1.1 // Il Fuoco

«Everard!» due mani ferme lo afferrarono per le spalle, e aprì gli occhi in un sussulto improvviso.

La figura di una ragazza torreggiava su di lui, per un attimo la scambiò per la donna del suo sogno, gli stessi occhi neri profondi come i pozzi sacri nei boschi e i suoi capelli intorno a lui come una tenda di seta nera.

Sbatté le palpebre nel tentativo di mettere a fuoco dove si trovava.

«Sigga» mormorò, si accorse di non avere fiato. «Cosa… cos’è successo?»

Sua sorella lo guardò, incredula, alzò un sopracciglio con aria scettica. «È successo» spiegò con un sospiro, «che ti sei messo ad agitarti nel sonno, e ad ansimare. Sembrava che ti stessi sentendo male, ecco cos’è successo.»

Lui chiuse gli occhi e li strizzò forte, lasciandosi sfuggire un lamento per essere stato svegliato. «Ho avuto un incubo, tutto qui. Ma che ore sono?»

«È il terzo questa settimana. Devi farti vedere da qualcuno, non puoi continuare così.»

«Che ore sono, Sigga?» ripeté, alzandosi a sedere sul giaciglio di coperte buttato per terra che era il suo letto.

«Il campanile ha segnato da poco le nove» rispose lei, in uno sbuffo.

Mentre Everard assimilava la risposta si sfregò gli occhi con le mani per scacciare via le tracce di sonno che erano rimaste.

Vide che il sole era già piuttosto alto e fece una smorfia; negli ultimi anni si era sempre svegliato all’alba, un ritardo del genere non era da lui. Forse sua sorella aveva ragione, quella settimana non aveva dormito quasi nulla e aveva bisogno di riposare.

Lei lo guardava con quell’aria preoccupata che di solito era il ragazzo a rivolgere a sua sorella. Non si stupì di averla scambiata per la donna del sogno, la loro madre, appena si era svegliato.

Tendeva spesso a dimenticare quanto Sigga somigliasse a sua madre, eppure rivederla in quel sogno orribile gliel’aveva ricordato.

«Perché non mi hai svegliato prima? È tardissimo, devo passare al granaio prima che Taylor mi dica che si è stancato di darmi le sue commissioni» borbottò, si appoggiò al muro scheggiato e con difficoltà e si alzò in piedi, ormai del tutto sveglio. «Non mi faranno più lavorare se mi presento in ritardo, Sigga, lo sai.»

Lei lo guardava con quella che aveva tutta l’aria di essere un’occhiata carica di commiserazione. «Sono passata io da Taylor, ho già fatto tutte le tue commissioni. Devi dormire di più, sai. Morirai se continui così.»

Everard aggrottò le sopracciglia, contrariato. «Ti ho già detto che non mi piace che ti immischi nelle mie commissioni, sai cosa pensa la gente riguardo alle donne che fanno lavori da uomini» sibilò, aggiustandosi i vestiti sporchi con cui aveva dormito e con cui sarebbe dovuto uscire.

«Portare la farina dal granaio al forno è un lavoro da uomini ora?»

Everard sollevò gli occhi al cielo. Avevano già discusso a riguardo, e lui non aveva nessuna intenzione di ricominciare. «Secondo loro sì. E non importa la tua opinione o la mia, non voglio che smettano di farmi lavorare perché pensano che abbiamo qualcosa che non va. Abbiamo bisogno di quei soldi.»

La ragazza si voltò brusca per non guardarlo, ma sembrò che neanche lei avesse voglia di litigare. «È ingiusto» commentò, a mezza voce. Non negò quello che Everard aveva detto.

Lui sapeva quanta verità c’era in quelle parole, sapeva il rischio che la sorella avrebbe corso nel vivere una vita come voleva, sapeva che farla stare al suo posto era importante per la vita di entrambi e sapeva che avrebbe tifato per lei, la avrebbe sostenuta nel fare quello che più desiderava, se avesse potuto.

Ma non poteva.

«Lo so» concesse lui, passandole le dita tra i capelli. «Andiamo al mercato, puoi comprarti un pezzo di pane dolce se vuoi, ti tirerai su» propose, in segno di pace. Per chiunque altro sarebbe stato poco, quasi nulla, ma per ciò che avevano era il regalo più grande che fosse riuscito a immaginare.

Sigga strinse la moneta che Taylor le aveva dato per la consegna tra le mani, si voltò di sbieco e gli sorrise. «Andiamo.»

Non appena furono fuori e il sole li investì, Everard si accorse subito che qualcosa non tornava. 

I suoi occhi saettarono da una parte all’altra della strada deserta.

Fu Sigga a dare voce al suo turbamento: «Ma dove sono tutti? Qualche ora fa era pieno di gente, in strada!»

Everard si accigliò. Quella calma strana e innaturale aveva qualcosa di sinistro, qualcosa che non gli piaceva affatto, che poteva avere a che fare solo con il Re, la stessa persona che una notte di quindici anni prima aveva ucciso il loro padre e preso il potere con terrore e violenza.

Si mordicchiò il labbro, pensieroso, e le sfiorò il braccio con la mano. «Forse è meglio se torniamo dentro. Oggi non è aria.»

«Non ci pensare neanche. Hai detto che avrei avuto del pane dolce e lo avrò, con te o senza di te» rispose, e il ragazzo seppe che non ci sarebbe stato verso di convincerla a rinunciare.

Sospirò. Non l’avrebbe mai lasciata andare da sola. «E va bene, ma occhi aperti, siamo intesi?»

«I miei occhi sono sempre aperti, dovresti saperlo» cinguettò lei, camminando spedita verso la piazza del mercato.

Le vie della città erano più silenziose del solito. Videro il figlio della sarta passare loro accanto con un sacco sulle spalle, e una donna con un bambino in braccio infilarsi nella porta di casa e serrarla dietro di sé con un secco rumore metallico; le poche persone che come loro camminavano per le strade cittadine andavano tutte in direzione opposta a quella del mercato, alcuni piuttosto di fretta, tutti in silenzio; fatto assai strano, dal momento che al mattino i cittadini si recavano verso il mercato e solo al pomeriggio il flusso di persone si dirigeva di nuovo verso i campi e la periferia.

Man mano che si avvicinavano a destinazione iniziarono a sentire rumori concitati, un brusio crescente di una folla numerosa che però teneva uno strano riserbo; un contadino che una volta aveva donato a Sigga un barattolo di conserva di uva spina se ne tornava fuori città, una pecora che doveva aver provato a vendere camminava stanca dietro di lui, una corda al collo, con le zampe che schioccavano sull’acciottolato della strada. L’uomo aveva un’ombra scura sul volto.

«Scusate, signore, sapete cos’è accaduto?» chiese Sigga, quando lui passò loro accanto. «Perché ve ne state andando così presto? Perché se ne vanno tutti?» 

Il contadino alzò gli occhi stanchi verso di lei ma non ricambiò il suo sorriso gentile. «Il mercato è chiuso oggi» disse, caustico, «stanno costruendo una pira. La folla si è riunita a vedere lo spettacolo.» 

Era evidente dal tono della sua voce l’opinione che aveva del suddetto spettacolo e di chi era rimasto a osservare come un avvoltoio in attesa della carcassa da spolpare. Everard si accorse di condividere quel sentimento, anche se qualcosa gli suggeriva che avrebbe dovuto proseguire.

Sigga schiuse le labbra in un’espressione stupita. «Una pira? È la prima in quanto? Due anni?»

«Tre» sussurrò Everard. «Forse di più.»

Il contadino riprese a camminare senza rivolgere loro neanche un saluto o un gesto di commiato, gli zoccoli dell’animale risuonavano sempre più piano sui ciottoli della strada man mano che si allontanavano verso i campi.

«Voglio vedere cosa sta succedendo» sussurrò lei con quella che poteva essere scambiata per eccitazione, ma con una vibrante nota preoccupata che agitò Everard ancora di più.

C’erano solo due tipi di reati che si pagavano con il fuoco, solo due colpe che potevano essere espiate dalle fiamme: un attentato alla vita del sovrano e la stregoneria. 

Era da anni ormai che nessuno si azzardava a colpire il Re o anche solo i suoi uomini più fidati. Per quanto riguardava la stregoneria, quasi tutti i druidi erano stati bruciati vivi entro i primi anni dopo la Notte delle Fiamme, e i pochi sopravvissuti si guardavano bene dal praticare la magia dove potevano essere visti.

Entrambe le opzioni sembravano incredibili, e questo non fece che aumentare la curiosità.

«Anch’io» rispose lui, sorprendendosi di sé stesso. Non riusciva a immaginare come qualcuno potesse desiderare di assistere a una tortura del genere, potesse rallegrarsi nel sentire le urla di una persona divorata tra le fiamme, eppure sapeva che quello era il posto dove doveva andare. Guardò Sigga negli occhi e vide riflessa in essi la stessa certezza.

Man mano che si avvicinavano alla piazza del mercato, il brusio crebbe di intensità, lo seguirono sinché la stretta via di periferia non si aprì in una strada più grande, e infine sulla piazza.

Everard trattenne il fiato, osservando con occhi spalancati dall’orrore la scena che gli si presentava davanti. La folla era tanta che le pietre che lastricavano il pavimento non erano più visibili; tutte le bancarelle che ogni mattina affollavano il piazzale erano state smantellate e ammassate in un angolo, alcune smontate, altre, di quelli che forse avevano fatto resistenza alla chiusura, in pezzi; buona parte del loro contenuto era stato gettato in un grande carro portato da quattro cavalli con lo stemma della corona, e sei dei soldati del Re parlavano a bassa voce tra loro; al centro della piazza avevano già montato il palo e ammassato la legna, tanta che avrebbe potuto tenere al caldo una famiglia per tutta la stagione fredda; la folla intorno mormorava a occhi sgranati, non sembrava godere di quello che vedeva. Nessuno sorrideva compiaciuto a parte le guardie in divisa, la folla forse più indignata per l’interruzione degli affari e per la perdita di profitto che per la vittima.

Un ragazzo che avrebbe potuto avere l’età di Sigga, non tanto di più, vestito con una tunica nera lunga sino ai piedi, venne trascinato sulla catasta di legna. Un soldato si preoccupò di legarvelo con una corda, e lui non fece resistenza né emise fiato, non pregò di essere risparmiato; era pallido e aveva i capelli bianchi, così come le ciglia e le sopracciglia, quasi invisibili. Stava fermo immobile mentre aspettava il suo destino, le labbra serrate, gli occhi di un verde vibrante guizzavano da un lato all’altro della piazza spalancati dal terrore, stava tremando.

Il suo sguardo terrorizzato si posò sui due fratelli e infine si fermò, trafiggendoli come una lancia, e in quel momento sembrò che la sua paura si fosse dissolta.

Everard si fermò come immobilizzato a fissarlo. Sino al momento prima il ragazzo era sembrato nel panico, ma da quando i loro sguardi si erano incrociati sembrava sereno, tranquillo, lo osservava con curiosità e pareva che si fosse messo ad aspettare con pazienza che accadesse qualcosa, anche se Everard non avrebbe saputo dire cosa. Aveva persino smesso di tremare.

La pelle bianca e i guanti di metallo che portava, usati per contenere la sua magia, lo identificavano per ciò che era. «È un druido» sussurrò a Sigga, che annuì.

«Non mi piace» commentò a mezza voce la ragazza.

«Neanche a me» rispose lui con un sussurro. «Non l’hanno neanche sedato, animali.»

Spesso gli affetti del condannato pagavano un supplemento alle guardie per stordirlo prima dell’accensione del fuoco, per ridurre l’agonia delle fiamme. Il ragazzo non doveva avere famiglia o qualcuno disposto a pagare per lui, o forse i soldati avevano deciso di non accettare l’offerta.

Everard si buttò tra la folla, anche se l’ultima cosa che avrebbe voluto era sentire le urla di quel ragazzo mentre le fiamme lo divoravano un pezzo alla volta, e Sigga lo seguì. Si infilarono tra la gente, i loro corpi smagriti li aiutavano a passare inosservati e arrivare in prima fila.

Il druido li seguì con lo sguardo mentre sgomitavano, attento come un gatto, e non tornò ad agitarsi neanche quando una delle guardie si stiracchiò annoiata, prese una torcia dal carro e la accese in un braciere che stava per terra. Sembrava che all’improvviso si fosse dimenticato di stare per morire, si limitava a guardare Everard e Sigga con una calma inspiegabile.

La guardia abbassò la torcia sulla legna e tutti i muscoli nel corpo di Everard si tesero in modo doloroso.

Rivide il soldato che aveva gettato la torcia accesa nella sua casa quella notte, sentì ancora le urla di sua madre e gli si specchiò negli occhi neri il rosso del fuoco che veniva da dentro la finestra. La visione cambiò e davanti a lui apparve la donna che aveva salvato la vita a lui e Sigga, tanto simile a quel ragazzo da farlo rabbrividire.

Everard pensò che forse quelli della sua specie erano tutti così, pallidi come cadaveri, sottili e dall’aspetto regale, con i capelli bianchi e gli occhi verdi tanto vivi.

Il pensiero che il soldato che teneva la torcia e l’avrebbe gettata sulla catasta di legna potesse essere lo stesso che aveva bruciato la sua casa, con sua madre ancora all’interno, lo colpì come una frustata. Sapeva che era quasi impossibile, che erano passati tanti anni, che il Re aveva centinaia guardie che venivano trasferite di continuo, ma in quel momento quella guardia era la stessa di tanti anni prima, e quel ragazzo era come se fosse il druido che lo aveva aiutato a scappare.

Non ringraziarmi. Un giorno mi renderai il favore.

In quel momento seppe che non avrebbe permesso che venisse bruciato vivo, lo sentì nelle viscere. Quel druido sarebbe tornato a casa con loro, o neanche lui ci avrebbe messo piede mai più.

Per giustiziarlo sarebbero dovuti passare sul suo cadavere.

Non che per loro valesse qualcosa.

Il ragazzo lo stava ancora fissando, da quando l’aveva visto la prima volta non doveva aver mai distolto lo sguardo.

In quel momento aveva un sopracciglio un po’ alzato, come se gli domandasse in silenzio cosa stesse aspettando ancora lì fermo come un idiota, ed Everard vide che le sue labbra pallide si piegavano in un sorriso che era rivolto proprio a lui e a nessun altro. Si accorse di aver preso in mano il suo pugnale solo quando lo porse a Sigga invitandola ad afferrarlo, non ricordava il momento in cui aveva deciso di tirarlo fuori dalla tasca.

La ragazza lo guardò e annuì. «Va bene» mormorò, «va bene, ci sto. Facciamolo.»

Appena lei lo ebbe preso Everard saltò in avanti, e senza neanche dare il tempo alla folla di sussultare diede una spinta alla guardia più vicina e fece volare la torcia accesa sul pavimento in pietra, facendola spegnere in uno sbuffo di fumo.

Sigga, rapida e silenziosa, era saltata sulla catasta di legna e con il pugnale aveva dato un taglio netto alla corda che ancorava il druido al palo. La ragazza afferrò la catena tra i guanti di metallo del druido e lo trascinò giù.

La reazione delle guardie fu immediata, ma quella degli astanti lo fu altrettanto.

Due soldati armati si lanciarono all’inseguimento, ma la folla si aprì per lasciare scappare i ragazzi in fuga e poi si richiuse, bloccando loro la strada.

La guardia che aveva tenuto la torcia sguainò la spada e Everard pensò davvero che sarebbe morto, ma non si pentì di quello che aveva fatto neanche in quell’ultimo momento.

L’attimo prima che la spada lo trapassasse, un falegname del quartiere che Everard conosceva di vista si lanciò sulla guardia rovesciandola a terra bloccando la mano che impugnava l’arma col suo peso.

Successe tutto in fretta; il falegname urlò e vomitò un fiotto di sangue sul pavimento; la guardia lo scalciò via e tentò di rialzarsi, ma non poteva. La folla si era sollevata e non c’era modo di fermarla; un gruppo di uomini e donne del mercato aveva afferrato legna dal fondo della pira e si era avventato sulla guardia riversa in terra percuotendola coi bastoni; il padrone del granaio che Sigga aveva visto quella mattina aveva rovesciato il braciere con un calcio sul carro dei soldati e questo aveva iniziato a prendere fuoco; qualcuno doveva avere liberato i cavalli che lo guidavano, perché travolsero i loro padroni e qualche passante che aveva avuto la sfortuna di ritrovarsi sul loro cammino e schizzarono per le strade della città, ancora legati tra loro in una corsa folle.

Everard capì che era arrivato il momento di defilarsi e la folla lo fece passare con deferenza, mentre si accaniva sulle sei guardie armate che avevano già ucciso due uomini dopo il falegname ma che a malapena teneva a bada tutta quella gente.

Vide Sigga che continuava a correre trascinando il ragazzo per la catena e la raggiunse. Altre persone, uomini e donne con attrezzi da lavoro e bastoni, correvano verso il centro della piazza per aggiungersi alla piccola rivolta.

Quando furono a destinazione, Everard spalancò la porta e volò all’interno, buttandosi in ginocchio e piegando le coperte come una sacca, ammucchiandovi i loro pochi averi.

«Prendi tutto, ce ne andiamo» ordinò secco, scandagliando la stanza con lo sguardo alla ricerca di qualcosa che potesse tornare utile.

«Cosa?» domandò Sigga, ansimando per la corsa. Aveva lasciato andare la catena del druido e portato le mani al petto in cerca di riprendersi. 

«I vicini sanno che viviamo qui. Qualcuno verrà a prenderci, ci uccideranno.»

«E dove andremo?»

«Da Freddie. Lui saprà cosa fare. Ci nasconderà.»

Prima che Sigga potesse protestare, il druido parlò. 

«Non verrà nessuno a prenderci» disse, soltanto. Era la prima volta che rivolgeva loro la parola, anche se avevano corso insieme per minuti interi. «Non c’è bisogno di affrettarsi.»

Everard restò un attimo interdetto a guardarlo. La sua voce, morbida eppure gelida come l’acciaio, gli risvegliò ricordi seppelliti nel petto. Si riprese dalla sensazione di dejà vu e scosse la testa per concentrarsi su quello che aveva da dire.

«Senti» disse, in tono più paziente possibile. «Lo so quello che hai visto. Lo so che ti sembra che quelle persone vogliano aiutarci, ed è vero, ma se verranno interrogate diranno chi siamo alle guardie, dove ci troviamo. Ci consegneranno per salvarsi la pelle. Dobbiamo andare via subito.»

«Non è per questo» rispose il ragazzo, la cui calma non vacillò, «la casa è protetta con la magia. Nessuno che rappresenta una minaccia per i suoi abitanti può mettere piede qui dentro» spiegò, per poi accennare un sorriso. «Apparteneva a un druido, vero?»

Sigga annuì. «È per questo che l’abbiamo scelta, perché se fossimo stati qui nessuno avrebbe voluto rubarci il posto, si pensa che sia maledetta. Per questo, e perché è una topaia. Non interessa a nessuno.»

«La persona che viveva qui ha fatto un incantesimo molto potente, che non si è ancora spezzato. Nessuno entrerà a prenderci, a meno che non arrivi un altro druido altrettanto potente interessato ad annullare l’incantesimo. Non penso che accadrà a breve.» 

Everard arricciò le labbra, sospettoso. «Come fai a saperlo? E come facciamo a sapere che possiamo fidarci di te?» 

Il druido non smise di sorridere, anzi, alle sue proteste il suo sorriso si allargò, illuminandogli il volto. Everard lo capiva. Se avesse rischiato di venire bruciato vivo e si fosse trovato libero avrebbe sorriso in quel modo anche lui.

«Lo so perché sono un druido e percepisco la magia. E puoi fidarti di me perché quelli vogliono la mia pelle più che la tua, nel caso in cui non te ne fossi accorto. Non ho nessun motivo di mentire a te.»

Sigga scrollò le spalle. «Non è che abbia tutti i torti.» 

Everard le lanciò un’occhiata incerta, poi spostò ancora lo sguardo sul ragazzo che aspettava una risposta. Si chiese se avesse paura di essere mandato via, rispedito tra le mani delle guardie.

Non c’era nessun motivo per cui si sarebbe dovuto fidare di loro, era lui la persona in svantaggio ed era lui che rischiava la morte. Everard e Sigga avrebbero potuto riportarlo indietro e raccontare di averlo riacchiappato tutto da soli, per essere ringraziati con una buona ricompensa. Quel pensiero gli fece venire la nausea, e il dubbio che il druido potesse sospettare che lo avrebbero tradito dopo tutta la fatica che avevano fatto per portarlo lì lo indignò tanto da riscuoterlo dai suoi pensieri.

«Siediti, sarai stanco» gli disse, dopo un lungo silenzio, e vide che le spalle del ragazzo si rilassavano e che gli occhi gli si erano accesi di sollievo. «Sigga, dagli qualcosa da mangiare.»

Sua sorella sorrise e fece un salto in avanti, dandogli un bacio sulla guancia, poi si voltò verso il druido, eccitata. «Ma certo, cosa desideri? Abbiamo dell’ottimo formaggio di pecora, un po’ di formaggio di pecora e degli avanzi di formaggio di pecora.» 

Il druido rise, una risata breve ma musicale. Ora che iniziava a rilassarsi sembrava ancora più giovane e un pochino più umano. «Non so, devo pensarci» disse, e si sedette sul pavimento come Everard aveva detto. «Non ho proprio voglia di formaggio di pecora, mentre il formaggio di pecora mi tenta molto.»

«Non uscite per nessun motivo sinché non torno» li interruppe Everard, il suo tono asciutto si ammorbidì guardando sua sorella incuriosita. Sapere che avevano fatto qualcosa di buono lo faceva sentire più leggero.

Sigga restò immobile per un attimo, poi gli rivolse uno sguardo incredulo. «Non vorrai tornare là? Ti uccideranno!» 

«No, certo che no. Passo da George.» Fece un cenno verso il druido seduto sul pavimento. «Non può tenere quella roba sulle mani tutto il giorno.»

Lei si voltò a guardare l’ospite, che li osservava con pacata curiosità, e poi i suoi occhi si fissarono di nuovo in quelli dell’altro. «Stai attento.» 

«Tornerò il prima possibile» sussurrò, poi le stampò un bacio sulla fronte. «Non uscite per nessun motivo e non fate niente di stupido. Se lo vedi comportarsi in modo strano o ti mette in pericolo, buttalo fuori» disse, e sparì oltre la porta.

Note autrice
E così abbiamo finalmente conosciuto i protagonisti della storia, nelle loro età correnti e non dei semplici bambini.
Everard e Sigga hanno salvato il druido e si sono rifugiati nella loro casa, protetta dalla magia.
Everard si è lasciato intenerire dagli occhioni verdi di Solomon e, tra l’odio per le guardie che hanno ucciso sua madre e la simpatia per i druidi che hanno salvato la vita a lui e sua sorella, con la sua spinta alla guardia ha dato il via alla rivolta del mercato.
Questo momento, il momento in cui le persone comuni iniziano a sollevare la testa e non poterne più delle politiche della corona, dà l’avvio a tutta la storia.
Per il momento Everard e Sigga sono stati protagonisti indiscussi, per cui vi chiedo che ne pensate di loro e quale dei due vi sta più simpatico. Solomon Al momento ha detto due parole in croce, per cui potete risparmiarvi il giudizio sino al prossimo capitolo!

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