12.2 // La Bugia
Everard aveva insistito per invitare i druidi a unirsi a loro solo perché era preoccupato per Solomon, ma la loro presenza fu ciò che li mandò avanti.
La loro presenza e gli incantesimi del suo pugnale, che gli permetteva di pensare un po' più agli altri e meno a sé stesso.
Avrebbe voluto essere ovunque. Accanto a Richard, altrimenti sarebbe stato tutto inutile; con Solomon, per evitare che qualcuno lo colpisse; al fianco di Frederick, per essere sicuro che stesse bene; non poteva. Doveva fare una scelta, così strinse la mano di Sigga più forte, quella che l'aveva mandato avanti quando era piccolo e solo, perché lei era stata più piccola e più sola di lui.
Era irrazionale, eppure così semplice per lui: se fosse riuscito a tenere Sigga al sicuro, allora avrebbe potuto davvero sperare di salvare il Regno. Altrimenti, tutto sarebbe bruciato tra le fiamme.
Fu proprio lei a venire spinta contro il suo fianco, nella mischia che ruggiva. Incespicò nelle sue gambe ed Everard la sostenne.
Il castello invaso veniva smantellato, ogni suppellettile dal più al meno prezioso spariva, e tutto ciò che poteva venire strappato o divelto finiva sul pavimento in pezzi.
Everard aveva visto il luccicare del sangue ma non voleva badarci, non era il momento. Forse le poche guardie presenti erano riuscite ad abbattere qualcuno, forse erano loro a essere state abbattute, forse qualche dipendente al castello aveva pagato per una pena che non aveva commesso. Non importava, importava solo che per poco sarebbero stati ancora in vantaggio, e loro avrebbero usato quel poco per arrivare al Re.
I corni d'allarme intonarono la nota lunga e continua della chiamata all'azione.
Poco era appena diventato pochissimo.
«Stai bene?» Sigga gli aveva stretto la mano in una morsa mentre avanzavano. «Devi calmarti, ci servi lucido.»
Sbuffò aria dalle narici in un gesto di stizza. «Non posso permettermi di calmarmi.»
No, non poteva. Non ci riusciva, certo, ma neanche poteva. C'erano cose da fare e decisioni da prendere in fretta. Doveva stare attento a tutti, a tutto, e restare in grado di ragionare.
La calma era un lusso che non gli sarebbe appartenuto per un bel po', o forse addirittura mai più.
Un uomo in divisa, lo stemma reale appuntato al petto, si diresse nella loro direzione a gran passi, disarmato. Everard sentì i muscoli fremere. Qualunque cosa avesse avuto in mente, non sarebbe arrivato a nessuno di loro senza passare prima da lui.
Il soldato però li ignorò, li superò senza neanche rallentare né degnarli di uno sguardo. Arrivò a una linea di fuoco accesa da un figlio di Tanvar e ci si buttò, non emise fiato neanche quando venne avvolto e divorato dalle fiamme.
Everard fece una smorfia, sentì la pelle rizzarsi alla vista di quel gesto suicida, tanto che fu scosso da un tremito. Sentì Clarice imprecare tra i denti.
«È Astrid» commentò piatto Solomon, «succederà ancora, voi non guardate.»
Accogliere il consiglio sembrò una scelta saggia, così spostò gli occhi davanti a sé. Seguì Richard, che avanzava deciso verso le stanze più interne. Le fiamme cominciavano a divampare un po' troppo fuori controllo, ci avrebbe pensato più tardi. Col suo pugnale non gli avrebbero fatto del male, e avrebbe pensato a difendere gli altri all'occorrenza.
Poco prima di arrivare alla fine del salone principale, Richard si piantò. Everard sentì il sibilo di qualche scheggia che lo sfiorava, partita da del mobilio che era appena stato fracassato sulla sinistra.
Hildebrand boccheggiava già per lo sforzo. Everard ricordò solo allora la sua età. Quindici anni, per tutti gli dèi. Non avrebbe dovuto essere lì.
«Che ti prende? Da che parte andiamo?»
Il principe titubò. «Io... non lo so.»
«Che significa "non lo so"?» sbottò Frederick, «è casa tua questa oppure no?»
«Ci sono due vie» rispose, pareva un poco più convinto di un attimo prima. «Ho il vago ricordo che una sia stata chiusa, ma non riesco a ricordare quale. Non credo faremo in tempo a raggiungerle entrambe. Stanno arrivando.»
La terra tremò e una porzione del soffitto si schiantò sul pavimento in pietra, spaccandolo, proprio sopra un tale con, tra le mani, delle cesoie da giardinaggio. Nessuno intorno a lui parve curarsi dell'accaduto, si limitarono a saltarlo per non inciampare.
Che cosa stavano diventando?
No, quella follia doveva finire al più presto, doveva prendere la situazione in mano subito.
Everard lasciò la mano di sua sorella solo il tempo di afferrare Richard per le spalle e strattonarselo davanti. «Pensi di riuscire a ricordarlo in fretta?» lo interrogò, con voce ferma. «Rispondi. Pensi davvero di riuscire a ricordarlo in un tempo sufficiente? Altrimenti sceglierò una delle opzioni a caso, e lo farò adesso. Se ormai il ricordo l'hai perso, non ha senso continuare a cercare. Proviamo a tentativi il più in fretta possibile per guadagnare tempo.»
Il pensiero che Jasper potesse avere occasione di scappare e costringerli a stanarlo un'altra volta lo faceva diventare matto, ma ancora di più lo preoccupava la durata dei segni che i druidi avevano sulla pelle. Solomon gli aveva giurato che di avere tempo a sufficienza, ma il pensiero che potesse diventare indifeso da un momento all'altro aveva iniziato a pungolarlo e si sentiva a un passo brevissimo dall'andare nel panico.
Richard sbatté le palpebre, lo mise a fuoco e inspirò un poco d'aria dalle labbra schiuse. «Io...»
Everard strinse la presa sulle sue spalle. «Destra o sinistra, è semplice. Altrimenti decido io una volta per tutte e non ci guardiamo più indietro.»
Sentì un singulto di Sigga, ma non ci badò. Doveva tenere lo sguardo su Richard, era importante. Andava presa una decisione in quel momento, o sarebbe stato tardi.
Lui sembrò sul punto di parlare, quando si sentì chiamare.
«Riri, ti prego. È importante.»
Si voltò, per dire a Frederick che non era proprio ora di distrarlo, quando lo sguardo gli cadde su sua sorella. Stava indicando un punto vicino al soffitto, gli occhi che brillavano.
«Né destra né sinistra, ma sopra la testa» recitò, un angolo delle labbra appena curvato da un sorriso. «Il mio biglietto dell'Oracolo. Riesci a vederlo?»
Sul muro davanti a loro, appena sotto il soffitto, stava una fessura di poco più di cinquanta centimetri di altezza e quello che sembrava un metro di larghezza. Una persona ci sarebbe potuta passare solo sdraiata, strisciando sulla pancia, ma era abbastanza grande da farli passare.
«Sì» esclamò Richard, «me lo ricordo! È stretto per qualche metro, poi sbocca su un corridoio. Sale sino agli alloggi reali.»
«Perfetto!» esclamò Everard, con una vigorosa pacca sulla spalla di Sigga e un bacio di ringraziamento sulla tempia.
«Perfetto, se non fosse che non siamo dei giganti e non c'è modo di arrivarci» commentò Hildebrand.
Il tetto era piuttosto alto, e non si vedevano particolari appigli oltre le pietre poco sporgenti del muro. Everard ponderò l'eventualità di arrampicarsi, ma anche se ci fosse riuscito, non avrebbe potuto portare Richard con sé. L'unico in grado di uccidere Jasper era lui, non avrebbe potuto lasciarlo indietro.
Dopo un attimo di smarrimento in cui cercò con gli occhi una strada percorribile, si accorse che nessuno sembrava guardare nella loro direzione, amici come nemici. Notò che Dameta teneva gli occhi serrati e una mano al petto, con l'altra in quella di Hildebrand, per sorreggersi. Doveva averli oscurati dalla rivolta.
Richard si strinse nelle spalle. «È fatto così perché la famiglia reale possa uscirne per scappare, si può scendere ma non salire. Le scale sono arrotolate nel cunicolo, pronte da buttare giù. A meno che non possiate tirarle giù con la magia... potete farlo, no?»
«Se non le vediamo non possiamo spostarle, non così lontano. Non siamo tanto precisi» spiegò Solomon. «Se non ci sono altre scale più accessibili non possiamo passare da lì.»
Everard prese fiato. «Ci passiamo, invece. Ve la tiro giù io. Freddie, dammi una mano a salire.»
«Te lo scordi» sbuffò l'amico, oltraggiato, «se cadi da lì ti spezzi il collo, non ti aiuto a salirci. Faremo un tentativo a caso, come hai detto prima.»
Everard scosse la testa. Non aveva tempo per discutere, avrebbe usato qualcun altro con abbastanza forza da sollevarlo ma che tenesse meno alla sua sicurezza. «Richard, vieni qui.»
«Ti spiaccicherai!» protestò Sigga, balzando in avanti.
«L'Oracolo dice che dobbiamo passare dall'alto e passeremo dall'alto» sbuffò, poi le consegnò in mano il pugnale perché glielo reggesse, avrebbe avuto bisogno di entrambe le mani, per scalare. Guardò verso Solomon e Hildebrand. «Copritemi le spalle.»
Il secondo annuì, mentre Solomon lo osservò con il volto adombrato dal dubbio. Forse era scettico riguardo alle sue abilità da scalatore, Everard non si sentì di biasimarlo. Del resto, non gli aveva dato prova di essere bravo... beh, in niente, da quando si erano conosciuti.
Per sua fortuna, almeno in quello andava forte.
Richard si abbassò offrendogli un appoggio per lo slancio iniziale. Everard prese un lungo respiro e afferrò la pietra più sporgente a portata, si diede una spinta con le gambe aiutato dal supporto del compagno. Sentì Clarice imprecare e un rumore metallico, ma non guardò giù.
Come fu del tutto aggrappato al muro, iniziò a essere meno convinto.
Certo, l'Oracolo aveva detto di passare dall'alto, ma non era affatto garantito che intendesse proprio quel passaggio, e non c'era acqua ad attenderlo sotto di sé, quella volta. Non sarebbe morto, era alto ma non così tanto, ma i druidi non avrebbero potuto sprecare magia per curarlo, e sarebbe rimasto ad agonizzare sino all'arrivo delle guardie che l'avrebbero come minimo ammazzato sul posto.
Si fece forza e cominciò a salire. Doveva tenere duro perché era importante. Quando era fuggito dal castello per buttarsi nel fiume, appena un po' di tempo prima, aveva avuto da salvare solo sé stesso.
Quella volta era diverso.
Qualcosa che sembrava emettere scintille gli rimbalzò accanto e lui sobbalzò, perdendo la presa per un attimo con la mano sinistra. Il cuore gli si fermò nel petto e il terrore gli mozzò il fiato, poi riprese il controllo, riafferrando una sporgenza nella parete.
«Che avevo detto sul coprirmi le spalle?» gridò verso i piani bassi, il cuore che gli schizzava nel petto, gli occhi chiusi per un istante nel tentativo di controllare il respiro.
«Scusa» gridò Hildebrand di rimando, «colpa mia!»
Si concentrò sui suoi progetti a breve e lungo termine, fare piani aiutava a calmarlo. Tastava il muro in un gesto meccanico, i muscoli delle braccia e delle gambe che iniziavano a fare male. Li ignorò.
Dunque, i piani.
Arrivare in cima senza morire, portare Richard ancora intero da Jasper, assicurarsi che Solomon non esaurisse l'energia prima del tempo, fare in modo che l'usurpatore morisse, dare un bacio in fronte a sua sorella per l'ottimo lavoro di non essere morta, collassare sul letto col suo fidanzato druido che aveva appena ucciso tre persone in un gesto che non avrebbe dovuto eccitarlo, ma che forse l'aveva fatto.
Del resto, se era stato pazzesco non era mica colpa sua.
Beh, insomma, pensato così gli sembrava un piano coi fiocchi.
La sua mano si infilò nell'apertura scavata nella pietra, e con un ultimo sforzo si issò al sicuro in quel budello soffocante.
«Ah!» esclamò, vittorioso. Individuò subito la scala di corda arrotolata in un angolo e fissata alla parete da due ganci. Non poteva voltarsi, non c'era abbastanza spazio, così la buttò dietro con un calcio e iniziò strisciare in avanti.
Sentì gli altri seguirlo, voci, imprecazioni e la voce entusiasta di Frederick che gli urlava qualcosa da sotto, forse complimenti.
Non aveva senso aspettarli, la strada poteva andare solo in un senso, così proseguì. Il cunicolo era buio e stretto, e non passò molto prima che iniziasse a sentire un peso che gli schiacciava il petto. Avvertì che alcuni degli altri erano arrivati in cima e avevano iniziato a seguirlo ma non riusciva a capire chi, le orecchie gli ronzavano. Lo spazio chiuso gli dava alla testa.
Si figurò nella testa immagini del basso soffitto che crollava sopra di lui, della sensazione di restare lì immobile, con le ossa rotte, in attesa che finisse l'ossigeno. Quel cunicolo sembrava una tomba, magari sarebbe diventato la sua.
Il suo respiro si fece irregolare e boccheggiò, punti di luce scarlatta che danzarono davanti alla sua visuale. Fu costretto a fermarsi per un attimo, la forza nelle gambe gli era mancata, formicolavano.
No, no, no. Non poteva permetterlo. Era lui in testa al gruppo, se si fosse fermato sarebbero rimasti tutti intrappolati là sotto.
Persone che amava.
Cazzo. Strinse i denti e raccolse un po' di forza, concentrandola nelle gambe tremanti.
Quel pensiero funzionava sempre, quando accarezzava l'idea di mollare. Era abituato alla sensazione di non farcela più ma dover continuare per qualcun altro.
Tornò con la mente a quando si ritirava stanco nel suo angolo di strada, dopo aver gironzolato a rubare sin dal mattino. Dieci o undici anni, lo stomaco vuoto perché aveva dato a Sigga il poco che era riuscito a sgraffignare, e quando si stendeva dopo ore e la sentiva piangere e chiamare il suo nome, anche se al farlo avrebbe preferito morire, si alzava di nuovo.
La responsabilità di altre vite sulle sue spalle gli avrebbe dato forza là dove gli mancava.
Quando arrivò alla fine del tunnel la strada si aprì in un altrettanto buio ma ben più largo corridoio, dove avrebbe potuto procedere in piedi. Prese una grossa boccata d'aria. Non si alzò, anche se avrebbe potuto, si sentiva debole e avrebbe dovuto aspettare gli altri. Si trascinò all'angolino e sollevò appena la schiena per appoggiarla al muro, in un sospiro. Ascoltò i battiti del cuore impazzito che si andavano calmando, e poco dopo anche gli altri sbucarono dal cunicolo, uno dopo l'altro. Il primo fu Richard.
Il ragazzo non sembrava turbato da quel passaggio minuscolo. A volte gli sembrava così assurdo che gli spazi stretti non avessero tanto effetto sugli altri.
Il principe gli sorrise, non era da lui mostrarsi amichevole in quel modo. «Sono davvero contento che ci sei» commentò, Everard si accigliò.
Una figura spuntò alle sue spalle e lo spintonò da un lato. «Non ci allarghiamo con le confidenze» sibilò Frederick, i cui occhi lo cercarono. «Stai bene?»
Restò a qualche passo da lui, sapeva del suo terrore, e anche che stargli addosso avrebbe solo peggiorato le cose.
Lui annuì, per rassicurarlo. Non mentiva, il corridoio più largo e la presenza dei compagni gli era di conforto.
Sbucò anche Sigga, che lo guardò con la stessa attenzione, restando a debita distanza, ma allungò il braccio e gli rese il pugnale. Everard lo accettò in silenzio.
Clarice le stava subito dietro, appena visibile al buio.
Quando Dameta fece capolino la stanza esplose di luce, piccoli globi scintillanti si sparsero intorno a loro come galassie, i disegni dorati sul suo corpo che riflettevano il bagliore facendola splendere. Everard avrebbe apprezzato quella visione molto di più in altre circostanze.
Poi arrivò Solomon, che parve non vedere nessuno se non lui, l'espressione tesa e il corpo rigido; non disse nulla ma fu il primo ad avvicinarsi davvero, forse perché non sapeva ancora del suo bisogno di spazio, ma non gli diede il fastidio che temeva. Fu solo quando gli passò una mano nei capelli e gli studiò il volto per assicurarsi che stesse bene, che le sue spalle si rilassarono.
«Ehi» mormorò Everard, e gli tese la mano. Il druido la strinse e le stampò qualche leggero bacio sul dorso in un gesto affettuoso.
Hildebrand fu l'ultimo a farsi largo nel corridoio, afferrò la mano di Dameta in una presa ferrea e dichiarò: «Ho bruciato la scala. Non ci seguirà nessuno, e Jasper non potrà scappare da qui.»
«E neanche noi» aggiunse Clarice, a mezza voce.
Richard gonfiò il petto. «Noi non scapperemo.»
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«Quanto è lungo questo stupido corridoio?» sbuffò Frederick, dopo qualche minuto di cammino. La strada era in salita e si faceva sempre più ripida, una curva larga appena percettibile, che passava attorno all'edificio.
Richard sbuffò. Era la terza volta che rispondeva a una domanda simile. «Arriva sino in cima, per questo ci vuole un po'. Ci siamo quasi.»
«Chissà come stanno messi gli altri là sotto» borbottò Sigga, pensosa.
Le galassie li seguivano e talvolta cambiavano ordine, danzando e incastrandosi in schemi sempre diversi.
«Stanno benissimo» liquidò Hildebrand, con un gesto secco della mano.
«Certo che stanno benissimo» aggiunse Solomon, la voce calma e misurata che teneva quando tutto iniziava ad andare in pezzi, che forse usava per tenere il controllo.
Aveva ereditato quella voce da sua madre, la stessa donna che ora era giù con gli altri e lui non aveva neanche idea se fosse viva o morta. Per Everard era diverso, tutte le persone di cui gli importava davvero erano lì con lui. Solomon aveva dovuto abbandonare la sua famiglia, per seguirli.
L'unico modo che aveva per aiutarlo era stringere i denti e andare avanti, così si voltò per offrirgli un sorriso solidale, poi tornò con lo sguardo in avanti e camminò più in fretta.
Quando iniziarono a intravedere della luce alla fine del tunnel, le stelle di Dameta si spensero d'un colpo e Richard avanzò in prima linea, il busto dritto ma le spalle tremanti che tradivano la sua agitazione.
Il cunicolo finiva con un ampio tendaggio da cui filtrava la luce di qualche torcia.
Il ragazzo giunse all'uscita e si fermò. «Siamo vicini ai suoi alloggi, avrà una scorta a proteggerlo. Occhi aperti e non separiamoci, questo posto è un labirinto. State sempre con me.»
Dameta mosse la mano aperta come se volesse allontanare dell'aria davanti a sé, e la luce che veniva da fuori si abbassò di intensità. Fece un cenno ai due druidi, che scivolarono in testa al gruppo, guardinghi.
Everard sapeva che non ce n'era motivo, che loro erano quelli più adatti per andare in avanscoperta, ma quando Solomon e Hildebrand sparirono dietro la tenda provò l'impulso di afferrarli e impedir loro di proseguire. Sigga lo sapeva, e per questo gli strinse la mano più forte.
Ci fu silenzio, poi la tenda si riaprì. Il volto di Hildebrand fece capolino, con la zazzera rossa e gli occhi azzurri. «Libero.»
Everard non sentì il sollievo pervaderlo come si sarebbe aspettato, guardò Richard di sottecchi. «Questo mi ricorda troppo l'ultima volta. Non mi piace.»
«L'ultima volta eravamo soli, oggi andrà meglio» gli assicurò, ma dall'espressione non pareva convinto.
Si avventurarono fuori dal passaggio in silenzio, il buio artificiale causato da Dameta quasi totale.
Everard si voltò verso Clarice, che stava aggrappata a Frederick in cerca di supporto.
Solomon e Hilde si avvicinarono alla porta socchiusa della sala in cui si trovavano, e sbirciarono dall'altra parte. Everard sentì Hildebrand imprecare tra sé, Solomon si girò verso di loro e sollevò tre dita in un gesto eloquente.
Richard annuì, mentre Sigga accennava un sorrisino furbo. Su tre soldati si poteva ancora lavorare.
Frederick spalancò la porta con un calcio, mentre Dameta rivolgeva ai tre uomini una luce accecante per stordirli. Hildebrand ne scaraventò uno contro il muro, Solomon mosse due dita e un altro crollò in terra dopo un orribile suono di qualcosa che si frantumava. Richard si sfilò la spada dal fodero ma non fece in tempo ad agire, il pugnale di Everard con un lancio perfetto si era già piantato in mezzo agli occhi dell'ultimo, che si schiantò a terra senza emettere fiato.
Clarice fischiò con ammirazione. Solomon si voltò a guardarlo con un sorrisetto complice, ed Everard gli fece l'occhiolino.
Richard restò in silenzio per un attimo, poi commentò: «Ma che razza di pugnale è? Ne voglio uno anche io.»
Solomon stava ancora guardando Everard, ora sorrideva anche lui. «Mi dispiace, è un pezzo unico.»
La luce di Dameta si spense, ma con un gesto della mano fece sparire le tenebre che aveva creato, permettendo al sole di entrare dalle finestre.
«Siamo vicini» assicurò Richard, deciso, e avanzò scavalcando i corpi con noncuranza.
«Questa l'ho già sentita» borbottò Everard, che non amava nulla di quella situazione. Andò a sfilare il pugnale dal cadavere con una smorfia e se lo pulì sulle vesti. Hildebrand lo guardò con disapprovazione, ma non disse nulla.
Passarono un arco, in fondo al corridoio illuminato si stagliò una porta di legno alta sino al soffitto, dai battenti in bronzo e il motivo di una rosa. Richard trasalì. «È là dentro.»
Non ebbero il tempo di esaltarsi che un sibilo li arrestò. Clarice, rimasta qualche passo indietro, gridò e cadde a terra. Una freccia le spuntava dal polpaccio sinistro.
Frederick imprecò a gran voce. Dameta si inginocchiò accanto a lei, pronta a guarire la ferita.
«No» protestò Clarice, la voce tinta di dolore. «È solo la gamba, non importa. La magia ci serve, conservala. Conservala... oddèistomorendo.»
Everard strattonò Sigga dietro di sé, tenendola per il polso. Un'altra freccia volò contro di loro, ma Hildebrand la deviò con un gesto della mano.
Una decina di guardie, tra cui due arcieri, era spuntata all'inizio del corridoio.
«Dobbiamo andare» sibilò Richard, «Everard è fuggito dalla finestra da quest'altezza, significa che si può fare. È un gesto avventato, ma se si sentirà in trappola lo farà.»
«Resto io a tenerli. Voi andate.»
Solomon afferrò il braccio di suo fratello con entrambe le mani, Everard non l'aveva mai visto perdere la compostezza tanto in fretta. «Non dirlo nemmeno per scherzo.»
Conosceva quel sentimento. Come aveva fatto a non capirlo, anche senza saperlo? Come aveva fatto a non notare prima che era Solomon il fratello più grande tra i due?
«Dameta sarà qui con me» spiegò l'altro, mentre una lingua di fuoco fermava il paesaggio delle guardie. La ragazza annuì, concitata. Un suo gesto, e altre tre copie di entrambi apparvero nel corridoio insieme a loro. «Staremo bene.»
Frederick soppesò la spada che teneva in mano, poi guardò verso Clarice. «Lei non può muoversi. Resterò anche io, posso aiutarli.»
La mano di Everard che stringeva Sigga si serrò in una morsa. No. Non Frederick laggiù con Clarice ferita e con Hildebrand, che avrebbe messo la vita di Dameta e la sua prima di quella di chiunque altro.
No. Pessima idea.
«È deciso, allora» Richard abbassò la testa in segno di assenso.
Everard strizzò forte gli occhi, per schiarirsi la mente, poi li riaprì. Frederick lo stava guardando, e se lui gli avesse chiesto di smetterla con le scemenze, abbandonare là quegli altri e seguirlo, l'amico l'avrebbe fatto.
Ne era certo, non avrebbe neanche avuto bisogno di pregarlo. Ho bisogno di averti vicino, sarebbe bastato questo e Frederick non avrebbe esitato nemmeno un attimo.
Non sarebbe stato giusto, per cui ingoiò il groppo che aveva in gola. «Guardami negli occhi e dimmi che sopravvivi a questa merda.»
Il ragazzo gli sorrise. «Certo che sopravvivo a questa merda, hai ancora bisogno di me.»
Solomon aveva abbracciato Dameta e Hildebrand, e in quel momento baciava lui sulla guancia con una dolcezza inaspettata. Il druido scontroso non lo scacciò come Everard si sarebbe aspettato, anzi, sembrò godersi quella manifestazione di affetto più a lungo di quanto potevano concedersi.
Fu Clarice che li incalzò a continuare, gli occhi lucidi di lacrime dal dolore. «Fate in modo che ne sia valsa la pena.»
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Hildebrand spinse una fiammata che si gonfiò verso i soldati, spingendoli a indietreggiare ancora. All'angolo avanti a sinistra ne apparvero altri tre che, accorsero in direzione i compagni.
«Diventano troppi» mormorò Frederick, e assottigliò lo sguardo. Aveva promesso a Everard che non ci avrebbe lasciato la pelle, e a sé stesso che non avrebbe permesso alle guardie di raggiungerlo.
Non aveva intenzione di tradire nessuno dei due giuramenti, né in quel momento né in un futuro prossimo, ma sapeva a quale avrebbe rinunciato più volentieri, se fosse stato costretto a una scelta.
Sapeva che, se il suo cadavere fosse stata l'unica arma a sua disposizione per proteggerlo, allora sarebbe diventato il cadavere con meno rimpianti del Regno.
«Non passeranno» lo rassicurò Hildebrand. «Non sinché ci sono io, te lo prometto.»
Uno degli uomini fece qualche passo indietro per vedere meglio. Tese l'arco puntando verso di loro, Frederick sentì i muscoli fremere dal bisogno di scappare, ma non l'avrebbe fatto. La guardia fece una smorfia e scostò il braccio, la sua freccia si infranse sul pavimento di pietra in centinaia di schegge affilate. La terra tremò, forse opera di qualche incantesimo ai piani inferiori.
Frederick schiuse le labbra, allarmato. «Perché non ha tirato? Che è successo?»
«Credo l'abbia accecato» spiegò Hildebrand, per poi guardare la compagna per avere conferma. Lei annuì, senza interrompere il contatto visivo con la sua vittima.
Altre due guardie fecero capolino da un arco laterale.
Hildebrand sbuffò un poco d'aria. «Se arrivano tutti qui non potremo trattenerli.»
«Che facciamo?» chiese Clarice, che stava per terra a tenersi la gamba ferita con entrambe le mani.
Frederick raccolse le forze. «Teniamo duro per quanto possiamo e speriamo che gli altri facciano in fretta.»
Con un movimento del braccio di Hildebrand - l'altro ancora impegnato a tenere vivo il fuoco - le armi dei tre soldati in prima fila volarono dall'altro capo del corridoio.
Una freccia inaspettata sibilò nell'aria e si piantò nella fronte di una delle proiezioni di Dameta, che sfarfallò e svanì.
Uno degli uomini si fece coraggio e saltò agile dall'altra parte della linea infuocata. Il suo mantello si infiammò ma questo non bastò a fermarlo. Frederick saltò davanti a Clarice, che non poteva difendersi, e quello preparò un colpo. Oh no, stava già per morire, non aveva mai infranto una promessa tanto in fretta. Everard non avrebbe gradito di certo.
Il colpo non andò a segno, perché la guardia tentò di colpire qualcosa che non c'era, un grido spaventato rivolto a una porzione di corridoio vuoto alla sua sinistra.
Dameta ghignò, doveva avergli provocato un'allucinazione, e per mantenerla le versioni rimaste di lei e Hildebrand erano scomparse. Frederick approfittò della sua distrazione e gli passò la spada che gli avevano consegnato quella mattina nello stomaco. Rabbrividì, non aveva mai ucciso un uomo. Quello vomitò un fiotto di sangue e con una spinta lui gettò il corpo tra le fiamme.
Hildebrand sollevò la fiammata per impedire ad altri di passare e si voltò verso la ragazza, le linee dorate sul suo corpo andavano a sbiadirsi, così quelle cineree sulla pelle del ragazzo. Frederick ritenne che non fosse un buon segno.
«Dobbiamo pensare agli arcieri, loro-»
Hildebrand non finì la frase, perché una freccia lo colpì proprio nella curva tra il collo e la spalla.
Strabuzzò gli occhi senza neanche urlare, barcollò all'indietro e le fiamme che tenevano lontani i soldati si spensero con uno sbuffo di fumo.
Frederick saltò in avanti per impedirgli di cadere e lo prese tra le braccia, sentì Clarice gemere e la vide ripararsi il volto tra le mani in un disperato gesto di difesa.
Un grido che non riconobbe gli trapanò il cervello, una voce musicale mai sentita prima che lo confuse per un attimo. Ci mise un po' a capire che era stata Dameta a urlare, per questo non aveva riconosciuto la sua voce. In realtà aveva sempre pensato che non ne fosse in grado.
Le fiamme si erano estinte, ma nessuno dei soldati si avvicinò. La ragazza aveva stretto le mani a pugno, sino a sbiancare le nocche già pallide, e le guardie si erano gettate a terra, contorte dal dolore, poi le finestre del piano erano esplose tutte nello stesso momento, investendoli di cocci di vetro.
«Ottar misericordioso» invocò Clarice. «Che cazzo era quello?»
Hildebrand era parso recuperare colore in viso e riuscì a separarsi dalla sua stretta. Non era caduto, anche se pareva tremare, e a guardarla bene la freccia sembrava più piantata verso la spalla che il collo. Mugolò un verso sofferente, con una smorfia che gli deformò l'espressione, ma parve aver retto il colpo.
«Ultrasuoni?» domandò, con un filo di voce. «Non l'avevi mai fatto.»
Lei non rispose, lo scrutò con gli occhi dorati attenti e ansiosi e gli prese il volto tra le mani, tirandolo a sé.
«È solo la spalla, nulla di grave» la rassicurò lui. «Starò benissimo.»
Per dimostrare che diceva sul serio mosse il palmo della mano verso l'alto e la fiammata si alzò di nuovo, poi si piegò in avanti e la baciò.
Frederick spalancò gli occhi, sbigottito, e si voltò per non guardare. Stavano per morire tutti, quello che provava non aveva alcun senso, eppure sentì le spire dell'invidia strizzargli lo stomaco in una morsa.
Non poteva farci niente, solo vedere qualcuno amare ed essere amato a sua volta lo stordiva dal dolore e dall'impotenza per tutto quello che aveva perso.
«Toglimi questa cazzo di freccia e facciamo un po' di casino» ringhiò Hildebrand, e solo allora capì che poteva tornare a guardare.
Il druido si era davvero liberato della freccia, e stava passando le mani sulla ferita forse per arrestare l'emorragia.
«Beh, poteva andare peggio» commentò Frederick, a mezza voce, poi tutto cambiò.
Clarice alzò gli occhi verso di lui, le labbra strette e lo sguardo atterrito. «Lo senti anche tu?»
I rumori dello scontro ai piani inferiori si erano fatti più forti, come se il numero di persone fosse aumentato e la rivolta si fosse fatta più violenta.
Delle voci si avvicinarono numerose, concitate e che si scavalcavano, Frederick cercò di concentrarsi su cosa stessero dicendo ma non riusciva a capire le parole. «Che succede?» chiese, il cuore in gola.
«Non lo so» soffiò Hildebrand, cercò la mano della compagna per farsi forza e la strinse. «Ma qualunque cosa sia, non possiamo lasciarli passare.»
Note autrice
Bene, lo scontro imperversa!
Alzi la mano chi si aspettava il pov di Frederick? Nessuno?
Beh, in effetti io non ve l'ho detto, eheh. Che ve ne pare? Vi sta simpatico? Devo dire che, per essere quello che in teoria fa un pochino da "terzo incomodo", sinora nessuno me l'ha odiato. Del resto, sta nel suo e non si è mai messo tra Everard e Solomon. Si mangia il fegato in silenzio e per i fatti suoi, lol.
Mi fa piacere perché a me piace tanto, e non lo ritengo in nessun modo un personaggio negativo.
Nel prossimo aggiornamento, scopriremo se finalmente il nostro quartetto più importante - Everard, Solomon, Sigga, Richard - è riuscito a mettere le mani su Jasper e magari anche ad ammazzarlo.
Non sarebbe male, vero?
Ma chi è che si avvicina di gran carriera pronto a scombinare tutte le parti? Un bel colpo di scena, che domande, che sono sicura che non vi aspettate ma che qualcuno di voi gradirà parecchio!
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