1.0 Prologo // Il Fuoco

«Everard, prendi tua sorella e scappa» la donna protesa su di lui, i suoi occhi neri spalancati dal terrore, lo stava pregando tra le lacrime. «Tesoro, ascoltami, prendi tua sorella e vattene.»

«Vattene dove? Tu... tu non vieni?»

«Io vi raggiungo dopo. Vi raggiungo dopo con papà.»

La vide abbassarsi ancora, sentì che inspirava forte e gli stampava un bacio tra i capelli. Everard seppe di stare tremando, anzi, tremavano entrambi.

Le grida in lontananza si fecero sempre più vicine, decise di non farci caso. Non era tempo di preoccuparsi di questo, doveva pensare alla sua famiglia e nient'altro. Dalla finestra alta e lunga veniva una luce rossastra che brillava nel mezzo della notte, qualcuno aveva appiccato un fuoco.

«Va' verso il fiume, salite su una barca. Nascondetevi là dentro e aspettate sinché qualcuno non salperà al mattino. Non dite chi siete e come vi chiamate per nessun motivo, a nessuno, mai, qualunque cosa accada» intimò, gli prese il viso saldo tra le mani e lo baciò ancora, sulla fronte e poi sul naso.

«Ma come farai a trovarci, se saliamo su una barca e aspettiamo che salpi? Ci salirai anche tu?»

Lei scosse la testa, i ricci neri si abbassarono sul bambino e gli sfiorarono il volto teso nel guardare la madre. Le grida si fecero più vicine, un botto improvviso fece tremare la terra sotto i piedi. «No. Non salirò sulla barca. Verrò a prendervi dopo.»

«Come farai a venire a prenderci se non sai dove andiamo?»

Sorrise, e a Everard sembrò la visione più bella e più straziante del mondo. «Lo so e basta. Andate, ora. Io devo andare ad aiutare papà.»

Sigga dormiva sul letto dei suoi genitori come sempre, non si era ancora svegliata; non era mai disturbata dal rumore, la mamma diceva sempre che avrebbe potuto continuare a dormire anche se fosse crollato il soffitto, aveva ereditato quella fortuna da suo padre. La donna la sollevò e dopo aver dato un bacio anche a lei, mentre un singhiozzo le faceva scuotere il petto, gliela mise tra le braccia.

Sigga aveva tre anni ed Everard otto, era abituato a tenerla in braccio, era piccola per la sua età e lui ne avrebbe sempre sopportato il peso. La strinse a sé e lei si aggiustò nel sonno, accucciandosi con la testa sulla sua spalla.

«Buona fortuna, amore mio» sussurrò la donna, Everard annuì.

«Ci vediamo domani, allora. Giusto?» domandò, e a quelle parole un senso di angoscia si allargò dentro di lui come una goccia di inchiostro nell'acqua.

«Ci vediamo domani, esatto» rispose, e tenendoli entrambi li sollevò, avvinghiati, e posò Everard sul davanzale della finestra.

Lui si infilò per la feritoia e guardò giù, poi rivolse di nuovo lo sguardo a sua madre, che annuì incoraggiante.

Il davanzale non era molto alto, un metro e mezzo al massimo, e lui era saltato giù proprio in quel punto per raggiungere gli amici almeno un milione di volte, ma nessuna di queste con la sorella in braccio.

Ora che era abbastanza in alto da vedere cosa stava succedendo, realizzò che la città era in fiamme. Urla di terrore, imprecazioni e il clangore delle armi squarciavano la notte luminosa; le guardie reali erano sparpagliate per la via, più di quante ne avesse mai viste tutte insieme, si affacciavano alle porte delle case e buttavano all'interno delle torce accese, accendevano il rogo e passavano all'uscio successivo.

Chiuse gli occhi e saltò, atterrando leggero come un gatto; era sempre stato agile, era l'abilità nelle risse quella che gli mancava, fatto che i suoi compagni provvedevano a ricordargli con costanza irritante. Sentì Sigga sussultare tra le sue braccia, la botta doveva averla svegliata; scoppiò a piangere sulla sua spalla, ma non attirò l'attenzione di nessuno. Solo lui che la teneva vicino all'orecchio poteva sentirla, il caos regnava per le strade e le grida degli abitanti di Bürgann erano più forti del pianto di una sola bambina.

La strinse a sé col braccio destro e con la mano sinistra le accarezzò i capelli sulla nuca. Un cavallo in corsa apparve all'angolo e quasi li travolse, ma il bambino riuscì ad appiattirsi al muro appena in tempo. Everard attraversò la strada di corsa cercando con gli occhi la via per il fiume in quel caos.

Guardò indietro verso casa, delle guardie del Re spalancarono con un calcio la porta e buttarono dentro torce ardenti. Alzò lo sguardo alla finestra da cui era saltato e vide una luce vermiglia divampare all'interno. Sentì l'urlo di sua madre. Sigga pianse più forte.

«Tranquilla, ha detto che poi ci raggiunge. Vedrai che domani viene a prenderci, io mi fido» sussurrò al suo orecchio, ma lei non diede segno di avere sentito o capito quello che aveva detto. «Domani, Sigga, solo domani. Mamma ha detto che ci vediamo domani. L'ho sentita io, te lo giuro, ha detto proprio così.»

Guardie e civili correvano in ogni direzione, le strade disseminate di corpi dilaniati, vividi e brillanti nella notte illuminata dalle fiamme, quasi più sgargiante di mezzogiorno. Everard pensò che doveva essere un sogno, un sogno di quelli strani, e non pianse.

Trovò la strada e iniziò a correre verso il canale, perché sua madre gliel'aveva chiesto. Corse lungo la via, scartando le persone in fuga perché non gli venissero addosso. Sigga strillava più forte di quanto l'avesse mai sentita strillare in tutta la sua vita, i singhiozzi raspavano come una lama che gratta la corteccia di un albero e per un attimo ebbe paura che fosse sul punto di smettere di respirare.

Nessuno parve fare caso a loro all'inizio, i civili impegnati a scappare, i soldati a fare mattanza per le strade e dare a fuoco le case. Travolse un'oca che correva per la strada starnazzando, scappata da qualche dimora di contadini, ma non ci badò. Vide un bambino riverso a terra, doveva avere l'età di sua sorella, forse un anno in più. Aveva la testa schiacciata come un'arancia calpestata, non avrebbe saputo dire se dallo zoccolo di un cavallo o dalla mazza di un soldato. Vide un sacchetto di monete semiaperto, pieno d'oro, caduto a qualcuno durante la fuga; si buttò a prenderlo, ficcandoselo in tasca. Non aveva mai rubato, non ne aveva mai avuto bisogno, ma per qualche motivo sapeva che quella volta era importante.

Il fiume non era lontano, a breve si sarebbe ritrovato al canale, allontanandosi dal centro della città. Non avrebbe deluso sua madre, non avrebbe potuto. Non avrebbe deluso suo padre o sua sorella, che non capiva ancora la gravità della situazione eppure era disperata. Forse sentiva il bisogno di adeguarsi a ciò che aveva intorno, per questo stava piangendo tanto. Everard imboccò una via più stretta, quasi un corridoio, e calpestò i resti della frutta già spappolata sui ciottoli che prima era stata su qualche bancarella. La sua mente tornò alla testa spaccata del bambino sulla strada, ma ignorò il senso di nausea che gli invase lo stomaco.

Il bagliore scarlatto delle fiamme iniziava a svanire nella notte man mano che si allontanava di corsa, nella direzione opposta al massacro, con le braccia che iniziavano a far male. In quella parte della città ogni porta e finestra era stata serrata, ogni feritoia chiusa, la massa di persone indistinta e urlante si diradava in tutte le direzioni.

Scartò in un vicolo solitario, nessuno in vista davanti a suoi occhi, e riuscì quasi a sentire il rumore delle acque del canale e l'acre odore della laguna. Era vicino.

Fu proprio quando il suo cuore si riempì di speranza che sentì delle braccia forti afferrarli entrambi e strillò, pronto a lasciare andare Sigga e dirle di correre il più possibile, pronto a girarsi e a fare qualsiasi cosa per tenere l'uomo lontano da sua sorella, prenderlo a calci, mordergli le gambe come un cane.

Non ne ebbe la possibilità. Sentì una lama premergli sul collo, dei respiri pesanti nel suo orecchio, un gemito di sforzo divertito, e fu certo che fosse finita. Alzò gli occhi verso il cielo, non si vedevano stelle, e affidò il suo ultimo pensiero a Ottar.

Fu allora che sentì tutti i muscoli del corpo del soldato tendersi nello stesso istante e riuscì a divincolarsi e saltare a terra. Si voltò e vide l'uomo, gli occhi anneriti come bruciati dal fuoco, cadere sulle ginocchia con la bocca spalancata in un urlo muto. La sua divisa da soldato, scura dai riflessi argento, rifletteva la scarsa luce che riusciva a penetrare attraverso la coltre di fumo che oscurava la luna, il fuoco che divampava nel quartiere dei nobili ormai lontano, coperto dagli edifici ammassati della periferia. Non sprecò su di lui più di un breve sguardo terrorizzato, e sollevò gli occhi neri profondi sulla figura che si trovava dietro di lui.

La donna era minuta, ma la sua figura era imponente; i capelli candidi le ricadevano sulle spalle e lungo la schiena, le labbra così sottili da essere quasi invisibili, e non aveva ciglia né sopracciglia; i suoi occhi erano di un verde silvano quasi bestiale, spaventosi e vividi; portava una lunga tunica a fili d'oro, e sul collo aveva impresso a fuoco il marchio di Ingar, il dio a guardia dell'oltretomba: era un druido, un essere capace di magia.

«Vattene via» disse la donna, e la sua voce sembrò allo stesso tempo dolce e morbida, fredda e tagliente. «Vattene da qui, e non voltarti indietro.»

«Grazie» rispose il ragazzo, sempre più convinto che si trattasse di un sogno.

«Non ringraziarmi. Un giorno mi renderai il favore.»

Everard non si fermò a chiedersi cosa significassero quelle parole, né come facesse il druido a dirle con quella certezza grave e definitiva. Tutto quello che riusciva a tenergli i piedi per terra era la bambina che teneva tra le sue braccia, che aveva smesso di piangere e ripreso a dormire. Se fosse opera del druido o semplice irrazionalità tipica dei sogni era impossibile da determinare, forse si trattava di entrambe le cose.

Riprese a correre, pervaso dalla certezza che avrebbe raggiunto il canale e sarebbe riuscito a infilarsi in una barca, insieme alla consapevolezza crescente e dolorosa che sarebbe successo qualcosa di terribile. Lo sapeva come se l'avesse già fatto, come se fosse già saltato sulla barca di pescatori tinta di verde sporco, come se avesse già visto la rete incastrata a quel chiodo arrugginito appena sopra il remo di sinistra...

Svoltò di nuovo e si ritrovò al canale. Quando il suo sguardo si posò sull'imbarcazione che sapeva ci sarebbe stata, il suo cuore non indugiò. Corse sul pontile con agilità e si infilò nella barca tinta di verde che sapeva di avere già visto, anche se non era mai stato lì prima di allora. Ammucchiò delle reti sul fondo e vi posò Sigga, poi si tolse la maglia di tela che aveva addosso, quella che usava per dormire, e la coprì. Si stese accanto a lei e chiuse gli occhi, certo dentro di lui che la notte non era finita. Quando il suo sguardo si fermò sulla rete incastrata nel chiodo sulla sinistra la sua schiena fu percorsa da un brivido che nulla aveva a che vedere con il vento che sferzava a quell'ora tarda, tipico della stagione, che stava aiutando ad alimentare il fuoco.

Sentiva il freddo della notte pizzicargli il petto, ma lo ignorò con un nodo in gola; l'aria era pesante, quasi densa, e il fumo che oscurava la luna e le stelle iniziava ad abbassarsi per via del vento e a raschiargli i polmoni. Aveva le braccia indolenzite per aver stretto Sigga tanto a lungo, e le urla si facevano sempre più basse, ormai quasi tutti dovevano essere scappati o morti. Sentì una voce familiare gridare e schizzò a sedersi, spiando il pontile affacciandosi dal bordo dell'imbarcazione.

Un bambino che poteva avere circa la sua età, vestito di raso rosso ricamato in oro, i capelli dai riflessi chiari sconvolti dalla corsa e le guance gonfie per lo sforzo, camminava verso le barche con solenne determinazione. Dietro di lui un uomo lo seguiva a gran passi per raggiungerlo, vestito di nero, lo stemma di famiglia appuntato sul petto. Era quasi impossibile riconoscerne le sembianze al buio ma Everard lo avrebbe riconosciuto sempre, ovunque.

«Vostra maestà» rantolò, zoppicava. «Vostra maestà, dovete andare via subito.»

Il bambino si voltò a guardarlo, e l'uomo si fermò per tenersi il fianco. Lord Henry Danneville, padre di Everard e Sigga, sembrava molto più vecchio di quando l'aveva visto solo poche ore prima, prima che le campane iniziassero a suonare e sparisse nella notte dopo un breve bacio a sua madre. Everard guardò suo padre e capì che quella era l'ultima volta che l'avrebbe visto, ma l'idea non gli fece venire voglia di urlare. Fu come sentire una vecchia ferita che torna a pizzicare prima della stagione delle piogge.

«Salite su una barca, Signore, pregherò che la corrente vi porti in salvo. Dovete andare via subito.»

Il bambino non degnò Henry di una risposta, ma si voltò e riprese a camminare a passo spedito. Passò accanto alla barca su cui stavano i due fratelli ma se li vide non diede segno di averlo fatto. Forse, tra le tante cose strane che gli erano successe quella notte, la presenza di due bambini sul fondo di un peschereccio sembrava un particolare da niente. L'uomo sospirò di sollievo vedendo che il bambino seguiva il suo suggerimento, ma quando il piccolo arrivò all'altezza dell'ultima barca non si fermò. Ora dava le spalle a entrambi, Everard non riusciva a vedere la sua espressione mentre guardava le acque nere del canale e si chiese quale avrebbe potuto essere. Dopo qualche secondo che parve interminabile, saltò.

Lord Henry gridò, e suo figlio desiderò imitarlo, ma si accorse presto di non poter muovere un muscolo, non importava quanto volesse urlare, attirare l'attenzione o saltare a sua volta e tirare su il bambino. Forse era la paura cieca e stordente che iniziava a venire a galla dopo averla tenuta a lungo sotto il tappeto; forse era un'altra irrazionalità del sogno, in cui a volte non potevi fare qualcosa solo perché in quel mondo andava così; forse era un incantesimo di qualche druido nei paraggi che si divertiva a fargli qualche brutto scherzo; forse stava per morire o era già morto.

«Danneville» una voce risuonò, tremante di rabbia. «Danneville, dov'è mio nipote?»

Everard non poteva voltarsi di nuovo a guardare, e se anche avesse potuto non l'avrebbe fatto, perché sapeva quello che stava per succedere.

«È annegato, mio Signore» disse Henry, e in quel momento dalla voce gli parve vecchio di mille anni e piccolo e indifeso come sua sorella allo stesso tempo.

«Menti.»

«È la verità, Signore, lo giuro, l'ho buttato nel fiume come avevate chiesto.»

«Dov'è Richard, Danneville? Non lo chiederò un'altra volta.»

«L'ho spinto nel fiume, Signore, è andato giù e non è più salito. È morto.»

Everard continuava a fissare l'acqua là dove il bambino si era buttato, le onde increspavano ancora il punto in cui era affondato.

«Everard» disse sua sorella, che non avrebbe dovuto, visto che stava dormendo. Il ragazzo sentì un brivido. Questo non andava secondo i piani.

«Sei solo un essere inutile. Ti pentirai di avermi disobbedito.»

Il ragazzo vide qualcosa luccicare sull'acqua, come un barlume dorato, e pensò che potesse essere il bambino che era riuscito a nuotare e andarsene come suo padre sperava, oppure forse era un gioco del riflesso del fuoco sull'acqua.

«Everard, che succede?» chiese Sigga, ma la sua voce era diversa.

Sentì il rumore di una spada sguainata, e poi Lord Henry urlò.

Note autrice
Bimbi Everard e Sigga, alle prese con la Notte delle Fiamme.
Prestate molta attenzione a questo flashback, perché c'è un dettaglio in particolare che vi spoilera in realtà un momento centrale del secondo libro (vi dico già che a circa tre annetti dalla pubblicazione di questa storia, ancora non l'ha notato nessuno - almeno, sin quando non lo faccio notare nel prossimo libro).
Oltre a questo piccolo dettaglio, la Notte delle Fiamme così come è raccontata in questo capitolo dà un senso a tutto ciò che andremo a narrare d'ora in poi.
Nel prossimo capitolo ritroveremo Everard e Sigga più grandi, rispettivamente a ventitré e diciotto anni, così potrete conoscerli meglio.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top