11.2 // Calma prima della tempesta
Solomon sgusciò fuori dall’arco d’ingresso, nel silenzio del crepuscolo. Hildebrand e Dameta erano già fuori da un po’, così li raggiunse in brevi passi veloci.
Tanvar, che cosa gli stava succedendo? Era la seconda volta che disubbidiva a sua madre in una manciata di settimane, prima era scappato in città in cerca di Everard ancora prima di conoscerlo e ora questo.
Da quando era diventato così? La volta precedente era quasi finito arrosto, eppure, benché timoroso, si sentiva soprattutto euforico, eccitato, felice.
Del resto, la volta precedente era sì quasi finito arrosto, ma la volta precedente non aveva suo fratello, né aveva considerato il fattore Everard.
«Sono felice che almeno voi siate di buon umore» sbuffò Hildebrand. «Forse dovrei provare anch’io a perdere il cervello, starei di sicuro meglio.»
Dameta ignorò la provocazione, avanzò verso Solomon e lo salutò con un abbraccio elettrizzato. Anche lei sentiva il bisogno di uscire, sembrava, questo lo rassicurò.
«Non posso credere che lo stiamo facendo» continuò il druido, scontroso. «Non posso credere che l’hai permesso.»
Solomon non poteva biasimare suo fratello. Da quando aveva conosciuto gli umani, stentava a riconoscersi lui stesso. Era solo che… oh, Tanvar, Everard era sembrato così entusiasta di andare a quella festa. Quando mai era stato capace di dirgli di no? E poi… insomma, le feste erano divertenti. Almeno, così si diceva. Lui non ne aveva mai vista una, ma quel giorno l’avrebbe fatto.
Sì, sarebbe andato a una festa coi suoi amici e col suo compagno proprio come una persona normale.
Aveva un compagno! Era stato così facile abituarsi all’idea. Il suo compagno. Ed era così dolce, e coraggioso, e carino–
«Svegliati, stupido!» lo sbottare di Hildebrand lo strappò dai suoi pensieri. «Ci siamo tutti, possiamo andare.»
Solomon portò gli occhi verso il rifugio e li vide. Sigga portava dei pantaloni, non li indossava mai per andare in città. In effetti, rifletté, Dameta avrebbe confuso i loro connotati e nessuno avrebbe capito che era una ragazza. Per questo forse sorrideva tanto.
Clarice la teneva a braccetto, anche lei tutta felice, e poi c’erano i ragazzi.
Pensò di salutare Everard per manifestare la sua identità, Dameta aveva già fatto su di loro il suo incantesimo e lui non avrebbe potuto riconoscerlo.
Almeno in teoria. In pratica, il ragazzo passò lo sguardo sul cipiglio seccato di Hildebrand, poi su Dameta che aveva già gettato le braccia al collo di Sigga per salutarla, poi aveva guardato lui e gli aveva sorriso. Si era avvicinato, gli aveva passato il braccio intorno alle spalle per stringerlo a sé e gli aveva stampato un bacio sulla guancia con un: «Ciao.»
Okay, forse non ci voleva un genio per riconoscere la sua espressione da quella di suo fratello e la compagna, ma il fatto che non avesse avuto alcuna esitazione nell’individuarlo anche con gli schermi illusori gli faceva venire voglia di sorridere.
«Ciao» rispose, e pensò di essere arrossito. Negli ultimi tempi gli succedeva sempre più spesso, era fortuna che agli umani non accadesse e non sapessero quel che significava.
«Sei pronto?»
Solomon prese una boccata d’aria per farsi forza. «Non sono mai stato a un matrimonio, noi druidi non li celebriamo. Sono molto curioso!»
«Beh, sono davvero divertenti!» si inserì Clarice. «Vedrai che ti piacerà.»
«Sono divertenti se sono matrimoni altrui…» chiarì Sigga. «Se è il tuo è tipo, la fine della tua vita.»
«A me piacerebbe sposarmi» mormorò Frederick. «La trovo una cosa carina.»
Solomon alzò lo sguardo verso Everard, nell’attesa che si esprimesse a riguardo. Chissà che ne pensava. Di certo, se avesse voluto sposarsi, non sarebbe stato con lui. I druidi non si sposavano, la sola idea era ridicola.
Loro non avevano bisogno di sposarsi, quella druida era una specie monogama, al contrario degli umani. Proprio come i lupi, o i cigni, o altre specie animali. Sceglievano un compagno e poi erano a posto così. La presenza o l’assenza di un contratto per legarli era del tutto ininfluente, per questo nella loro società non esisteva nulla di simile.
Sigga fece una smorfia. «La trovi una cosa carina solo perché sei melenso.»
Hildebrand sbuffò. «Finiamola con il perdere tempo e muoviamoci, se Ingerid decide di controllare cosa stiamo facendo–»
«Perché dovrebbe? Lei non controlla mai cosa stiamo facendo.» commentò Everard. «Insomma, non ha senso che proprio oggi si metta lo scrupolo. Ci lascerà in pace.»
«Siamo comunque sotto la sua responsabilità. Avrebbe tutte le ragioni per farlo, in effetti.»
«Non proprio, in realtà. Insomma, vivete con lei forse, ma non siete sotto la sua responsabilità. Non siete più bambini da un pezzo.»
Hildebrand si accigliò. «Ma tu quanti anni pensi che abbiamo?»
Sigga e Frederick si scambiarono uno sguardo perplesso, Everard tentennò. In effetti, nessuno di loro aveva mai rivelato la sua età, persino Solomon sapeva che Everard aveva ventitré anni solo perché era stato l’unico ad andare in missione al castello, in quanto adulto. Sollevò le sopracciglia e l’osservò tentare di indovinare.
«Mah, non saprei. Dameta avrà diciott’anni e tu sarai un po’ più grande, immagino.»
Solomon fece una smorfia colpevole. Forse, in effetti, avrebbe dovuto informarlo prima. «Oh, no, Dameta ha sedici anni. E Hilde in realtà è più piccolo, lui ne ha quindici.»
«Tu hai quindici anni?» domandò Frederick, che osservava Hildebrand a occhi spalancati.
«Stiamo traviando dei bambini» sospirò Sigga. «Quando saremo alla festa sappiate che non vi lascerò bere nemmeno un goccetto.»
«Tu a quindici anni già bevevi, sai?» intervenne Clarice.
«Ma noi vivevamo per strada, è diverso! E poi il mio guardiano è una frana» disse, occhieggiando verso Everard. «Ho avuto un’infanzia molto traumatica per questo, sai.»
Everard non poté rispondere alla frecciatina, perché non la stava ascoltando. Si reggeva al muro e aveva entrambe le mani in faccia. «Ti prego, Solomon, non dirmelo. Anzi, dimmelo. Anzi, non dirmelo. Non voglio saperlo. Mi sto sentendo male… dèi, credo di stare per svenire…»
«Esatto» ghignò Hildebrand, che aveva capito. «Solomon è anche più piccolo di me. Ha tredici anni e–»
Lui gli diede una spallata per farlo tacere. «Non è vero! Ti sta prendendo in giro» esclamò. «Io ho diciannove anni, sono il più grande.»
«Oh, cazzo» sospirò Everard, che scostò appena le mani per guardarlo. «Dimmi che è vero, ti prego. Giura.»
«Sì che è vero» rispose, e annuì deciso. «Te lo giuro.»
«Voi umani non avete proprio senso dell’umorismo…» borbottò Hildebrand.
Everard si raddrizzò, ancora turbato, e Frederick gli assestò qualche vigorosa pacca sulla schiena per farlo riprendere. «Grazie, Ottar. Oggi è la volta buona che mi viene un colpo.»
«Sai, forse dovresti chiedere prima quanti anni ha quello con cui esci, invece di preoccupartene dopo» commentò Sigga.
«Dopo questa perla di saggezza finale, meglio sbrigarsi» li incitò Clarice. «Se si affaccia qualcuno adesso siamo fregati.»
Dameta annuì. I volti degli umani si confusero e in un istante, Solomon vide i connotati di Everard sfumare davanti ai suoi occhi.
«Meglio che ci pensi anch’io» commentò. «Se ci separiamo, serve qualcosa che ci permetta di riconoscerci.»
Agitò la mano e sentì un rampicante di gelsomino allacciarsi intorno al suo polso. Aveva pensato all’edera, all’inizio, ma il gelsomino era molto più profumato e l’edera era urticante.
Sentì uno strillo di Clarice, qualcun altro sobbalzò dalla sorpresa, e si schiarì la voce. «Scusate.»
Quella che poteva essere Sigga si osservava il polso con aria soddisfatta, annusò il bracciale fiorito e sorrise. «Ora sì che possiamo andare» disse, confermando con la voce la sua identità.
«Tutto grazie a George» esclamò Everard, quando iniziarono a procedere per il bosco a passo spedito. «Che ci ha dato le notizie migliori da quando tutto questo è iniziato!»
«Almeno un migliaio di uomini parecchio incazzati» sospirò Frederick, sognante. «E sette druidi!»
Solomon gonfiò il petto, fiero. «Di più, se arriveranno quelli di Boireann e i nomadi. Mamma li ha mandati a chiamare tempo fa, non hanno ancora risposto ma confida nel fatto che saranno dei nostri.»
Il sole iniziava a essere basso sull’orizzonte all’approcciare della sera, e più calava più Solomon si sentiva carico.
«Il Re ha ben più di un migliaio di uomini, però» mormorò Clarice. «E sono meglio armati di noi.»
«Ma i druidi valgono di più» commentò Everard, che per enfasi se lo tirò addosso. Solomon si lasciò trascinare di buon grado. «E poi abbiamo ancora l’effetto sorpresa, che non è mai da sottovalutare.»
Hildebrand sospirò. «Moriremo tutti, quasi di sicuro. Ma forse… forse ne sarà valsa la pena.»
Dameta gli schioccò un bacio sulla guancia e per celebrare il momento diffuse un po’ di musica per la foresta deserta.
Fu solo quando gli alberi si diradarono che la musica tacque. Solomon fremette dall’agitazione, uscire dal bosco gli provocava ancora un certo effetto. Si avvicinò a Everard, che gli passò un braccio intorno alle spalle.
Lo vide guardare indietro verso gli altri, come se volesse assicurarsi che gli schermi di Dameta fossero ancora al loro posto, poi annuire tra sé. «Possiamo andare, avanti.»
Solomon non aveva idea di come facesse a essere così. Lui era il più grande dei suoi compagni, nonché il figlio di Ingerid, dunque avrebbe ereditato la guida della congrega. Eppure… eppure non si sentiva capace di guidare alcunché, men che meno Dameta, Hildebrand o chiunque si fosse voluto unire a loro.
Everard era diverso. Non aveva alcun diritto sugli altri – aveva la stessa età di Frederick, per esempio, e non era figlio di un capo – eppure i suoi amici aspettavano sempre una sua parola prima di agire.
Non sembrava voluto, Solomon dubitava lo fosse e anche che a Everard piacesse. Era naturale, non aveva più conoscenze degli altri e non aveva neanche chissà quali capacità, eppure, quando nessuno sapeva che fare… lui sì. E Solomon stesso aveva iniziato a cercare la sua approvazione e le sue indicazioni non appena l’aveva conosciuto, senza nemmeno volerlo.
Il sole era tramontato, ormai, e le ultime tracce rosate all’orizzonte perdevano terreno contro il blu intenso. Avrebbero chiuso le porte della città a minuti, ma per loro non era un problema. La brezza si fece più insistente, incanalandosi nelle viuzze cittadine e creando una corrente fastidiosa.
Nessuno badò a loro quando fecero il loro ingresso per la Porta Sud, e Dameta e Sigga mostrarono la strada, seguendo sicure le indicazioni fornite da George.
Man mano che si avvicinavano alla piazza il mormorio della gente e il leggero sottofondo di musica allegra si faceva più forte, e Solomon iniziò a intravedere il riflesso aranciato di un grande falò.
L’ultima volta che aveva visto una pira in pubblica piazza, era stata costruita per lui. Deglutì e si fece più piccolo, nessun altro sembrava allarmato dunque si sforzò di restare tranquillo.
Era un druido, per Tanvar. Non solo, c’erano altri due druidi con lui, druidi che lo amavano e lo avrebbero protetto.
E poi c’era Everard, ovvio. Che non aveva uno straccio di potere, né abilità nel combattimento, né una grande prestanza fisica, ma che gli aveva già salvato la vita una volta – ed era stato parecchio figo nel farlo – e dunque avrebbe avuto tutte le capacità e le intenzioni necessarie per farlo ancora.
Quando giunsero sul posto, la musica era tanto forte da rendere difficile sentire le voci dei compagni. Al centro della piazza bruciava un fuoco che superava i tetti delle case più basse, imponente e dalla luce accecante. Ogni tanto qualcuno dei presenti si avvicinava a gettava qualcosa tra le fiamme, Solomon affilò lo sguardo per tentare di capire di che si trattasse, ma non ci riuscì.
«Bello, vero?» mormorò Everard al suo orecchio, la vicinanza improvvisa lo fece sobbalzare. «Vedi, gli invitati come augurio alla coppia sacrificano un oggetto a cui tengono, lo bruciano nella pira matrimoniale. Più l’oggetto è utile, amato e importante, più l’augurio è forte ed Esta renderà la coppia felice e prospera di figli.»
«Un oggetto di che tipo?»
«Oh, può essere di tutto. Strumenti da lavoro, cibo, abiti, libri… tu potresti sacrificare, chessò, un disegno. Qualcosa del genere.»
Solomon annuì e continuò a osservare, affascinato. Una bambina si avvicinò quatta al falò e vi lanciò con riluttanza quella che sembrava una bambola di pezza. «Interessante» commentò. «Quest’usanza mi era del tutto estranea.»
Perché Esta avrebbe dovuto benedire un’unione partendo dalla sofferenza e dalle rinunce di umani che non facevano neanche parte della coppia sposata? Era strano, ma non così inverosimile. Aveva conosciuto di persona la volontà di Esta, quando aveva visitato l’Oracolo, e in effetti i sacrifici sembravano piacerle parecchio.
«Donerei qualcosa anch’io, ma non ho… beh, niente. A parte il pugnale, ma quello non brucia. E poi mi serve. Certo, il punto è proprio che doni qualcosa a cui tengo, ma non conosco neanche gli sposi, mi sembra un po’ esagerato. Non trovi?»
«Sono convinto che, per Esta, la tua volontà sarà sufficiente.»
Lui gli sorrise. «Non sono sicuro che funzioni proprio così» disse, poi indicò verso un uomo e una donna che sedevano sotto un tendone, le mani legate tra loro. «Quelli sono gli sposi. Resteranno legati sinché non andranno a inaugurare il letto nuziale, poi un’amica nasconderà negli abiti di lei una lama – foderata per non ferirla – e lui dovrà cercargliela addosso per poi liberarli.»
«Bizzarro» commentò Solomon, che inclinò il capo per studiarli. Sembravano di buon umore, tutti e due.
«Molto bizzarro. Però un pochino è anche romantico. Credo. O forse sono solo abituato a pensarla così.»
Solomon ci pensò su. Aver bisogno di un contratto per rassicurare il compagno sulla propria intenzione di continuare il rapporto gli sembrava tutto il contrario di romantico, ma festeggiare insieme alle persone amate di aver trovato qualcuno con cui passare la vita poteva essere bello.
E poi l’idea di mettersi le mani addosso per trovare la lama, tutti avvinghiati dai lacci, aveva il suo perché, questo bisognava ammetterlo.
Forse l’idea del matrimonio non era così sciocca, dopotutto.
Clarice e Sigga li spinsero da un lato per lanciarsi ridacchiando tra la folla impegnata nei balli di gruppo. Everard sospirò a osservarle.
«È cresciuta in fretta. Ogni tanto mi sembra una donna, altre volte è tanto ingenua che so di avere ancora bisogno di proteggerla. Vorrei che fosse sempre felice così.»
«Nessuno è sempre felice.»
«No, è vero. Ma vorrei tanto lo fosse. Se non proprio felice, almeno serena.»
Una voce improvvisa li fece sobbalzare. «Che dici, è ora?»
Solomon si voltò. Sigga e Clarice stavano ballando, e il ragazzo dal volto irriconoscibile non portava la tunica, per cui poteva essere solo una persona.
«Freddie» esclamò Everard. «Certo, meglio togliere subito il dente, così poi ce ne stiamo tranquilli.»
Solomon fece una smorfia perplessa. «Di che state parlando?»
I due si scambiarono uno sguardo luccicante di entusiasmo. Faticava ancora a capire il rapporto tra Everard e Frederick, ma la complicità che passava tra loro era piuttosto evidente.
«Solo un lavoretto veloce, non preoccuparti» lo rassicurò Everard. Il sorriso ampio dell’altro non aiutava a rendere la frase meno ambigua. «Tornerò da te in un attimo, ne varrà la pena, vedrai.»
«Andiamo, Riri, avanti! Sono fermo da giorni, non posso permettermi di perdere la mano. Ho una reputazione da mantenere, lo sai.»
«Ho capito, ho capito, arrivo!»
Solomon non fece in tempo a esprimere le sue perplessità sulla singolare scelta di vocabolario, che i due sparirono tra la folla.
«Wow. Va bene, credo» mormorò tra sé, non appena li perse di vista. Si grattò la testa con fare confuso.
«Dici che c’è da preoccuparsi?» sbuffò la voce di Hildebrand, che si era materializzato al suo fianco.
«Mh» azzardò Solomon. «Da uno a dieci, direi… sette e mezzo. Almeno, io mi sento preoccupato sul sette e mezzo.»
«Onesto, ci sta. Io viaggio più sul nove, ma io sono un drammatico» commentò, poi si voltò verso Dameta con fare pensoso. «Amore, tu quanto pensi che dovremmo preoccuparci, da uno a dieci?»
La ragazza sollevò una mano con tre dita alzate, in una scrollata di spalle.
Hildebrand scosse la testa. «Solo tre? Figuriamoci…»
Lei non rispose al rimprovero. Solomon vide il suo sguardo illuminarsi, poi senza accennare neanche un saluto si allontanò decisa verso un angolino lontano dal fuoco.
«Ehi–» Hildebrand avanzò di qualche passo per seguirla, ma Solomon l’afferrò per il polso.
«Sta’ buono» intimò. «Ha gli schermi, non possono riconoscerla. Lasciala esplorare un po’.»
La ragazza si era fermata davanti a quella che sembrava la bancarella di un fioraio. La videro sfiorare qualche corolla con le dita, avvicinarsi a sentire un profumo, poi iniziò a gesticolare rivolta alla venditrice che aveva davanti.
Le spalle di Hildebrand si rilassarono, ed emise un sospiro che lo sgonfiò. I profili di Sigga e Clarice si stagliavano contro la luce del fuoco, e ballavano in cerchio insieme agli altri. Due passi a sinistra, uno avanti e uno a destra – pausa – due passi a destra, uno indietro, e a sinistra.
Gli umani intorno a loro ridevano, spensierati e felici, senza un pensiero al mondo.
«Guardali, tutta questa gente» sibilò Hildebrand, velenoso. «Stanno qui a ballare e gozzovigliare, ma se ci vedessero per quello che siamo saremmo già morti che camminano. Non riesco neanche a guardarli.»
«Non sono tutti così» protestò Solomon. A lui piacevano gli umani, erano così intriganti. Una civiltà tanto curiosa quanto funzionale, ed erano capaci di grandi atti di bontà. «Sono tutti diversi uno dall’altro, proprio come noi.»
«Non sono affatto come noi» tagliò corto. «Sono crudeli, ignoranti e violenti.»
«Sono solo più di noi. Se fossimo noi a comandare, li tratteremmo peggio di come ci trattano loro.»
«Perché ora li stai difendendo? Da che parte stai? Credi di essere uno di loro solo perché hai trovato un umano che ti dà attenzioni. Quanto credi durerà? Siamo diversi da loro, quelli… quelli cambiano compagni con la facilità con cui cambia il vento, e tu sei uno sciocco.»
Solomon sospirò, e ingoiò una rispostaccia sul nascere. Hildebrand non capiva, non avrebbe mai capito. Lui aveva visto che sarebbe andata bene. Aveva visto che sarebbe stato felice. E, se questo non si fosse avverato, sarebbe stata colpa dell’Oracolo e non di Everard. Di certo, comunque, non della sua umanità.
Il ritorno di Dameta li mise a tacere. La ragazza aveva rimediato una corona di fiori, anche se non aveva soldi con sé. Solomon non si stupì, del resto lei riusciva a convincere Hildebrand a fare qualsiasi cosa con una sola occhiata, e lui era un osso duro.
I fiori di ibisco brillavano alla luce del falò, peccato non poterli apprezzare in contrasto con gli occhi dorati. Al calare degli schermi, sarebbe stata ancora più bella.
«Contenta?» domandò il ragazzo, il tono si era abbassato e fatto dolce. Lei annuì, entusiasta. «Hai fame? Sei troppo stanca? Vuoi che torniamo indietro?»
Scosse la testa, contrariata.
Solomon fu sul punto di offrirsi di trovarle da mangiare, quando due ragazzi con i bracciali di gelsomino si avvicinarono con un sorriso parecchio sospetto.
Uno di loro fece volare una moneta per aria, la guardò girare tre volte e poi la riacchiappò. Li osservò per un breve attimo e, dopo una attenta riflessione, rivolse lo sguardo verso Solomon e gli chiese: «Bevi qualcosa?»
Solomon riuscì a sentire il sorriso che gli fioriva sulle labbra. «Sì, certo!»
Un lavoretto veloce. Un furto, come aveva fatto a non pensarci? Certo, rubare non era proprio il massimo, ma lo preferiva di gran lunga ad altre… cose che avrebbe potuto fare con il suo amico. Cose per cui avrebbe rischiato di perdere la mano senza l’allenamento necessario.
Cose a cui preferiva non pensare perché tanto non erano ciò che aveva fatto. Aveva solo rubato qualche denario d’argento, tutto qui.
Hildebrand non parve avere una reazione altrettanto sportiva a riguardo. «Dove l’hai presa quella?»
Fu la voce di Frederick a rispondere. «Non fare domande di cui non vuoi sapere la risposta, amico.»
«Siete dei criminali. E non sono tuo amico.»
Everard ignorò quello scambio e si avvicinò ancora. «Vino o spirito?»
Strinse le labbra per evitare di gongolare troppo. «Vino, meglio non esagerare.»
Everard si piegò in un profondo inchino. «Ogni tuo desiderio è un ordine.»
Oh, sì, gongolare era proprio la parola giusta per descrivere quello che provava. D’un tratto si accorse di avere tanta voglia di ridere.
Everard e Frederick erano solo in piazza a scippare qualche sprovveduto, tutto qui. E con quei soldi era lui quello a cui era stato offerto da bere. Oh, che bello sentirsi speciali così. Non gli era mai capitato, prima di conoscerlo.
Lo guardò sparire una seconda volta, con un sorriso, quando Hildebrand lo fulminò con uno sguardo incredulo. «Li hanno rubati quei soldi, sai? È questo che facevano: erano qua in giro a rubare.»
«Andiamo, vivi un pochino!» sbuffò Frederick.
«Vivi un pochino?!» ripeté, sconvolto. «Rubare è illegale, non si fa.»
«Anche tu sei illegale, Hilde» sospirò Solomon, in tono annoiato. «Da quando ti interessa rispettare la legge?»
Suo fratello sbatté le palpebre, oltraggiato. «In genere interessa a te!» esclamò, poi scosse la testa. «Quel tizio potrebbe fare saltare in aria un palazzo e tu ti metteresti ad applaudire.»
«Buffo, detto da chi ha fatto saltare in aria il palazzo di guardia proprio davanti ai miei occhi. Non mi pare di essermi lamentato neanche allora.»
«Cosa c’entra? Stavo cercando di proteggere–»
Prima che la discussione potesse degenerare, due ragazze barcollarono ridendo verso di loro.
«Ne avevo davvero davvero bisogno» esclamò la voce di Sigga mentre si asciugava gli occhi con le maniche della camicia, pieni di lacrime dalle risate.
«Sei tremenda» rispose l’amica, prendendola a braccetto.
«Senti chi parla! Ci stavano fissando tutti perché continuavi a sbattere sulla gente!»
«Io?!»
«Secondo me siete pessime entrambe» si inserì Frederick, «ma almeno siete state un ottimo diversivo.»
Una tazza colma quasi all’orlo apparve davanti a Solomon, che sobbalzò.
«Ops» mormorò la voce di Everard al suo orecchio. «Ti ho spaventato, scusa.»
Afferrò il bicchiere e si rilassò. Anche Everard si era preso un bicchierino, e il druido gli si appoggiò di buon grado, inspirando a pieni polmoni il profumo dolce e alcolico del vino.
«Quella roba è splendida» sospirò Clarice, rivolta alla corona di fiori che Dameta portava sul capo. «La voglio anche io!»
«E io voglio bere qualcosa!» aggiunse Sigga.
Frederick scosse la testa, si mise la mano in tasca e offrì loro un altro denario, riluttante.
«Ancora?!» chiese Hildebrand, «quanti ne avete presi?»
Everard alzò le spalle. «A sufficienza.»
Quando Clarice tornò con una corona di calendule e Sigga con un bicchiere per mano sembravano tanto felici che a Solomon non sembrò vero.
Everard trovò George e lo presentò agli altri e, dopo altre due danze a cui si unirono anche Dameta e Hildebrand, alla ragazza iniziò a brontolare lo stomaco e decisero che era tempo di andare.
Incontrarono le porte serrate, come avveniva sempre alla sera, ma con l’aiuto di un po’ di magia impiegarono poco a uscire, una volta che non ci furono guardie in vista.
Per la strada del ritorno tutti erano di buon umore, persino Hildebrand che Frederick aveva convinto a bere un bicchiere di spirito.
Clarice giocava con il bracciale di gelsomino di Sigga mentre entravano nella foresta; Solomon sollevò i palmi e uno sciame di fiammelle rischiarò loro la strada.
«E se Edmund ci avesse cercato e avesse deciso di fare la spia?» si lamentò Sigga.
«Edmund non è più un problema» rispose Everard, con noncuranza.
Che cosa significavano quelle parole? Strano.
Quando arrivarono al rifugio, gli incantesimi di Dameta svanirono e lei aveva l’aria esausta. Per i corridoi regnava il più completo silenzio.
«Vieni, ti porto a letto» Hildebrand la sorresse, reggendole il fianco. A un certo punto, lungo la strada, la sua corona di fiori era finita sulla testa del compagno e gli dava un’aria dolce.
«Andiamo a dormire anche noi, che ne pensi?»
La voce di Everard era morbida, gli entrava dentro e gli scaldava il petto. Era stanco, un po’ brillo, e non vedeva l’ora di buttarsi sul tappeto e passare una notte a riposare nel calore di un abbraccio.
Tanvar, da quanto tempo non si sentiva così bene? Così in pace?
A breve sarebbe arrivato il tempo di agire, e allora avrebbero rischiato la vita per guadagnare la libertà andata perduta da troppo tempo. Sentiva di avere di più da perdere, di più da proteggere, e non era mai stato meno pronto e allo stesso tempo più deciso a farlo.
Note autrice
Pov di Solomon a sorpresa, eheh.
Siamo andati a una festa, è andato tutto bene, e ci prepariamo alla grande resa dei conti, eheheh. Nel prossimo capitolo (diviso in parti) potremmo davvero sconfiggere Jasper! Oppure no?
Lo scoprirete presto.
Intanto, Solomon è un adolescente in piena crisi ormonale. È da capire, lui ha sempre vissuto rinchiuso con la sua famiglia, non ha mai avuto un po’ di coccole e romanticismo, ed Everard è un tipo molto fisico, quindi questo cambiamento lo manda in brodo di giuggiole.
In più, i druidi al contrario degli umani sono una specie monogama... un po’ come i pinguini, ecco. Quando trovano un compagno, è quello per la vita. Sono proprio fatti così a livello biologico.
Questa cosa Everard non lo sa, e lui ha anche una certa esperienza in campo sentimentale ed esce da una relazione molto lunga. A lui Solomon piace tanto, ma per ora è un ragazzo con cui ha appena iniziato a uscire e di cui gli interessa approfondire la conoscenza.
Questa differenza di cultura e di visione potrebbe creare un po’ di problemi in futuro...
Non è il tempo di pensarci ora! Ora si va a prendere questo cazzo di Regno, incrociamo le dita e a presto!
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