta stava ridendo sotto i baffi, Solomon invece scosse la testa con un sorrisino. «Non può trasformare un pugnale in una rana, può trasformare un pugnale in una lancia al massimo, ma non un essere inanimato in uno vivente. Neanche chi ha il marchio di Ingar può influire sulla vita in quel modo» disse. «Al massimo può fare il contrario... terminare la vita, non crearla.»
Everard ricordò di come Ingerid aveva fatto stramazzare a terra l'uomo che li aveva afferrati, uccidendolo con un solo incantesimo, e rabbrividì. Non aveva riflettuto molto sul fatto che fosse la madre di Solomon allora, e si chiese cos'avesse provato il ragazzo nel vederla in quel modo. Rammentò che quando l'incantesimo era finito, il giorno prima, aveva l'aria sconvolta. Forse era per questo.
«Smettila di parlare della nostra magia a questi umani, hai già fatto abbastanza!» sibilò Hildebrand, infastidito. «E poi posso sempre farlo esplodere, o trasformarlo in un granello di sabbia. Buona fortuna, in quel caso!»
«Non puoi fare esplodere il mio pugnale» rispose Everard, accigliato, «mi serve. E ci tengo.»
«Beh, si dà il caso che ora è il mio pugnale, e...» iniziò, ma Solomon agitò la mano e prima che l'altro potesse finire la frase, era lui a stringerlo in pugno.
«Tu parli troppo, Hilde» disse, compiaciuto, osservando l'arma da vicino. La lama era corta e dritta, affilata; il manico era di osso di qualche animale, cervo o cinghiale, ed era di poco scavato dove le dita di Everard lo avevano stretto così tante volte.
«Mi auguro che tu abbia preso quell'arma per distruggerla, rubarla, o qualcosa del genere» commentò Hildebrand, Everard non lo degnò di uno sguardo. Era troppo impegnato a osservare il druido che reggeva il pugnale.
Solomon sollevò gli occhi al cielo. «L'unica cosa che farò a questo affare, che per inciso è quello che ha tagliato le corde di quando ero legato a un palo, sarà un incantesimo di protezione. Poi lo renderò al suo legittimo proprietario.»
«Un incantesimo di protezione?» si inserì Sigga, eccitata. «Puoi farlo? Forte!»
Solomon sorrise. «In effetti posso. Anzi, incantare le armi è la cosa che noi figli di Tanvar sappiamo fare meglio» esclamò soddisfatto. Lo appoggiò sul tavolo e fece sfarfallare le dita su di esso in una pioggia di scintille scarlatte. Non sembrò succedere alcunché a quel gesto, ma quando lo riprese in mano e lo osservò da vicino sembrava soddisfatto. «Ecco, tieni» disse, e glielo porse. «Tutto tuo.»
Everard poté sentire le guance scaldarsi. Forse era questo che aveva inteso Solomon, quando aveva detto di essere arrossito. «Grazie» mormorò in risposta, soffocando un sorrisino, lo afferrò e lo infilò in una trascina della tunica in tutta fretta.
«Che spreco di magia» sbuffò Hildebrand, «io l'avrei sfruttato meglio.»
Hildebrand a parte, tutto sommato, la convivenza con i druidi non fu difficile.
Everard e Sigga riuscirono persino a fare un bagno nel fiume, su insistenza di Ingerid che forse aveva ritenuto le loro condizioni poco adeguate per una serena convivenza al rifugio.
Solomon si era unito a loro ma non era entrato in acqua né si era mostrato senza la tunica. Si era trattenuto sulla sponda per continuare a stare in loro compagnia ed Everard ogni tanto aveva avvertito il suo sguardo scivolargli addosso con noncuranza.
Il suo ricordo della Notte delle Fiamme non tornò più a disturbargli il sonno, e mentre i druidi studiavano e si esercitavano in sessioni di magia a cui lui e Sigga non potevano assistere, riuscì a ritagliarsi qualche momento di serenità per la prima volta da chi riusciva a ricordare.
Ingerid non si vedeva quasi mai.
Andò avanti così per tre giorni, e la mattina del quarto giorno qualcuno bussò alla porta.
Sigga, che aveva gli occhi chiusi e stava stravaccata sul letto, si raddrizzò di soprassalto. Everard portò gli occhi verso la direzione del suono.
«È permesso?» Solomon stava appoggiato allo stipite, aveva in mano quello che sembrava un pezzo di carne secca e gli diede un grosso morso. «Scusate, ho bisogno di mangiare un po'. Stavo aiutando mia madre con qualche incantesimo più fastidioso del solito.»
«È la tua stanza, non devi chiedere il permesso per entrare» disse Sigga, con un'alzata di spalle. «Che novità ci sono?»
«L'abbiamo trovato. Abbiamo trovato Richard.»
Everard, seduto per terra sul suo giaciglio, saltò in piedi. «Abbiamo trovato Richard?»
«Loro hanno trovato Richard» commentò Sigga. «Tu non hai fatto proprio niente.»
Solomon non aspettò che quella frase si trasformasse in un battibecco. «È al Gabbiano Ubriaco, la vecchia proprietaria lo tiene con sé come un figlio e gli ha lasciato la gestione qualche anno fa. Oggi stesso ci presenteremo lì e chiederemo di conferire con lui.»
«Il Principe Ereditario è il locandiere del Gabbiano Ubriaco?» domandò Sigga, con un ghigno. «Questa sì che è bella.»
«Già, non credo che dovresti venire anche tu, comunque» commentò Everard, lanciando uno sguardo a Solomon con un'espressione disinteressata che lottò per tenere al suo posto. «In città ti hanno visto tutti in volto e hanno già cercato di metterti al rogo una volta. Non ti va di ripetere l'esperienza, immagino.»
«Non devi preoccuparti di quello» rispose Solomon, a bassa voce. «Ci penserà Dameta. Penseremo a tutto noi. Vedrete.»
Quando furono nella stanza del pozzo, fu proprio lei che li accolse con un sorriso. Sembrava l'unica a non essere turbata dalla missione imminente, ed Everard ricordò di quello che Solomon aveva detto giorni prima sul fatto che pensasse sempre il meglio degli altri.
La ragazza avanzò di un passo, leggera, e rivolse le mani coi palmi verso l'alto in un gesto di invito.
Sigga arricciò le labbra. «Scusa, non credo di capire.»
Dameta sollevò la manica della tunica nera e mostrò l'interno del suo avambraccio. Una cicatrice in forma di spirale tagliata a metà da una riga verticale si delineava in rilievo sulla pelle candida.
«Il marchio di Sunnar» spiegò Everard, a una Sigga che l'osservava perplessa. «È il segno del sole.»
«Le dà i poteri dell'illusione e della luce» confermò Solomon. «Tra le varie cose, può cambiare le apparenze di ciò che la circonda.»
Sigga annuì come per farle capire che era d'accordo, e la ragazza si avvicinò ancora. Le prese il volto tra le mani e chiuse gli occhi.
Everard le osservò immobile e in silenzio, in attesa. Benché si fidasse dei druidi del rifugio, qualcosa in lui comunque gli fece stringere lo stomaco e tenere gli occhi fissi su sulla sorella, un nodo in gola.
Qualche istante, e la ragazza druido lasciò la presa. Sorrise a Sigga, le fece un occhiolino allusivo e saltellò indietro di un passo.
«Come sto?» domandò l'altra, che al silenzio di suo fratello in risposta, aggiunse: «Mi ha fatta brutta?»
Everard si accigliò. Il volto di Sigga non era mutato, o almeno non gli era sembrato lo fosse. Nonostante ciò, qualcosa in lei non andava.
Cercò di analizzare l'aspetto di sua sorella e si accorse di non riuscire a riconoscerlo, benché ogni sua parte fosse proprio com'era stata sino a un attimo prima.
«Non lo so.»
«"Non lo so" vuol dire sì, vero? Sono brutta e ti vergogni di dirmelo.»
«Non ti ha cambiato i connotati.» si inserì Solomon. «Chiunque ti guardi non associa più la tua immagine all'idea che ha di te, dunque non può capire che sei proprio tu neanche guardandoti dritta in faccia.»
Dameta porse la mano verso Everard, e lui fece un istintivo passo indietro. Lei sbatté le palpebre incredula, e piegò la testa da un lato con aria perplessa.
«Non ti farà del male» sospirò Hildebrand. «Smettila con le lagne e avvicinati, forza.»
Quando il druido ebbe finito con la sua illusione su tutti i presenti, mancava all'appello solo una persona.
Sigga faceva saettare lo sguardo da un lato all'altro della sala d'ingresso. «Dov'è Ingerid?»
«La Signora non verrà. Lei ha cose più importanti di cui occuparsi» rispose l'annoiata voce di Hildebrand.
«Andiamo, o faremo tardi» interruppe Solomon, prima che si mettessero a litigare di nuovo. «Lei ha detto che dev'essere fatto oggi, è questione di vita o di morte.»
Il gruppo si incamminò fuori dal castello, verso la città. Si allontanarono dall'ansa del fiume in cui i due fratelli avevano fatto il bagno, e si inoltrarono tra la vegetazione più fitta.
Un cervo passò loro davanti, alzò la testa per osservarli, le corna alte e dai tanti rami; non si spaventò nel vederli, ma neanche si avvicinò. Le ombre che Everard aveva visto la prima notte, quelle di cui aveva sentito lo sguardo sulle spalle, erano scomparse.
Giunsero in città più in fretta di quanto fossero arrivati al rifugio il primo giorno, procedendo sicuri alla luce del sole, e in prossimità delle porte i druidi esitarono.
«Voi che abitate qui» chiamò Hildebrand - Everard non riuscì a cogliere il cipiglio annoiato del suo volto, ma capì di chi si trattava dalla voce strascicata - «Dov'è la locanda?»
«Vi guido io» rispose, fermo, e si avviò lungo la via d'ingresso con la sorella al seguito, che non aveva lasciato il suo fianco da quando il suo volto era cambiato.
I druidi li seguivano goffi e dall'andatura incerta, vicini l'un l'altro, e la schiena rigida. Everard provò l'impulso di tranquillizzarli ma non lo fece, l'avrebbero preso per pazzo e comunque non erano affari suoi.
Incontrarono il fabbro che aveva prestato loro il mantello con cui avevano liberato Solomon, scuro in volto; Everard per poco non lo salutò, poi quando notò che aveva passato gli occhi su di lui senza dar segni di averlo riconosciuto ricordò l'incantesimo e non lo fece. L'uomo aveva un aspetto contrito, e da quel momento il ragazzo realizzò che ogni persona che incrociava sul suo cammino sembrava di pessimo umore.
«C'è qualcosa di strano. Sono tutti così cupi, non capisco...» sibilò, tra i denti.
«Certo che sono cupi, questa città è un posto orribile. Anche io sarei di malumore se vivessi qui» commentò una voce inconfondibile.
«Tu sei sempre di malumore, Hildebrand» sussurrò Sigga di rimando.
«Solo quando voi umani siete nei paraggi. In realtà sono sempre stato l'anima della festa!»
«Silenzio, ci siamo quasi» li interruppe Everard, secco. «Tra un po' giriamo l'angolo e siamo arrivati.»
Quando ormai mancavano pochi passi alla destinazione, dalla parte opposta della strada, spuntarono due guardie del re.
Sembravano le prime persone che avessero incrociato che fossero di umore sereno, ed Everard si sentì scoperto e vulnerabile per un lungo interminabile attimo che lo congelò sul posto.
Una di loro posò gli occhi su quel gruppo male assortito, li osservò per un attimo, poi distolse con indifferenza lo sguardo.
Everard fece appena in tempo a realizzare che sì, l'incantesimo aveva funzionato davvero, che si accorse che uno dei suoi compagni era rimasto qualche passo indietro.
Non sprecò neanche un attimo a chiedersi di chi si trattasse. Allungò il braccio all'indietro, gli afferrò la mano e lo tirò a sé.
«Andiamo» incalzò, incoraggiandolo a proseguire. «È tutto a posto, andiamo.»
Il terrore che potesse trattarsi di Hildebrand o addirittura Dameta, portando il druido scontroso a staccargli il braccio a morsi, lo invase appena prima che la figura si stringesse più a lui in una istintiva ricerca di protezione.
Le due guardie li superarono senza degnarli più di quel primo sguardo, e non appena furono passati, Everard lasciò la presa. «Scusami.»
«No, anzi, grazie.»
La voce di Solomon lo fece sorridere. A quanto sembrava, nessuno gli avrebbe staccato il braccio quel giorno, e la sua supposizione si era rivelata esatta.
Poteva ancora sentire il calore di quella stretta sul suo palmo, quando la prima persona in testa al gruppo si addentrò all'interno della locanda.
«Buongiorno!» la voce squillante di Sigga catturò l'attenzione di una donna che passava tra i tavoli.
«Posso fare qualcosa per voi?»
Aveva i capelli scuri legati in una treccia che le girava intorno alla testa come un cerchietto, e indossava un grembiule bianco da cameriera. Sembrava avere poco più di quarant'anni, e il suo sguardo distratto e turbato non prometteva nulla di buono.
«Vorremmo parlare con il proprietario, abbiamo un'informazione che potrebbe interessargli.»
La donna si liberò in un sospiro e si voltò indietro. «Roland! C'è qualcuno per te!»
«Roland?» domandò Sigga, in un sussurro. «Non si chiamava Richard?»
«Darsi alla macchia mantenendo il proprio nome non è proprio una mossa geniale» fece notare Solomon.
Il giovane uomo dietro al bancone rispose al richiamo della cameriera, e congedò il cliente a cui stava servendo del vino. «Chi mi chiama?»
«Potrebbe essere lui» commentò Everard, «un po' ci assomiglia.»
Il locandiere aveva la stessa zazzera indomita dai riflessi d'oro del bambino di tanti anni prima, e gli stessi occhi grandi e stupiti.
Gli abitanti del Regno, dalla pelle tanto scura, era raro che avessero un colore di capelli che non fosse nero, e rendeva quel particolare in lui piuttosto vistoso.
«Questo tizio gigante con le spalle più larghe della porta somiglia al bambino di otto anni che hai visto cadere nel canale?» domandò con sarcasmo Hildebrand.
«Beh, sono entrambi biondi» si giustificò Everard.
«Sono entrambi biondi» ripeté l'altro, annoiato. «Meraviglioso, mi sembra una prova inconfutabile.»
«Abbiamo bisogno di parlare con voi in privato» intervenne Sigga, prima che il presunto principe ereditario tornasse a lavare bicchieri perché non aveva ricevuto risposta.
«Potete tornare dopo la chiusura» borbottò lui, «ora ho da fare. Devo servire i clienti.»
Si avvicinarono al bancone ed Everard si interrogò sul da farsi, quando Solomon parlò. «Si tratta di vostro zio. È una questione importante.»
Richard, Roland, o chi per lui si immobilizzò. Sollevò lo sguardo su di loro per la prima volta da quando erano entrati, e i suoi occhi si strinsero in fessure.
«Non so di cosa stiate parlando» sibilò, «mio padre era figlio unico e mia madre ha soltanto quattro sorelle. Da quando mio padre se n'è andato, oltre a mia madre non ho nessuno al mondo.»
Fu Sigga a insistere. «Non parliamo della vostra famiglia adottiva, parliamo di vostro zio. Sì, proprio quello che state pensando, esatto.»
Il ragazzo si chinò sul bancone e si avvicinò a lei. La sovrastava per la stazza, ma i suoi occhi lampeggiavano di terrore. «Non so proprio di che parli ma, di qualunque cosa si tratti, smettila subito. Ora, se permettete, devo chiedervi di uscire. La vostra presenza non è gradita.»
Ci fu silenzio per un attimo, poi un membro del gruppo si mosse fulmineo, sollevando la manica e mostrando una cicatrice a forma di spirale, rivelando così di essere Dameta.
Il locandiere la fissò con tanto d'occhi mentre qualcuno, forse Hildebrand, le riabbassò la manica di fretta sibilando un rimprovero.
L'azione disperata del druido parve aver funzionato. Il ragazzo esitò qualche istante, poi si piegò. «Mamma, prendi tu il bancone, io vado di sopra. Il servizio al tavolo è chiuso!»
Everard lo seguì, insieme a tutti gli altri. Ormai aveva perso anche Sigga, non riusciva più a identificare nessuno di loro, si erano scambiati di posto troppe volte e li aveva persi di vista.
Quando giunsero al piano superiore, notò che buona parte delle camere che la locanda affittava ai mercanti e ai pellegrini erano vuote, la porta spalancata, alcune avevano il letto ancora sfatto come se chi vi alloggiava fosse uscito in tutta fretta. Richard entrò in una di queste e fece un gesto per invitarli a chiudere la porta; uno di loro lo fece.
«Ora voi mi direte chi siete, cosa volete, e cosa ci fate nella mia locanda» ordinò. «Vi lascio dieci minuti per farlo, poi dovrete andarvene.»
Non aveva finito di pronunciare quelle parole da più di un istante che il suo volto si deformò in una smorfia impaurita e fece un salto indietro.
«Tu» sbottò allora, rivolto verso Solomon che, come tutti gli altri, doveva essere appena tornato visibile. «tu sei il druido che dovevano bruciare in piazza! Hai una bella faccia a presentarti qui come se niente fosse!»
«Denuncialo» ringhiò Sigga, «e noi denunceremo te. Vedremo a che informazione tiene di più il Re.»
«Che volete da me? Farvi vedere qua dentro e fare ammazzare dieci dei miei avventori? Il colpo di genio dell'altro giorno non era sufficiente?»
Quella frase punse Everard sul vivo. «E questo che vorrebbe dire?»
Richard sollevò un sopracciglio e gli rivolse un'occhiata scettica. «Andiamo, lo sanno tutti! Non potete non averlo sentito.»
«Siamo stati fuori città nei giorni scorsi» disse Hildebrand. «Parla, avanti.»
«Dopo lo spettacolo che i tuoi amici hanno messo su al mercato, le guardie hanno preso dieci persone tra i cittadini e le hanno condannate a morte. Le hanno ammassate al centro di guardia e le giustizieranno domani mattina. Una rappresaglia perché i colpevoli non si sono fatti vivi.»
Everard sentì un vuoto allo stomaco che si allargava sino a ingoiarlo dall'interno.
Ecco perché avevano tutti un'aria cupa, ecco perché il locandiere era stato così mal disposto nei loro confronti, ecco perché i cittadini erano nervosi.
Il Re se l'era presa per qualcosa che lui aveva fatto, ed era stato il popolo a pagare, come sempre. Si accorse che gli mancava l'aria.
«Che cosa?» la voce di Sigga era salita di un paio di ottave. «Dieci persone?»
«Che ti aspettavi? Sono morte delle guardie reali, pensavi che la cosa non avrebbe avuto conseguenze?»
«Io... io non ci avevo pensato» riuscì a mormorare Everard, sbattendo le palpebre, la vista d'un tratto sfocata. Fece due passi indietro e appoggiò la schiena al muro, temendo che le gambe non riuscissero più a sostenerlo. Sentì del sudore freddo addosso, pensò di stare per svenire. «Non ci avevo pensato. Lo giuro, io non ci avevo pensato.»
Hildebrand fece un gesto annoiato della mano come di chi scaccia un insetto, l'altra intrecciata a quella di Dameta, come sempre al suo fianco. «Riconosco che è molto spiacevole, ma non siamo qui per parlare di questo.»
«Io con voi non voglio parlare proprio. Né di questo né di altro. Siete una rovina per questa città.»
«Abbiamo avuto una profezia» continuò Hildebrand come se non l'avesse sentito, «che parla di te. Ci servi per fare sì che si compia.»
«Non mi interessano le profezie» commentò Richard. «E non mi importa niente di quello che vi serve.»
«Sei l'unico che può mettere fine a questa assurdità, dovrà pur contare qualcosa!» sbottò Hildebrand.
«Non mi interessa neanche il trono. Da quando mio padre è morto ho già abbastanza da fare con i clienti della mia locanda.»
Fu Sigga a intervenire. «Queste persone, quelle che ami, hanno bisogno di te.»
«Non è per niente vero. Sai di cosa hanno bisogno le persone?» Il silenzio che seguì fu una risposta più che eloquente, così Richard continuò. «Hanno bisogno che quelli come te la smettano di scambiare dieci di loro con la vita di un solo maledetto druido.»
A quelle parole Everard emise un sospiro così profondo che se fosse stato un pallone si sarebbe sgonfiato. Per un breve istante desiderò poter sparire dalla faccia della terra, cambiare nome, città, o magari buttarsi dalla finestra per sfuggire al peso che lo schiacciava, ma sapeva che non avrebbe risolto niente. Non sarebbe scappato più.
«È colpa mia» sussurrò invece. «Ottar, perdonami, è colpa mia.»
Solomon, invece, non aveva pronunciato parola per tutto il tempo che erano stati là dentro.
«Andiamo» ordinò Hildebrand, «torneremo più tardi.» Rivolse a Richard un'occhiata di fastidio purissimo. «Non ti daremo tregua. Verremo qui tutti i giorni, mattina pomeriggio e sera. Dovrai ascoltarci, prima o poi. E non potrai chiamare le guardie, non vuoi che la tua locanda attiri troppo l'attenzione, non è così? Le persone in questa città ci mettono poco a farsi domande, e soprattutto a darsi le risposte che servono.»
«Venite qui tutti i giorni, non mi interessa. Farò finta che non esistete. Non ho nessuna intenzione di avere a che fare con voi. Vi stancherete ben prima di me.»
«Non contarci troppo» sibilò Hildebrand, per poi girarsi a guardare gli altri. «Andiamo a casa vostra, sediamoci un attimo. Tra un po' si torna alla carica.»
Spalancò la porta con Dameta al seguito, e d'un tratto Everard si accorse che non riconosceva più nessuno di loro. Il druido doveva aver alzato la sua barriera illusoria un'altra volta.
Non si soffermò troppo a pensare a quanto fosse strano che Hildebrand avesse preso il controllo della situazione; lui non era in grado di pensare nulla al momento a parte a quanto avesse sbagliato, Dameta non era la più indicata per una missione diplomatica, Sigga era impegnata a preoccuparsi per lui e Solomon pareva aver deciso di confondersi con la tappezzeria.
Everard si chiese se anche lui provasse lo stesso senso di colpa che lo stava consumando. Dal momento che era lui la causa di tutto ciò che era successo, forse era così.
«Vi guido io» sussurrò la voce di Sigga passando in testa al gruppo, Everard li seguì con calma, senza preoccuparsi di restare indietro. Sapeva bene dove fosse casa sua, e nessuno avrebbe potuto riconoscerlo in ogni caso. Aveva tutto il tempo del mondo e molte cose a cui pensare.
Restò a qualche passo di distanza e si guardò intorno, mappando la città nella sua mente. Un'idea iniziò a formarsi nella sua mente mentre camminava, le mani nelle tasche della tunica, con le dita a sfiorare il manico del suo pugnale.
Era solo una la decisione da prendere per rimediare al suo torto, e in cuor suo sentì che fosse la cosa giusta da fare.
Note autrice
Che decisione è sul punto di prendere Everard? Lo scoprirete nel prossimo capitolo.
Intanto, Richard non è affatto collaborativo, come i ragazzi già temevano e immaginavano.
Riusciranno prima o poi a convincerlo a unirsi a loro, nonostante siano stati la causa della rappresaglia contro il popolo?
Ai posteri l'ardua sentenza.
Intanto, Everard ha rimediato un pugnale incantato che potrebbe sempre essergli utile, merito della gratitudine di Solomon.
Noi ci rivediamo martedì!
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