2.2 // La Profezia
Everard afferrò la mano di Sigga e si incamminarono insieme verso il druido che procedeva là dov'era più fitto.
Man mano che avanzavano, la luce della luna si affievolì sino a svanire, filtrata tra le fronde degli alberi, e si ritrovarono a procedere nel buio. Seguirono alla cieca il rumore dei passi di Solomon sulle foglie cadute, con il sottofondo del fiume che scorreva in lontananza e talvolta qualche frullo d'ali di pipistrello, o forse di gufo; la loro guida improvvisata parve accorgersi dei loro passi incespicanti, perché, qualche attimo dopo, una fiammella lampeggiò a mezz'aria illuminando una piccola porzione di strada.
Sigga si avvicinò e tese la mano verso quella fonte di luce improvvisa, che danzò come ad accogliere il saluto.
«Grazie» mormorò Everard.
Il druido non rispose. «Tra poco dovremmo esserci.»
L'aria era fredda e tagliente, più si allontanavano dalla città più il gelo si infilava nelle ossa, ed Everard restò con addosso la fastidiosa sensazione di essere osservato e seguito.
Era incredibile che fossero davvero insieme a Solomon nel fitto della foresta. Non l'avevano mai incontrato prima di quel giorno, sapevano che sarebbe stato in grado di sopraffarli in qualsiasi momento, eppure lo stavano seguendo chissà dove per motivi per nulla certi.
Per un attimo Everard ebbe paura, fu sicuro che il druido li avesse stregati con la magia, attirati in una trappola come uno splendido fiore velenoso, o una pianta carnivora che li aveva attratti a sé per divorarli.
Quando Solomon si voltò di nuovo e gli rivolse un sorriso entusiasta la sensazione svanì, e i sensi di colpa lo rosicchiarono per aver sospettato intenzioni tanto orribili.
«Eccolo qui. L'avevo detto che eravamo vicini» mormorò, sfiorando un tronco spaccato in due con un colpo d'ascia.
«Tu vivi dentro questo faggio? Perché non credo che ci staremo in tre» commentò Sigga, perplessa.
Solomon rise, ed Everard ebbe di nuovo l'impressione di riconoscere la musicalità contraddittoria della sua voce, come se l'avesse sentita tanto tempo prima e gliel'avessero scavata dentro.
«No, non vivo dentro un faggio, ma lui ci può indicare la strada. Vedi?»
I due fratelli si avvicinarono, e la fiammella magica insieme a loro. La luce si stagliò sul legno ormai secco, e infine la videro: intagliata nel tronco c'era il simbolo che nella loro lingua indicava la parola "casa", un rombo obliquo con una coda laterale.
Solomon sfiorò le dita sull'incisione, che luccicò di luce bianca.
«Mostrami» soffiò a fior di labbra.
Ogni luce si spense. Piombarono nel buio totale per un lungo istante, poi apparvero; una fila di fiammelle azzurre che tremolavano sospese a pochi centimetri dal terreno segnavano la via verso quello che sembrava un rifugio diroccato in granito che Everard era abbastanza sicuro non ci fosse stato sino a un attimo prima.
Vide Sigga che studiava i giochi di luce bluastri che si stagliavano sulle foglie secche e le rocce terrose della foresta.
«È splendido.»
«Sono fuochi fatui, fai attenzione» le intimò Everard, «attirano i cadaveri.»
Solomon ridacchiò ancora, sembrava più di buon umore di quanto era stato in città. «Se proprio vuoi saperlo» si inserì, divertito, «sono i cadaveri che attirano i fuochi fatui, non il contrario. Ma voi umani non siete ancora pronti per capirlo, forse non lo sarete mai. Non prima di poter parlare di metano, almeno. Comunque in questo caso i cadaveri non c'entrano, è soltanto magia.»
«Quello che dici non ha quasi mai senso» borbottò Sigga, «la cosa mi irrita molto.»
Il druido la ignorò caparbio e iniziò a percorrere la strada indicata dai fuochi che portava verso il rifugio. Gli altri due si affrettarono a seguirlo allungando il passo, le loro mani ancora intrecciate.
Man mano che si avvicinavano all'edificio, a ogni passo il suo aspetto appariva meno diroccato del precedente. Era massiccio ma non tanto alto, di granito macchiato di muschio e abbracciato dall'edera rampicante, era ben più grande della loro casa e di tante altre in città. Quando furono più vicini Everard scorse una luce che brillava all'interno, come se ci fosse qualcuno sveglio ad aspettarli. Varcando l'arco principale notò un'iscrizione sul granito proprio sopra l'entrata, in uno strano alfabeto che non aveva mai visto.
Il rifugio era grande ma spoglio, le pareti e il pavimento di pietra liberi da arazzi e tappeti. Il largo salone d'entrata aveva il soffitto basso, arrivava poco sopra la testa di Everard, che quasi lo sfiorava coi ricci. Al centro stava quello che sembrava un pozzo, doveva attingere acqua dal fiume, anche se non aveva né carrucola né secchio. Sopra di esso, sul soffitto, un buco circolare come un lucernario, che faceva riflettere il cielo nell'acqua.
«Il vostro pozzo non ha il secchio» commentò Sigga, «non è molto utile.»
«Quel pozzo non serve per tirare su l'acqua, è un calendario e un catalizzatore di magia» rispose Solomon, paziente, togliendo il cappuccio. Sembrava quasi brillare alla luce delle torce, pallido e splendente, senza più il rossore che gli aveva colorato il volto quella sera. Everard cercò di ricordare se avesse mai visto nulla di più bello senza riuscirci. «A seconda di se e come la luna si riflette nell'acqua si possono fare alcuni o tutti gli incantesimi più potenti.»
Una porta di legno massiccio alla fine del salone si spalancò, e una ragazza dalla tunica come quella di Solomon si lanciò all'interno della sala, correndo verso di loro. Doveva essere un druido anche lei, ma come per Solomon il suo marchio non era visibile.
Everard si preparò ad afferrare una torcia e brandirla per proteggere Sigga e il ragazzo che era con loro, ma si accorse presto che quello non era un attacco. Solomon allargò le braccia e fece un passo in avanti, venendo investito da un abbraccio travolgente.
«Non avrai creduto di esserti liberata di me così?» domandò, e dalla stretta forte la sollevò di qualche centimetro da terra per un attimo.
Lei si separò dall'abbraccio, gli scoccò un'occhiata di fuoco e, senza dare il tempo a nessuno di fare alcunché, gli assestò un ceffone sulla guancia.
Il suono secco echeggiò per il salone, seguito da un gemito di dolore e indignazione. «Ehi! È così che si saluta qualcuno che è quasi finito arrosto?»
La ragazza druido non rispose, non aveva emesso fiato da quando era entrata.
«Everard, Sigga, lei è Dameta. Lei non parla molto, ma come potete notare sa essere eloquente a modo suo!»
La ragazza si ricompose e li osservò con curiosità. Anche lei aveva la pelle chiara, e i suoi occhi espressivi erano di un nocciola chiaro quasi d'oro. Anche i capelli castani avevano riflessi dorati che riflettevano la luce delle torce quando muoveva il capo, e le cadevano in larghi boccoli sulle spalle. Sorrise verso i nuovi arrivati e alzò le spalle in segno di saluto. Sembrava più giovane di tutti loro, un'adolescente, anche se Everard non avrebbe saputo indovinare di preciso la sua età. «Dameta, questi sono Everard e Sigga. Se non fosse stato per loro oggi non sarei qui.»
«Neanche questa volta ce l'hanno fatta a farti fuori!» esclamò una voce, e Solomon sbuffò, ma non riuscì a trattenere un sorrisino. «A chi devo il dispiacere?»
Dameta scosse la testa, ma neanche il suo sorriso sfumò.
«Lui è Hildebrand» lo presentò Solomon. «Non lasciatevi ingannare, in realtà è pazzo di me.»
«Sì, ti piacerebbe» commentò il ragazzo, mentre si avvicinava.
Portava la stessa tunica degli altri, la stessa carnagione pallida. Aveva capelli rossi arruffati e gli occhi celesti penetranti come lame, il naso e le guance erano coperte da lentiggini così fitte che viste da lontano sembravano un'unica macchia rossastra. «Perché hai portato questi umani sin qui? Ora dovremo ucciderli così su due piedi, e vorrei andare a letto presto.»
A quelle parole, Everard lasciò la mano di Sigga e gliela infilò in tasca, estraendo il pugnale che le aveva offerto quella mattina e non si era ancora ripreso. Se lo rigirò in mano come aveva fatto centinaia di volte e lo rivolse al druido che aveva davanti.
Sigga si strinse accanto a lui. «Solomon, di che sta parlando?»
Everard osservò il ragazzo di nome Hildebrand cercando di capire se parlava sul serio; lui resse lo sguardo, poi mosse due dita e il manico del pugnale divenne rovente, sfuggendogli di mano e cadendo ai suoi piedi.
Solomon si infilò tra loro con un movimento fluido e tranquillo, rivolgendo la schiena ai due fratelli, schermandoli alla vista del compagno. «Sì, Hildebrand, di che stai parlando? Questi umani sono sotto la mia protezione.»
«Oh, non fare quella faccia sorpresa. Hai mostrato loro dove viviamo, la prima cosa che faranno quando torneranno in città sarà venderci per qualche spicciolo. Li hai guardati, almeno? Sembra che non mangino da settimane.»
«Come ti permetti?» abbaiò Sigga, Everard le lanciò un'occhiataccia per intimarle di stare zitta, che lei ignorò. «Noi non vendiamo nessuno!»
«Queste persone mi hanno tirato giù dalla pira appena in tempo, e per farlo hanno rischiato la vita. Non ci venderebbero mai alle guardie» replicò Solomon, asciutto. «E poi è stata lei a volerli qui. È apparsa all'umano in sogno, gli ha chiesto lei di seguirmi al rifugio.»
«Impossibile. Lei non porterebbe mai degli umani qui. Gli umani uccidono i druidi, tutti lo sanno. Ce ne dobbiamo sbarazzare subito.»
Dameta si avvicinò a Hildebrand e gli afferrò la spalla per richiamare la sua attenzione, poi avvicinò il volto al suo orecchio e sussurrò qualcosa muovendo appena le labbra. Lui alzò gli occhi al cielo e si rivolse a lei con uno sbuffo. «Ma dai, non crederai anche tu che-»
«Basta, adesso.» Una voce che Everard conosceva, confortante e terribile, risuonò per la stanza. «Gli umani non moriranno oggi. Sono i benvenuti nella mia casa. Li ho chiamati io.»
Una donna apparve alla porta, identica a quella del sogno. La sua tunica non era nera come quella dei ragazzi che stavano sotto la sua protezione, ma candida come i capelli che portava liberi e le arrivavano ben sotto le spalle. Non sembrava invecchiata di un giorno e gli occhi verdi e luminosi erano più vivi che mai.
«Benvenuti, Everard e Sigga Danneville» li accolse con un sorriso, aprendo le braccia come per includerli in un abbraccio. «Spero che vi troverete bene, qui. Devo a sir Henry molto di ciò che ho, mi unisco al vostro cordoglio.»
«Che sta dicendo?» sibilò Sigga, perplessa.
Everard alzò le spalle. «I nostri nomi, e il nome di nostro padre.»
«Ma noi non conosciamo quel nome» disse lei, incerta, «non lo ricordiamo.»
«Certo che ricordo il nome di nostro padre, avevo otto anni quando è morto.»
«E perché... perché io non lo so?»
«Tu non me l'hai mai chiesto, e comunque ormai a che ti sarebbe servito saperlo?»
La donna li riportò al discorso originario. «L'avevo detto, ragazzo, che un giorno mi avresti reso il favore. Mio figlio è stato incauto e dovrà pagarne le conseguenze, ma il peggio per ora è stato evitato.»
«Scusa, mamma. Non so cosa mi sia preso, è stato un-»
«Io non lo sapevo» li interruppe Everard, rivolgendosi a lei per la prima volta. «Non sapevo che fosse tuo figlio. Ti sono ancora debitore, come tanti anni fa. Ho fatto una cosa per lui, fammi fare una cosa per te. Ho sempre voluto ringraziarti e non ho mai saputo come. Chiedimi ciò che vuoi, e io te lo darò.»
«Come se un umano come te potesse mai offrire qualcosa al druido più antico e potente del Regno» commentò Hildebrand, freddo.
«Taci, Hilde» sibilò Solomon.
«Mia signora, io non so nulla di quello di cui queste persone stanno parlando» si inserì Sigga. «Ma sapere che credete nelle nostre buone intenzioni e ci accettate nel vostro rifugio mi basta. Vi ringrazio per averci accolto qui.»
«Chiamami pure Ingerid, ragazza mia. E non temete, figli di Henry, dei vostri servizi potremo fare buon uso» concluse. Si rivolse agli altri druidi che aspettavano comandi in silenzio. «Hildebrand, Dameta, allestite una stanza per i nostri ospiti. È tardi, anche loro a breve avranno bisogno di dormire.»
«E dove dovremmo allestirla? Tutte le stanze sono occupate e io non dividerò il letto con un umano» protestò il ragazzo.
«Come se qualcuno di noi volesse dividere il letto con te!» fece eco Sigga.
Fu Solomon a sedare la discussione. «Prenderanno la mia camera, non ho bisogno di dormire.»
Ingerid annuì. «Così sia» disse, e con uno sguardo congedò i due, che si defilarono oltre un arco in pietra.
«Venite, ora, non è bene parlare all'ingresso. Risponderò alle vostre domande. Anche tu, Solomon. Noi due abbiamo ancora tanto da dirci» sibilò, scoccando a suo figlio un'occhiata gelida. Everard si chiese come facesse il ragazzo a non scappare a gambe levate davanti a una minaccia del genere. Quella donna sembrava tanto gentile quanto spaventosa, e una sua occhiata poteva davvero uccidere, Everard ne era stato testimone anni prima.
Ingerid si incamminò verso il portone da cui era venuta, e i tre ragazzi la seguirono. Percorsero un corridoio stretto e lungo, illuminato a giorno da file di torce ardenti che ballarono al loro passaggio. Solomon allungò la mano verso il muro e alcune fiammelle gli si allungarono contro come per salutarlo, sfiorandogli la punta delle dita.
Attraversarono un arco in pietra al termine del corridoio, e si ritrovarono in una stanza dall'aspetto bizzarro.
Il soffitto era alto e in legno bruno, le pareti coperte di edera in fiore, petali giallastri tappezzavano la pietra grigia, anche se non era stagione; il pavimento era quasi del tutto coperto di arbusti di erica come un tappeto violaceo dai ricami intricati e meravigliosi; in fondo alla Sala si stagliava un seggio granitico su cui Ingerid si sedette, rivolgendo poi ai ragazzi uno sguardo rassicurante. Sulla spalliera, in alto sopra la sua testa, erano incisi gli stessi strani simboli dell'ingresso nello stesso alfabeto incomprensibile. I fiori nella stanza emanavano un profumo intenso quasi stordente, eppure piacevole.
«Vi ascolto» disse, con un cenno del capo.
Solomon guardò Everard e Sigga, attese che qualcuno di loro parlasse per primo, poi si arrese all'evidenza che non sarebbe accaduto. «Il bambino che Everard ha visto in sogno, quello che è fuggito tanti anni fa, è il principe Richard? Tu lo sapevi?»
La donna annuì. «Sì, quel bambino è Richard, figlio di George. È sopravvissuto alla Notte delle Fiamme e sì, io l'ho sempre saputo.»
Everard sentì il sangue nelle sue vene che si congelava. Il principe ereditario era vivo, Re Jasper non aveva diritto al trono. Sentire che le supposizioni di quella mattina non solo avevano un senso di verità ma erano ormai confermate gli fece stringere lo stomaco.
Il legittimo erede era vivo, vivo davvero. La posizione del Re era a rischio come non era mai stata prima. Si sentì avvolgere da un senso di panico e uno di euforia, che lottarono in lui come bestie affamate.
«Perché non dirlo prima? Perché aspettare tutto questo tempo? Questo significa che la profezia non si è ancora avverata? Che potrebbe non voler dire quello che pensavamo?» incalzò il druido, il suo tono basso e concitato.
«I tempi non sono mai stati maturi come ora. Il popolo era spaventato dall'esercito del Re e traumatizzato dal ricordo della Notte delle Fiamme, Richard era giovane, non poteva esercitare la forza necessaria. A inizio di quest'anno il principe ha compiuto la maggiore età e il paese ha raggiunto il punto di rottura, un'informazione come questa basterà a infiammarlo. Per questo il sogno è tornato, ho usato l'umano come il pozzo sacro, ha scandito il tempo della nostra attesa. Sapevo che quando fosse arrivato il momento il messaggio sarebbe venuto fuori e in qualche modo arrivato a me» rispose lei paziente, poi alzò le spalle. «Per quanto riguarda la profezia, sai bene quanto me che non c'è modo di sapere a cosa si riferisca. Il sangue non è ancora stato versato, quindi la sentenza di morte può riferirsi a uno tanto quanto all'altro. Tutto quello che sappiamo è che la profezia dice la verità, quello che questa verità significa non posso garantirlo.»
«Perché Everard?» chiese Sigga. «Perché noi?»
«Ho usato tuo fratello perché quando l'ho incontrato ho capito che sarebbe sopravvissuto abbastanza a lungo da restituirmi il messaggio. L'ho saputo appena l'ho visto, è per via di come ti guarda. Avrebbe lottato per te, e si sarebbe tenuto in vita per questo. Era la persona che tra tutte quel giorno aveva meno possibilità di morire.»
Everard si affrettò a distogliere l'attenzione da sé. «Ora che facciamo? Troviamo Richard? Ci stanno cercando tutti.»
«Useremo la magia per rintracciare il principe non appena i tempi saranno maturi. Sino a quel momento potrete restare con noi. Quando sarà dei nostri, inizierà a essere tutto più chiaro.»
«E se lui non volesse saperne?» domandò Solomon. «Insomma, è rimasto nascosto tutto questo tempo...»
«Dovremo fare in modo che ci ascolti. È imperativo farlo.»
Detto ciò, tacque.
Solomon parve interpretare il silenzio come un congedo, perché intimò: «Venite, vi mostro la stanza.»
Note autrice
Abbiamo finalmente conosciuto Hildebrand, Dameta e Ingerid, i restanti druidi del rifugio! Come li avete trovati? Tutti loro avranno la loro importanza nella storia, qualcuno la influenzerà anche in modo pesante... spero vi piacciano!
Everard e Sigga hanno persino ricevuto qualche risposta, anche se le cose sono ancora poco chiare.
Riusciranno a trovare il principe e convincerlo a reclamare il Regno?
Per ora, almeno, potranno contare su un tetto solido sulla testa per la notte (miracolo!).
A venerdì per l'ultima parte di questo capitolo!
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