12.1 // La Bugia
Era appena prima dell'alba, e il chiarore del sole non aveva neanche cominciato a filtrare tra le fronde degli alberi.
La congreghe dei nomadi e i druidi di Boireann erano giunti al rifugio, gli uomini in città erano stati radunati, e Ingerid aveva determinato fosse ora di agire.
Everard si trovava nella stanza di Solomon, seduto sul suo letto a gambe incrociate. Quella notte, il druido non aveva dormito nella stanza comune insieme ai ragazzi. Aveva chiesto a Everard il pugnale, e si era ritirato in camera sua sino al mattino.
Fu proprio il pugnale che Solomon raccolse dalla cassa accanto al letto e che studiò, gli occhi verdi attenti e concentrati. Lo controllò come se cercasse qualcosa che non andava con lo sguardo, anche se, da quella distanza, a Everard sembrò avere un aspetto del tutto normale.
Approfittò del fatto che non lo stesse guardando e lo osservò con calma. Era coperto di cenere, segni e simboli che per lui erano privi di significato. Una vecchia pratica dei druidi che andavano in guerra, o almeno così gli era stato riferito.
Il disegno nero sulla pelle bianca era un ricamo fittissimo che sembrava uno schizzo di carbone sulla carta, e accompagnava l'occhio lungo le linee sinuose del suo volto sino al collo.
Passarono diversi secondi prima che si accorgesse che Solomon aveva smesso di trafficare col suo coltello e lo stava fissando anche lui. Quando lo realizzò, si riscosse. «Che c'è?»
Il druido gli porse il pugnale per restituirlo. «Non mi chiedi cosa ci ho fatto?»
In effetti non glielo aveva mai chiesto, neanche nel momento in cui era stato preso in prestito. Non erano tante le persone a cui avrebbe affidato il suo pugnale. Sigga era di certo una di queste, per esempio, e Clarice anche, se le fosse servito. Dameta e Hildebrand ormai facevano parte della cerchia a cui avrebbe potuto affidarlo, qualcuno della vecchia banda... non più di una decina di persone al mondo.
A solo due di loro a l'avrebbe consegnato senza neanche il bisogno di chiedere spiegazioni sul perché, e una di queste era Solomon.
«Cosa ci hai fatto?»
Il druido sorrise, e si drizzò tutto fiero. «Altri incantesimi di protezione, ovvio.»
«Ma-»
«Ne ha uno stupendo di respingimento per dardi e frecce, tanto per cominciare. Se lo tieni in mano puoi vedere attraverso gli incantesimi illusori, almeno quelli più elementari. Se scoppierà un incendio - meglio: quando scoppierà un incendio - le fiamme non potranno bruciarti. Tienilo in mano, e sarai al sicuro.»
Everard si massaggiò le tempie, con una smorfia contrariata. «Scommetto che stanotte non hai dormito perché eri impegnato in questo, vero? Non devi sprecare la tua magia per me, Solomon. Ti sarà utile, devi essere in forze.»
Lui sollevò le sopracciglia in una smorfia oltraggiata. «Non la sto sprecando. Non potrei usarla per niente di meglio. E comunque la magia delle armi è quella più affine a me, non mi stanca.»
Everard incrociò le braccia, scettico. «Interessante. Se non ti stanca perché non l'hai fatto con le armi di tutti?»
Il druido tacque per qualche istante, colto in fallo. Everard sospirò. «Tu sai quando mento, è ingiusto. Non dovresti dirmi bugie.»
«Non lo è. Non è una bugia. Cioè, mi toglie un po' di energia, e poi è vero che sono rimasto sveglio-»
«Solomon.»
«Ma solo un pochino!» si affrettò ad aggiungere. «Se lo facessi a tutti mi stancherei, ma quando lo faccio solo una volta non lo sento neanche. E pure se mi stancasse, per te lo farei comunque. E poi ormai l'ho fatto, devi prenderlo per forza. Rifiutarlo non avrebbe alcun senso.»
Il ragazzo ponderò quelle obiezioni per qualche istante, poi accettò con riluttanza l'arma che gli era stata offerta. «Non dovresti farlo, però» sbuffò. «Dovresti usare la tua magia per te.»
«La mia magia è ancora bella in forze, mentre ti ho visto con la spada e - senza offesa - credo che un po' di aiuto ti sarà di certo utile.»
«Ah, grazie mille» borbottò, imbronciato. «Questo sì che mi rassicura.»
«Senti» il tono giocoso di Solomon si sfreddò, «non posso permettermi di rischiare oggi. Tu porta il pugnale con te e staremo tutti più tranquilli. Che male può fare una precauzione in più?»
«Perché ho la netta sensazione che mi stia nascondendo qualcosa?»
Solomon trattenne il fiato per un attimo. «Sto solo cercando di fare la mia parte perché resti al sicuro.»
Sospirò, in un gesto di resa. «Starò attento, promesso, e dovrai stare attento anche tu. Andiamo in guerra, sapevamo che sarebbe successo.»
«Non per offenderti, ma avevo almeno la debole speranza che le tue abilità con la spada sarebbero migliorate un minimo...»
«Allora ci tieni proprio a infierire!» si lamentò, più infastidito dal fatto che avesse ragione che dal resto.
«Scusa, ma hai detto tu di essere sincero» rispose. Gli offrì un sorriso divertito ed Everard proprio non riuscì a non ricambiare.
Come si poteva restare arrabbiati davanti a un faccino del genere? Solomon era così... piccolo. E dolce. Ottar, gli tirava fuori tutto il suo istinto di protezione, e lui aveva cresciuto una bimba da solo, dunque ne aveva da vendere.
Quegli occhioni rischiavano sul serio di trasformarlo in una bestia. Sapeva benissimo che il druido avrebbe potuto polverizzarlo con uno schiocco di dita e che al massimo era Solomon che avrebbe potuto proteggere lui, non il contrario, ma solo guardarlo gli dava alla testa.
Aveva esagerato con Edmund giusto un pelino, solo perché aveva avuto l'audacia di prenderlo in giro, ed era abbastanza certo che vederlo in mezzo a una mischia in battaglia gli avrebbe insegnato a usare le armi meglio di qualunque lezione di scherma.
Gli tese la mano e Solomon l'afferrò, così lo tirò verso di sé e ne osservò il dorso, aveva gli stessi segni cinerei del volto, le curve, spirali, saette che formavano un motivo che appariva casuale, ma che non poteva esserlo.
«Sì, lo so, sembro cascato in un camino, e puzzo pure di brace. Prendimi in giro, avanti, io con te l'ho fatto. Me lo merito.»
Everard scosse la testa. Lui non era un grande oratore, non riteneva di avere talento nell'esprimersi a parole, non poteva offrire altro se non i suoi pensieri senza filtri, proprio come gli uscivano dal cuore.
Così lo fece.
«Sembri uno dei tuoi disegni» mormorò. «Sei splendido, nient'altro.»
Solomon spalancò gli occhi e scosse la testa un po' troppo forte. Iniziò a colorarsi di rosso, Everard aveva imparato che significava che era in imbarazzo. «Ma... ma dai!» balbettò, aveva distolto lo sguardo.
«Che c'è? Se stessi mentendo lo sapresti. Parlo sul serio.»
«È vero» concesse, in un sussurro. Lo vide accennare un sorrisino e poi tentare di soffocarlo con un altro gesto secco del capo. «C'è qualcosa che dovresti sapere, riguardo ai segni.» Sollevò una mano per mostrarli meglio, e quando la manica della tunica si abbassò, Everard notò che anche il braccio era coperto di strisce nerastre.
Forse non era il momento giusto di chiedersi se il corpo di Solomon fosse decorato in quel modo proprio dappertutto, ma se lo chiese comunque. E gli avrebbe anche sfilato la tunica per controllare di persona, magari.
Però no, non era proprio proprio proprio il momento. Purtroppo.
«Cosa dovrei sapere?»
«Sono i segni di guerra dei druidi, te l'ho detto. Questa è cenere perché sono un figlio di Tanvar, ma ogni classe usa un materiale diverso. Sono segno di buon auspicio, ma aiutano anche a concentrare l'energia. Questo significa che i miei poteri guadagneranno in forza, ma anche che si esauriranno più in fretta.»
«Puoi esaurirli?»
Solomon inclinò il capo. «Sì... e no. Non posso perdere l'uso della magia, ma posso essere troppo stanco per usarla. Così come tu non perdi la capacità di correre, ma non puoi farlo per un giorno intero senza fermarti. È la stessa cosa.»
Everard si morse il labbro. Quella frase non gli piaceva affatto. «Farà male?»
«No. Sarò solo esausto, e i miei poteri svaniranno per un po'. Niente di grave. Potrei svenire, però. Volevo avvisarti perché rischi di allarmarti per nulla.»
«Svenire» ripeté Everard, piatto. «Perfetto quando ti trovi in mezzo a un campo di battaglia. E hai anche usato qualche incantesimo per il mio pugnale!»
«Beh, l'ideale sarebbe esaurirmi dopo che la battaglia è finita.»
Il ragazzo affilò lo sguardo. «Sarà meglio per te.»
Dèi misericordiosi, se avesse visto Solomon perdere i sensi nella mischia gli sarebbe venuto un infarto come minimo. Adesso sì che aveva qualcosa di cui preoccuparsi.
Proprio quello che gli ci voleva, l'ennesimo motivo per essere nervoso.
Solomon sorrise, nel tentativo di tranquillizzarlo. «Ibis redibis non morieris in bello, come ogni volta.»
«Non mi piace.»
Solomon si allungò verso di lui. «Non piace a nessuno, temo. Perché non vieni un po' qui con me?»
E chi era lui per tirarsi indietro?
🔥🔥🔥
Uscirono dal Rifugio che ormai avrebbe dovuto essere l'alba, ma era ancora buio pesto. Solomon gli aveva spiegato perché: avrebbero avuto bisogno del favore del buio, così lui e Hildebrand, insieme a una nomade figlia di Tanvar, avevano annuvolato il cielo per evitare di passare alla luce del giorno.
Everard passò il braccio intorno alle spalle di Sigga. Non sembrava terrorizzata neanche la metà di quanto opportuno, ma aveva perso la solita baldanza e aveva l'aria turbata.
Lei si sporse e gli stampò un bacio sulla guancia. «Non perdiamoci di vista.»
«Mai» la rassicurò Everard, «qualunque cosa accada.»
Dameta, la donna di Beltann, e un druido anziano con il marchio di Sunnar erano in testa al gruppo, la pelle scintillante di polvere d'oro, li avrebbero celati a occhi indiscreti. Ingerid e Astrid erano appena alle loro spalle, e gli altri druidi al seguito. Gli umani che avevano vissuto al rifugio erano in coda, stretti intorno a Richard che era scuro in volto.
Intorno a loro si diffuse una densa nebbia lattiginosa, la magia illusoria si espanse e li inglobò.
Quando uscirono dal fitto degli alberi e giunsero presso le mura cittadine, la nebbia li seguì. Le nuvole si accumulavano in una patina spessa che oscurava il sole tanto da sembrare ancora notte fonda, proprio come Solomon aveva detto.
Mancavano ancora mesi alla stagione delle pioggie, chi si fosse affacciato sulla strada avrebbe pensato che non fosse ancora tempo di alzarsi dal letto.
Entrarono in città facendo saltare la porta sud, Dameta teneva i pugni chiusi, stretti contro il suo petto per ingabbiare il suono.
La nebbia si diffuse per le stradine scorrendo come acqua. Incontrarono un soldato di ronda, ma nel momento in cui notò la nebbia che serpeggiava, il suo sguardo divenne un buco nero e crollò in terra senza neanche avere il tempo di schiudere le labbra.
Aveva già visto prima quell'incantesimo, a opera di Ingerid quindici anni prima. Magia di Ingar, quella più pura da usare per terminare una vita.
«Sono molto felice che siamo dalla stessa parte» mormorò Frederick. Everard sentì il mugolio di assenso di Andrew, il figlio di Annabelle. «Sono piuttosto terrificanti, a vederli.»
«Già, e pensi che saremo dalla stessa parte anche quando tutto questo sarà finito?» rispose Richard.
Evrard lo guardò di sottecchi. Quella frase non prometteva niente di buono. Se credeva di potersi fare aiutare dai druidi a riprendersi il trono e poi voltare loro le spalle, beh, era un illuso.
«Dove sono tutti gli uomini di cui parlava George?» si inserì Clarice, che stava aggrappata a Sigga con entrambe le braccia.
«Nella nebbia» rispose Everard. Se avesse usato il suo pugnale avrebbe potuto vederli, ma non lo fece. Prenderlo in mano avrebbe reso tutto più reale, e preferiva rimandare il momento. «Noi non li vediamo e loro non vedono noi. Aspettano il segnale.»
Molti di loro avrebbero assaltato il castello, ma alcuni sarebbero rimasti indietro e avrebbero bloccato le porte della guardia per poi darle fuoco, per evitare che i soldati accorressero dopo l'allarme.
«Segnale? Quale segnale?» domandò Clarice.
Everard invidiava la sua capacità di dimenticare anche le cose più importanti che la riguardavano. Lui non ci sarebbe riuscito neanche se ci avesse provato con la meditazione, la sua ansia lo obbligava a rimuginare su ogni passaggio stampandoglielo bene nella testa.
«Questo segnale» spiegò Richard. Erano arrivati alle porte del castello, che si delineavano appena nella foschia.
Everard guardò in alto e vide le tre guardie che camminavano di vedetta, non parevano essersi accorte di quello che stava per succedere, gli incantesimi illusori avevano funzionato.
Ingerid si voltò verso Solomon e lui annuì. Il ragazzo alzò il braccio verso il cielo, gli intrecci neri della cenere si stagliavano sul candore della nebbia e permettevano di notare ogni guizzo del muscolo. Tenendo chiuso il pugno sollevò tre dita, e tre fasci luminosi si formarono, vibranti ed elettrici, sulla nuvola nera che copriva il cielo.
Hildebrand gli posò una mano sulla spalla e accadde tutto in un attimo. La mano si mosse tanto veloce che Everard non riconobbe il gesto preciso, e l'attimo dopo l'aria si era illuminata a giorno, vibrante di colore.
Tre fulmini si erano schiantati sulle tre guardie là in cima in un boato assordante. La terra tremò, e sembrò arrivare la fine del mondo. L'istante dopo, tutto tornò nel silenzio.
«Oh, mamma» sibilò Frederick.
Everard non disse nulla, perché non c'era nessuna parola che conosceva che avrebbe potuto spiegare quello che aveva provato nel guardare Solomon che scatenava la furia divina dal cielo in terra, e anche se ci fosse stata sarebbe stata di certo inopportuna.
Approfittando del botto, Hildebrand aveva strappato il cancello di ferro dai cardini, e l'aveva scaraventato nel fiume con un gesto imperioso della mano.
«Difficile da perdere, questo segnale» mormorò Clarice, ma Everard a malapena la sentì, le orecchie ancora ronzanti per il ruggito del tuono.
Quello che sentì invece fu il suono degli uomini che si attivavano, che spingevano per entrare nel palazzo, inarrestabili come la marea.
Le porte che davano sul giardino si spalancarono, e la folla si riversò all'interno. Everard vide che da qualche finestra iniziava a uscire del fumo, qualche figlio di Tanvar doveva aver appiccato un fuoco.
Prese la mano di Sigga per non perderla di vista mentre correva all'interno, guidato dalla violenza della folla. Due guardie apparvero, armate, la terra tremò ancora. Il pavimento di pietra esplose in mille frammenti e delle radici le afferrarono come lunghe dita per sbatterle alla parete con forza. Quelle si accasciarono, svenute, ferite o morte.
Everard si sentì tirare per il braccio e si voltò, la mano al pugnale. Ebbe solo il tempo di sfiorarlo quando vide che ad afferrarlo era stato Richard.
«So come salire nei suoi alloggi» gli gridò, per superare i suoni della distruzione in corso.
«Avranno chiuso il passaggio dopo l'ultima volta» rispose. «Non credo potremo usarlo di nuovo.»
Nella sala fecero irruzione dei soldati di guardia dai piani superiori. La folla li ingoiò come un'enorme pianta carnivora, ed Everard li perse di vista. Immaginò che non sarebbero durati a lungo, ma sapeva che ne sarebbero arrivati altri a breve, e in gran numero.
«Ce ne sono altri. Io li conosco tutti.»
Strinse la mano di Sigga più forte. «Andiamo, allora. Più tempo aspettiamo, più tempo avrà per svignarsela. Sa che siamo venuti per lui.»
«Va bene, ci siamo» si inserì Frederick, con Clarice al seguito.
Richard annuì. «Seguitemi, allora.»
«Aspetta» Everard si voltò per assicurarsi che Solomon avesse tutto sotto controllo. Tenne il pugnale nella mano che non era aggrappata a sua sorella. Una freccia lo sfiorò, deviando all'ultimo per evitarlo, merito degli incantesimi di protezione.
Analizzò la stanza, trovò subito quello che cercava, la testa bianca che spiccava sulle altre. Solomon stava accanto a Hildebrand, non troppo distante alla loro sinistra, ma il suo aspetto aveva un qualcosa di sbagliato. Con la coda dell'occhio scorse un soldato che puntava uno dei due con una balestra, impossibile capire chi da quella distanza, e trattenne il fiato.
Una freccia partì, sapeva di aver urlato ma non era riuscito a sentirlo, quella sembrò colpire Hildebrand alla testa. Gli passò attraverso come se fosse fatto di fumo, e la sua immagine sparì.
Ci mise un po' a capire cos'era successo, ma quando ci riuscì si diede dello stupido. Dameta.
«Everard, dobbiamo andare» incalzò Richard. Le guardie non erano ancora tante da rappresentare una minaccia per tutta quella gente, ma si sarebbe dovuto dare una svegliata o qualcuno l'avrebbe fatto fuori sul serio. «Se Jasper se la dà a gambe dovremo rifare tutto da capo. Devo ucciderlo oggi. Potremmo non avere altre occasioni per farlo.»
Sigga tirò il suo braccio per spingerlo a proseguire. «Ha ragione, dobbiamo-»
«No. Non ancora» ordinò. Vedere la freccia arrivare così vicino, anche se si trattava solo di un'illusione, gli aveva fatto venire le gambe molli. «Un po' di magia ci sarà utile. Senza un druido faremmo metà della strada nel doppio del tempo.»
Richard parve rifletterci qualche secondo, ma quell'affermazione era incontestabile. «Va bene. Ma sbrighiamoci a raccattarlo.»
Osservò il campo con più attenzione e vide che sul campo c'erano almeno tre versioni diverse di Solomon e Hildebrand. Dameta doveva averli clonati per mandare a vuoto almeno parte dei colpi destinati a loro. Si concentrò stringendo il pugnale, e tutte le versioni tranne una svanirono.
«Prendiamoli e andiamo.»
Quando li ebbero raggiunti, Hildebrand aveva appena scaraventato due guardie a terra, e Solomon guidava una lingua di fuoco che avanzava strisciante e silenziosa verso una tenda che avrebbe preso fuoco di lì a poco. Dameta teneva gli occhi chiusi, concentrata, forse stava tenendo in piedi le versioni di loro stessi, tutte compivano un'azione diversa.
Un'altra freccia saettò verso di loro ma Everard gli si parò davanti per proteggerli.
«Dovreste stare più attenti» esclamò, quelli sobbalzarono. Si voltarono appena in tempo per vedere la freccia che deviava da un lato.
Le fiamme controllate da Solomon si spensero in uno sbuffo nel momento in cui perse la concentrazione, e l'espressione sul suo volto mutò al vederlo. Panico, sorpresa, comprensione, sollievo. Era bello avere qualcuno che, anche in un momento del genere, lo guardava così. «Dovevo immaginare che avresti usato gli incantesimi che ti ho dato per fare da scudo umano agli altri.»
«Che male può fare se non possono colpirmi?»
Hildebrand sbuffò. «Non so se hai notato, ma abbiamo un po' da fare» commentò, buttando un'altra guardia fuori dalla finestra con un gesto secco della mano. «Si può sapere che ti serve?»
«Non c'è di che per averti salvato la vita» rimbeccò Everard.
«So come arrivare alle stanze del Re» si inserì Richard, per tagliare corto. «Se volete venire con noi, un po' di magia ci farebbe comodo.»
«Perché non l'avete detto subito?» domandò allora il druido, esortandoli a muoversi con un ampio gesto della mano. «Voglio arrostire quel tipo come un tacchino da quando ci è venuta la malsana idea di cercare di ucciderlo.»
Note autrice
Eccoci qui alla resa dei conti!
Le prossime due parti saranno tutte impiegate per questa simpatica battaglia! Andrà bene? Male? Jasper morirà? O morirà qualcun altro? Tipo TUTTI?!
Scherzo xD vedrete. Però potete fare le vostre teorie con comodo.
12.2 e 12.3 saranno belli concitati, e poi avremo solo l'epilogo!
Non vedo l'ora di proseguire a revisionare il secondo libro... tutto a suo tempo!
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top