11.1 // Calma prima della tempesta
L'idea di unire le camere si rivelò un'idea vincente. Ingerid non protestò, anzi si mostrò entusiasta. Il rifugio iniziava a diventare troppo grande e si era rivelato sempre più difficile tenerlo dentro i confini di sicurezza. Questa scelta facilitava il compito di Dameta e degli altri druidi che si alternavano nel tenere gli schermi illusori sempre attivi.
Ingerid, Astrid e la figlia di Sunnar di Beltann studiavano le due profezie di cui erano a conoscenza, ma per il momento non avevano ottenuto risultati. Né Sigga né Clarice avevano riferito nulla sul terzo biglietto.
Le giornate passarono nell'attesa che fosse tempo di agire, immerse in una strana atmosfera tra la calma forzata e la frenesia nervosa.
La voce che Richard era tornato e sobillava contro il sovrano aveva iniziato a infiammare lo scontento popolare, e a turno gli abitanti del rifugio si premuravano di tenere questi sentimenti nuovi e distruttivi bene al caldo.
Solomon continuava a chiamarlo il primo principio della dinamica. Everard e Sigga, con una buona dose di forza, avevano messo in moto gli eventi e ce ne sarebbe voluta ancora di più per fermarli.
La mattina del nono giorno dopo l'arrivo dei druidi di Beltann, Everard aprì gli occhi nella sua nuova stanza e si stiracchiò. Fece una smorfia. Quel giorno Sigga avrebbe accompagnato Dameta in città a, come veniva chiamato al rifugio, soffiare sul fuoco.
Si stropicciò gli occhi con la sinistra, il braccio destro schiacciato dal corpo caldo di Solomon, che giaceva placido e addormentato tra le sue braccia. Everard affondò il volto tra i suoi capelli e inspirò.
Per la camera si potevano udire i respiri pesanti degli ospiti addormentati, uno stanzone formato dalle loro stanze accorpate. Non c'erano letti, solo amache e cuscini sul pavimento coperto da morbidi tappeti, ed era proprio su uno di questi che Everard tentava di stare più fermo possibile per non svegliare Solomon.
Le prime luci dell'alba trapelavano dalla lunga finestra proprio davanti a lui, ferendogli gli occhi, e solo quando si aggiustò appena per allungare la schiena ricordò che Frederick si era addormentato con la testa sulle sue gambe.
Fece scorrere lo sguardo per la stanza affollata di ninnoli e dei carboncini per i disegni di Solomon, intravide Clarice con una gamba che pendeva da un'amaca sulla sinistra e... ecco perché si era svegliato.
Sigga si stiracchiò con una smorfia assonnata, si alzò a sedere e arricciò il naso in una smorfia di fastidio.
Quando la sua sorellina si svegliava, si svegliava anche lui. Gli veniva istintivo, dopo tutti quegli anni che aveva vegliato su di lei quando erano per strada.
«Che ci fai già sveglia?» domandò, la bocca impastata. Sentì Solomon sbuffare contro il suo petto e stringersi più a lui.
«Niente, torna pure a dormire. Vado solo a cercare da mangiare» lo liquidò, ma ormai il danno era fatto. Anche il druido aveva strizzato gli occhi e sbuffato ancora, doveva essere sveglio.
Everard si accigliò. «Stai bene?»
Clarice si rigirò nella sua amaca, se avessero continuato a parlare avrebbe sbottato intimando loro di tacere, non era mai stata una mattiniera.
Frederick era l'unico che non sembrava toccato dall'improvvisa agitazione nella stanza. Era per questo che Everard si era legato tanto a lui, quando era arrivato nella banda. Il ragazzo era l'unico che riusciva a dormirgli accanto anche quando aveva i suoi incubi e si agitava nel sonno.
«Sto bene, sì. Solo un po' nervosa. Ora taci e torna a dormire, altrimenti sveglierai tutti.»
La ignorò. «Non devi andare per forza, se ti preoccupa. Andrò io.»
Sigga schiuse le labbra per rispondere, quando dall'amaca di Clarice giunse un sonoro: shhh.
Fu allora che Solomon sollevò il capo, attirando la sua attenzione per farsi baciare. Aveva aperto gli occhi, ancora velati dal sonno, e sorrideva.
Everard accolse l'invito senza farsi pregare. Abbassò il volto e unì le loro labbra in un gesto affettuoso. «Buongiorno.»
Il druido mormorò soddisfatto e si accoccolò più a lui. «Oh, sì, molto buono» sospirò, e sembrava davvero così felice di essere con lui che a Everard si allargò il cuore nel petto.
Sigga, dal canto suo, portò due dita in gola e imitò il verso del vomito. «Vado a fare colazione, è meglio»
«Andate tutti e tre a fare colazione» sbuffò Clarice. «Che state facendo chiasso e io c'ho sonno.»
Everard si sfilò da sotto la testa di Frederick, che non fece una piega, e lasciò libero Solomon. Borbottando delle scuse, si diressero verso il giardino dove si sarebbe servita la colazione.
«Oi» Solomon si lasciò cadere accanto a Hildebrand, già seduto in giardino.
Lui accennò una risposta a mezza bocca mentre Dameta, sorridente, salutò tutti con la mano.
Everard si rilassò al vederla così positiva. Le avrebbe affidato Sigga per la giornata, e se avesse notato preoccupazione anche nel druido non era sicuro che le avrebbe permesso di avventurarsi.
Distese le spalle, e si concesse di fare un profondo respiro prima di accomodarsi. «Come mai così mattinieri?»
Fu Sigga a rispondere. «Stanno evitando gli altri druidi» borbottò. «Quelli di Beltann. Ma non ci vogliono dire perché.»
Hildebrand mostrò un sorriso ferino, ma i suoi occhi lampeggiavano di fastidio. «Questo perché non sono affari tuoi.»
«Oh, andiamo! Siamo amici, no?»
Il druido si accigliò. «E chi ti ha dato questa buffa idea? Io no di certo.»
Everard afferrò un pugno di frutta secca per dare inizio alla colazione, rivolse un'occhiata di ammonimento alla sorella per sedare la discussione, e mangiò.
Notò che Solomon si era appoggiato a Hildebrand e sorrideva tra sé e sé, estraniato dal discorso. Negli ultimi tempi era più allegro, e gli piaceva pensare che fosse anche merito suo.
«Ma che bella immagine...» sospirò sognante una voce dietro di loro. Everard sentì una mano che gli dava un buffetto sulla testa in un gesto fugace e sobbalzò. Il druido chiamato Edmund ghignava, divertito. «Umani e druidi che fanno colazione insieme e chiacchierano come vecchi amici. Dameta, ti prego, diffondi un po' di musica strappalacrime e sarà perfetto.»
Fu proprio accanto a lei che si sedette, e la ragazza dopo uno sbuffo seccato si spostò a fargli posto. Hildebrand le passò un braccio attorno alle spalle e la tirò più a sé, lanciando all'intruso un'occhiata velenosa.
«Oh, testa rossa, tengo a informarti che la signora sta arrivando. Forse dovresti andartene.»
Lo sguardo di Solomon si era fatto gelido. «Hildebrand andrà via quando e se ne avrà voglia, e non certo perché sei stato tu a chiederglielo.»
«Noi siamo qui da un po', comunque» protestò lui, con un filo di voce, «forse dovremmo davvero...»
Dameta gli posò una mano sulla gamba per tenerlo fermo e lui si voltò verso di lei, con l'aria confusa del ragazzino spaurito. Lei fece un cenno secco di no con la testa e lo strinse più forte.
«La tua signora può anche venire più tardi se la sua presenza le dà così fastidio. Oppure può stare senza mangiare» commentò Solomon. «Anzi, tanto meglio.»
«Stai zitto, cocco di mamma» sbottò Edmund, «se non stessi sempre attaccato al culo di Ingerid ti avrei insegnato le buone maniere da un pezzo.»
Ecco, quello era troppo. Minacciare Solomon era troppo. Everard ringhiò. «Chiudi. Quella. Bocca.» Aveva i muscoli tesi per obbligarsi a stare fermo, iniziavano a far male. «O giuro che sarò io a farlo per te.»
Edmund si voltò verso di lui. Sollevò entrambe le sopracciglia per un attimo, poi nei suoi occhi grigi luccicò una luce di curiosità. «Focoso, il tuo animaletto» commentò, ammiccando in direzione di Solomon. «Sai una cosa? Ho cambiato idea sull'accoppiarsi con le bestie. Perché non me lo presti per un po'? Dammi un'ora e ti prometto che te lo riporterò più che soddisfatto.»
Everard fece una smorfia. Quanto poteva essere viscido? «Grazie, ma preferisco di gran lunga la morte.»
«Buffo da parte tua credere di avere voce in capitolo.»
«Ehi-» abbaiò Sigga, ma Solomon la precedette.
«Stai giocando col fuoco, Edmund» mormorò, la voce si era abbassata tanto che udirla era difficile, affilata. «Mi ritengo una persona paziente, ma stai superando il limite.»
«Tu non hai la minima idea di quale sia il mio limite.»
Everard si alzò in piedi, tanto in fretta che barcollò all'indietro. Tutti gli occhi si puntarono su di lui. «Devo andare.»
«Cosa gli hai fatto?» chiese Hildebrand, più allarmato del solito.
«Dev'essere pazzo» replicò lui, «io non ho fatto niente.»
Anche Sigga si era alzata in piedi, stava proprio davanti a suo fratello e l'osservava. «Stai bene?»
«Vuoi morire» commentò Solomon, asciutto. «Vuoi morire, è evidente. Chi sono io per negartelo?»
«Solomon, io non c'entro, te lo giuro-»
Per quanto sarebbe stato divertente vedere Solomon utilizzare i suoi poteri in modo violento e creativo su quell'antipatico, Everard si costrinse a parlare. «Ha ragione, non mi ha fatto nulla. Ho solo... ho bisogno di vedere Frederick.»
«Frederick sta dormendo» rispose Sigga, perplessa.
«Vorrà dire che lo sveglierò» liquidò, e detto ciò lasciò il giardino apparecchiato per la colazione e si diresse di nuovo verso la stanza.
Solomon aveva ragione.
Non era di per sé un fatto strano, Solomon era colto e intelligente, una combinazione molto favorevole che gli consentiva di avere ragione la maggior parte del tempo.
Quella volta, però, la ragione di Solomon significava che lui doveva fare qualcosa.
Edmund stava superando il limite. E lui non gli avrebbe permesso di procedere oltre, in nessun caso.
Ricordò quando l'aveva toccato tra i capelli, poco prima, e arricciò il naso. Non riteneva fosse pericoloso, gli dava l'idea di essere il classico gradasso che spargeva minacce che non era in grado di mantenere, ma quello sguardo appiccicoso e le sue allusioni l'avevano turbato.
Non era un brutto ragazzo, ma aveva un modo di fare insistente e acidello che lo rendeva disgustoso.
E poi, le sue frecciatine da stronzo ferivano Hildebrand e ferivano Solomon, e questo lui non poteva permetterlo.
Entrò nella stanza senza curarsi di fare silenzio e l'attraversò.
Sentì Clarice borbottare un: «Ehi, ma che modi!», ma la ignorò. Avanzò dritto verso Frederick, ancora addormentato, si inginocchiò sul pavimento e si piegò su di lui.
«Freddie» lo chiamò, gli spazzolò i capelli per svegliarlo senza spaventarlo troppo. «Freddie, è ora di alzarsi.»
«Come no, buona fortuna» sibilò Clarice, rigirandosi nella sua amaca con un sospiro seccato.
Frederick sbuffò nel sonno e strinse forte il cuscino a cui era abbracciato, steso su un fianco. Everard sorrise e fece scivolare la mano dai capelli lungo un lato del volto, e quando arrivò alla guancia gli diede uno schiaffetto leggero ma deciso. «Freddie, andiamo, ho bisogno di te.»
Il ragazzo sobbalzò, spalancò gli occhi e prese una boccata d'aria. Sembrò cercare riferimenti con lo sguardo, allarmato, ma quando riconobbe dove si trovava e mise a fuoco Everard piegato su di lui, si rilassò. Lo guardò qualche istante, i suoi occhi lo bucavano. Inclinò la testa da un lato e rotolò sulla schiena, per vederlo meglio, poi allungò un braccio verso l'alto come per toccarlo e disse: «Riri. Che succede? Perché mi hai svegliato?»
Everard sbuffò una risata. Appena sveglio, Frederick era sempre un mezzo disastro. «Ho bisogno di una mano, tutto qui. Vorrei discutere con te in privato.»
«Sopravvaluti di molto quanto mi importa di cosa pensi» sbuffò Clarice. «Sinora, tutto quello che ho sentito uscire dalla tua bocca oggi l'ho sentito contro la mia volontà.»
Frederick non diede all'amica alcun peso. Il suo sguardo si adombrò di preoccupazione e si concentrò sul suo volto, per riconoscere qualche segno di malessere. «Stai bene?»
«Sto bene. Ma ora andiamo.»
🔥🔥🔥
«Ti ricordi cosa ci siamo detti?»
Frederick alzò gli occhi al cielo con una smorfia. «Certo che me lo ricordo. Lo hai ripetuto ottantadue volte, e non sono sordo.»
Everard ghignò, e gli assestò una spallata che lo fece barcollare di lato. «Ottantadue? Che numero specifico!»
«È stato facile contarle, non stavi mai zitto...»
«Oh, eccoci qui!» sentì il petto infiammarsi di eccitazione nell'osservare la camera del suo obiettivo. Ingerid aveva sistemato i druidi di Beltann in un corridoio lontano dalle stanze degli altri, e le due donne della congrega erano spesso insieme a lei a riflettere sulle profezie.
Questo significava che Edmund passava la maggior parte del tempo in quell'ala del rifugio da solo.
«Sicuro di volerlo solo spaventare?» borbottò Frederick, che si appoggiò con la schiena al muro nell'attesa che uscisse dalla camera da letto. «Non mi piace come ti parla. Non mi piace come ti guarda. Non mi piace nemmeno come ti tocca.»
Everard lo imitò, scaricando il peso sul fianco dell'amico. «Non l'hai neanche visto farlo, Freddie.»
«Ti ha messo a disagio, questo mi basta. Di' una parola e-»
«Per carità, voglio solo mettere due cosine in chiaro. E poi Astrid legge nel pensiero, se lo buttassimo in un fosso lo capirebbe subito.»
Frederick accennò un ghigno malizioso. «Se lo dici significa che ci hai pensato.»
Everard si strinse nelle spalle. Se aveva pensato di dargli il benservito? Beh, d'accordo, poteva essere. Per Solomon, non per sé. Ma comunque non l'avrebbe mai fatto.
Attendere con Frederick non era mai pesante, del resto c'era abituato. In tutti gli anni della banda, per via degli appostamenti, era successo migliaia di volte.
Restare in silenzio con lui era bello.
Sollevò lo sguardo sull'amico, e fece un breve cenno del capo verso la porta, poi verso la finestra a indicare le ore che erano passate. Frederick scosse la testa e alzò gli occhi al cielo con fare teatrale, poi indicò col pollice la porta alle loro spalle e mimò un'esplosione con entrambe le mani.
Capì subito cosa intendeva: quest'idiota è una palla mortale, giuro che lo faccio esplodere.
Sulle labbra di Everard si dipinse un sorriso. Abbassò le mani col palmo rivolto verso terra due volte, per intimargli di calmarsi, poi le incrociò a X e le riabbassò al loro posto perché non gli avrebbe permesso di farlo.
Lui emise uno sbuffo contrito, ma proprio quando fu sul punto di rispondere, la porta che stava sul muro a cui erano appoggiati si aprì.
Everard guardò l'amico e annuì per fargli segno di andare. Quello rispose con un occhiolino e si infilò veloce e preciso alle spalle del druido sfruttando il buco nel suo campo visivo.
In un battito di ciglia gli aveva afferrato le mani e le aveva chiuse a pugno nelle sue, portandole dietro la schiena, e lo aveva sbattuto al muro.
Edmund emise un gemito misto di sorpresa e dolore, ed Everard in un attimo gli tappò la bocca con il palmo, per impedirgli di urlare.
Il ragazzo sbatté le palpebre e Everard vide che cercava di muovere le braccia, ma la presa di Frederick lo teneva saldo, le dita strette e immobili. Senza magia. Inoffensivo.
Everard gli sorrise, un sorriso intriso di una finta aria innocente. «Oh, Edmund, mi è quasi parso di capire che tu provi l'illusione di comandare, qui dentro. O di essere nella posizione di minacciare qualcuno. Sbagliato, sbagliato, sbagliato.»
Il druido si dimenò, ancora nel tentativo di liberarsi, ma la presa di Frederick non cedette e lui fu costretto a mugolare una protesta contro la sua mano. «Scusa, devi parlare più chiaramente, non capisco» lo schernì, poi si chinò sino ad avvicinare il volto al suo. Era piccolo, come Solomon e tutti quelli come lui, e senza l'uso della magia costituiva una minaccia ridicola. «Ora io toglierò la mano e tu non emetterai fiato, altrimenti sarà peggio per te. Batti due volte le palpebre se hai capito.»
Sentì il suo fiato caldo sulla mano mentre sbuffava, aveva gli occhi sgranati e fissi su di lui, luminosi e grigi come un giorno di pioggia. Dopo qualche lungo istante batté le palpebre per due volte.
Everard ritirò la mano e Edmund ringhiò la sua evidente disapprovazione, ma restò buono proprio come aveva promesso.
«Che succede?» sibilò. «Che volete? Lasciatemi andare!»
«Io e te ora ci faremo una bella chiacchierata» rispose, fiero. «Io ti chiederò di fare qualcosa per me e in cambio ti prometto che ti lascerò tranquillo. Se non lo farai, farò in modo che viva tutti i giorni con la paura che possa piombarti addosso un'altra volta. La tua permanenza qui sarà un incubo» spiegò con tono pacato, per poi guardare l'amico. «Freddie, vuoi favorire con un assaggio?»
Frederick alzò un braccio del druido più in alto sulla schiena, tenendo ferma la presa sulle dita. Edmund ebbe uno spasmo e guaì dal dolore, ma l'attimo dopo il ragazzo lo risparmiò, tornando in posizione di partenza.
«Tu sei un fuori di testa. Un sadico. E ti pentirai di quello che hai fatto. Ti accorgerai di quanto può essere pericoloso scherzare con uno come me.»
Frederick lo strinse al muro più forte senza attendere un comando, Edmund si lamentò ancora. Everard non obiettò, neanche quando l'amico avvicinò il volto all'orecchio del prigioniero e sussurrò: «È una minaccia? Perché se lo è, sei uno stupido.»
«Insomma, si può sapere cosa volete da me?»
Everard annuì, comprensivo. «Grazie di aver chiesto. Voglio che tu lasci in pace Hildebrand. Voglio che la smetta di punzecchiarlo, voglio che smetta di parlargli di Astrid - anzi, voglio che smetta di parlargli, punto. Devi lasciarlo stare, hai capito?»
«Che ti importa di quello sfigat- ah!» boccheggiò dal dolore quando Frederick gli sollevò il braccio più in alto della prima volta.
«Non chiamarlo così in mia presenza o te ne farò pentire, lui ne vale dieci di te» sibilò Everard. «E poi quando Hildebrand è triste, anche Solomon è triste; e quando Solomon è triste, anche io sono triste.»
«Come avrai notato» rincarò Frederick, «quando Everard è triste, io sono molto triste.»
Everard annuì. «E quando noi siamo tristi facciamo in modo che tu sia triste, come stiamo facendo ora. Sono tutti più tristi, e a nessuno piace essere triste, giusto?»
Edmund si morse il labbro e chiuse gli occhi. «Giusto.»
«Bravo, piccoletto. Noi veniamo dalla strada, e la strada ha una sola regola: non rompere il cazzo a quelli più esperti e più furbi di te. Lascia in pace Hildebrand, Solomon, Dameta... lasciaci in pace. Siamo intesi?»
Frederick gli provocò un altro gemito giusto per fare le cose per bene. «Sì» boccheggiò lui. «Ho capito, squilibrato.»
«Siccome sono buono, a differenza tua, non racconterò a tutti che ti sei fatto fregare da due umani come un allocco. Il fatto che lo saprà la tua signora è già abbastanza umiliante. Ma mi devi un favore.»
«Oh, grazie mille» sbuffò, la sua voce iniettata di odio.
«Lascialo, Freddie, sembra abbia capito.»
Frederick obbedì, poi aggiunse. «E se anche non avesse capito, provvederemmo subito a spiegarlo.»
Il ragazzo si sfregò le mani per riprendere la circolazione. Everard sapeva che quel druido, con le mani libere, avrebbe potuto ucciderli con una facilità imbarazzante. Per un attimo temette che l'avrebbe fatto, ma si limitò a imbronciarsi e balbettare: «Ti... ti pentirai di avermi sfidato.»
«Come no, immagino. Codardo» sputò Frederick.
Everard gli prese la mano. «Quelli come lui lo sono sempre. Vieni, andiamo dagli altri.»
Trovarono i druidi al secondo tentativo, in camera di Hildebrand. Lui era seduto sul suo letto a leggere un libro con aria assorta, e Solomon era steso sul pavimento a disegnare. Quando i due aprirono la porta, strinse il disegno tra le mani e se lo infilò in tasca, poi saltò in piedi. «Eccovi! Dov'eravate? Cosa è successo?»
Frederick aprì la bocca per rispondere, ma Everard lo fermò. «Non mentire, loro sanno quando menti» liquidò, per poi rispondere: «Non possiamo dirvelo.»
«E perché non potreste dircelo, di grazia?» domandò Hildebrand, che aveva alzato il naso dal libro e li fissava con aria annoiata.
«Non possiamo dirvi neanche questo» rispose lui, fiero.
Solomon si accigliò. «Dovremmo preoccuparci?»
Everard alzò le spalle, poi guardò Frederick e ghignò. Anche l'amico sorrideva. «Non più.»
A quelle parole il druido sembrò rilassarsi, invece Hildebrand lo scrutò con sguardo sospettoso, così Everard decise di accontentarlo. «Ti dirò una cosa e una soltanto di quello che ho fatto, quindi ascoltami bene: se te lo raccontassi, sono sicuro che approveresti.»
Il ragazzo, forse perché non aveva individuato alcuna bugia in quelle parole, arricciò le labbra. «Beh, questo sì che restringe il campo.»
Solomon pareva più allarmato. «Ho paura di chiederlo ma... io? Approverei?»
Everard gli rivolse un sorriso desolato. «Non credo proprio, mi spiace.»
«Questo è ancora più strano» borbottò Hilde, mentre il cipiglio preoccupato di Solomon aumentava di intensità.
Attesero con impazienza che Sigga e Dameta facessero ritorno, per più tempo di quello che avevano previsto. Dopo quella che sembrò un'eternità e che durò poco più di mezz'ora, la porta si aprì e proprio quest'ultima si affacciò all'interno della stanza.
Hildebrand drizzò la schiena e alzò le braccia per invitarla a raggiungerlo. «Che aspetti? Vieni, dai, sei stata via tutta la mattina! Ero preoccupato.»
Si infilò nella camera insieme alla compagna, e con un gesto della mano Solomon fece scattare il chiavistello della porta. Everard gongolò, anche se quella magia era molto meno di molte altre a cui aveva assistito in precedenza.
Non importava, quello era un druido, ed era anche il suo ragazzo. Poteva fare magie vere, e tra tutte le persone del mondo aveva scelto lui.
«Grandi notizie!» esclamò Sigga, che si gettò a gambe incrociate sul pavimento. «È stato splendido, davvero. Abbiamo visto George.»
Everard, al sentirlo, si illuminò. Anche Frederick sembrava entusiasta. «George?!»
«Come no, George. L'irreprensibile» borbottò Hildebrand, sarcastico. «Un mio amico di lunga data. George. In persona.»
Sigga sollevò gli occhi al cielo. «È un nostro vecchio compagno della banda. Ora lavora col fabbro, ha prestato lui il martello che ha liberato Solomon dalle manette anti magia.»
Everard fece una smorfia. Giusto, il martello. Il martello che non aveva più restituito.
«Oh, George! Mi piace!» esclamò Solomon.
«A quanto pare, sta funzionando» incalzò Sigga. «George riferisce che ci sono state le prime sommosse, qualche aggressione alle guardie. Ho riferito cosa ho visto e sentito a Ingerid, prima di venire qui: aspetteremo i druidi che vengono da più lontano e poi potremo agire.»
Everard sentì pizzicare sottopelle un terrore che aveva anche una parte di euforia. Era arrivato il momento. Era arrivato davvero.
«E non è tutto! George dice anche che il suo capo si sposa, oggi.»
Everard inclinò il capo. «Tanti auguri...?»
«Siamo invitati alla festa, stasera, in piazza del mercato. George ci ha supplicato di andare. Dopo le notizie che ci ha dato oggi glielo dobbiamo! Per festeggiare!»
Dameta applaudì, per enfasi. Hildebrand non parve gradire. «State scherzando, spero! Siamo ricercati, devo davvero essere io a ricordarvelo?»
Sigga si strinse nelle spalle. «E quindi? Noi siamo sempre ricercati, siamo ladri! Non ci ha mai impedito di andare alle feste! Dameta si è offerta di cambiarci i connotati, comunque.»
Il druido annuì, solenne.
Hilde sospirò. «Davvero, tesoro? Ma siamo tanti, ti stancherai. Sei sicura? Non credo che sia il caso...»
Lei alzò le spalle come a dire che non le importava, poi si picchiettò la guancia con una mano.
«Puoi mangiare quanto vuoi, ma ti stancherai comunque, lo sai!»
Lei alzò le spalle di nuovo e Hildebrand si voltò verso il fratello con uno sguardo incredulo in cerca di appoggio. «Solomon, di' qualcosa anche tu! Questa è una vera follia, non possiamo farlo davvero!»
«Sì, Solomon, di' qualcosa anche tu» si inserì Everard, «dobbiamo farlo per forza! Tu vuoi venire con noi, vero?»
Solomon non si fermò neanche a riflettere tra le due possibilità, guardò verso Hildebrand e assunse un'aria desolata. «Io non li lascio andare da soli. E poi hai sentito Everard, no? Ha detto che dobbiamo farlo per forza.»
Il ragazzo si prese il volto tra le mani. «Non posso crederci. Non l'hai detto davvero, mi rifiuto di crederci.»
«Perfetto, vedo che siamo quasi tutti d'accordo!» esclamò Sigga. «Hildebrand, andrai da Ingerid e le dirai che non ci siamo per cena, non si insospettirà, ha notato che cerchiamo di evitare le ore pasti, poi ce la fileremo mentre tutti mangiano!»
«Perché devo farlo io? Non volevo nemmeno venire!»
«Perché se sarà con Astrid siamo sicuri che non ti leggerà nel pensiero, non lo fa mai» spiegò Everard. «E perché, se non lo farai, la tua ragazza potrebbe mettersi a piangere. Non è vero, Dameta?»
Lei imitò coi pugni il gesto del pianto.
«Tu sei un criminale» sibilò, rivolto a Everard. «E stai giocando sporco.»
Frederick si stiracchiò con un sorriso sornione. «Ma ha anche dei difetti.»
«E va bene!» sbuffò il druido, arreso. «Ma se ci beccano è stata una vostra idea.»
Everard sorrise. «Sono scappato dal palazzo reale saltando da una finestra, non mi farò beccare come un idiota dai vostri genitori, smettila di essere così negativo.»
Note autrice
Ebbene, festa! Sarà un successo o un disastro?
Lo scoprirete nel prossimo capitolo!
Intanto, abbiamo scoperto il soprannome che Frederick ha appioppato a Everard, "Riri". Frederick è l'unica persona a chiamare Everard con un soprannome, proprio come Everard è l'unico a chiamare Frederick "Freddie". Nessun altro lo fa. L'avevate notato?
I due hanno strapazzato Edmund per bene... chissà se la cosa avrà ripercussioni in futuro.
La prossima scena sarà la festa, ma dal capitolo dopo... si balla! Avremo un bell'assalto al castello per l'utlimo capitolo (diviso in parti, ovviamente) e poi l'epilogo!
Ma non temete, ci sono ancora due libri da leggere!
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