Capitolo XIII: Meeting for breakfast

  Il giorno stesso in cui trovai la forza di riaprire gli occhi, decisi che tutto ciò che avevo attraversato meritava di essere messo nero su bianco. Fu un pensiero istantaneo, come quando ti ritrovi un esame in scadenza e passi la notte sui libri, e dopo essere crollata sulle pagine di qualche vecchio autore deceduto ti svegli di soprassalto con tutte le parole già pronte per essere impilate in un discorso. Sapevo cosa avevo visto, sapevo cosa avevo sentito, e mentre provavo a stringere la luce della realtà tra le dita tanto forte da aggrapparmici e tornare indietro, la mia mente si ripeteva a ritroso le parole da dire, le sequenze da non dimenticare.
Non potevo dimenticare, ora che ero diventata una testimonianza vivente.
Quando il calore della pelle di Mya venne meno, il giorno del mio risveglio, la sicurezza che avevo acquisito nei momenti precedenti a quel violento depredaggio venne meno, lasciandomi incerta. Ero ancora capace di svegliarmi? I minuti che impiegai per sforzarmi di tenere alta la linea dei ricordi mi sembrarono un'eternità, ma alla fine riuscii a sollevare quelle stramaledettissime palpebre e il mondo circostante mi sembrò improvvisamente un universo sconosciuto.
Trovai di fronte a me un dottore di cui non conoscevo nemmeno il nome; non sapevo in che ospedale mi trovassi, quali fossero le mie condizioni, in che reparto fossi ricoverata.
Scoprii ben presto che la mia mente non fosse più capace come prima di ragionare sulle cose più semplici o di saper fare gran lunghi discorsi, ma almeno ricordava e questo era già un grandissimo passo avanti.
Avevo dei significanti vuoti emotivi, però: non ricordavo come avessi fatto a finire lì, il volto del mio presunto fidanzato stagnava nella mia mente come una cartolina sbiadita, e continuavo a domandare dei miei genitori nonostante i dottori non smettessero di ripetermi che non erano stati chiamati a causa del cattivo rapporto che intercorreva tra di noi...
"E' normale", li avevo sentiti dire il giorno dopo, fuori dalla stanza, "la memoria ha subito il danno maggiore, ma non è niente di irrecuperabile".
Ciò che mi stupiva, però, era constatare come il coma avesse cancellato e affievolito gran parte dei miei ricordi lasciando intatta nel mio cervello un'unica costante: Mya.
Ad occhi chiusi, avevo corso labirinti irrisolvibili e tunnel infiniti, avevo sostato per delle ore infinite in stanze recondite della mia mente fatte di tenebre; improvvisi lampi di luce avevano spezzato l'oscurità servendosi di vecchi ricordi e di tanto in tanto voci familiari mi avevano rincorsa, sempre più forti, sempre più vicine, fino a costringermi a correre ancora e ad immettermi in un nuovo tunnel infinito.
Era questo il coma. Correre a perdifiato, perdersi nell'ombra, tapparsi le orecchie e ricominciare a correre.

Poi, tra tutti i flash di luce, la voce di Mya si era intromessa piano, come a voler preservare il mio sonno.
Aveva detto "ti amo". Mi ero alzata dal mio angolino, mi ero asciugata le lacrime, avevo camminato in direzione della voce...

E lei aveva pronunciato "piccola mia". Avevo allungato le mani lungo la parete oscura dell'ennesima stanza in cui mi ero andata a cacciare, e l'eco di quelle due parole aveva percosso la camera come un colpo di martello su una campana di ferro.
Avevo cominciato a correre, sempre più forte, col cuore in gola, a perdifiato... Le mani mi scivolavano sulla parete nera, cercavano una falla...

Ti amo, piccola mia...

Sono qui!
Glielo urlavo così forte da bruciarmi le corde vocali.
Sono qui, sono qui!

E poi, un altro tunnel. Non infinito, non oscuro: aperto. Avevo corso ancora, lanciandomi così disperatamente contro la luce da spappolarmi le ginocchia, ma alla fine la voce di Mya se n'era andata, il calore delle sue mani che stringevano le mie era stato sostituito dal leggero tepore delle mani morbide di qualcun altro e il tunnel si era ripiegato su se stesso, sbarrandosi.
Mi ero arresa. Avevo passato un tempo così infinitamente lungo a correre, che quell'unica speranza andata in frantumi mi aveva spenta per sempre.

Nei giorni successivi ero stata manomessa da chiunque; qualcuno, di tanto in tanto, veniva a farmi visita lasciandomi sul comodino qualche parola compassionevole, poi spariva. Nulla per cui sollevarsi dall'angolino in cui mi ero rifugiata, niente per cui valesse la pena di scomodarsi e ricominciare a vivere.
Poi Mya era tornata e un altro tunnel si era aperto di fronte a me, un cono di luce in mezzo a fasci di tenebre. Non potevo farmi scappare nuovamente quell'occasione, quindi avevo ricominciato a correre, arrancato dietro le ginocchia stanche, urlato dove mi trovassi e quanto stessi facendo per raggiungerla, ma anche quella volta mi era stata strappata via.
Con l'unica differenza, però, di essere riuscita ad afferrare la bocca del tunnel prima che si richiudesse nuovamente su se stesso. Avevo riaperto gli occhi, pianto fino a prosciugarmi i dotti lacrimali, cercato invano l'unica persona di cui non volevano farmi sapere niente... infine avevo atteso.
Atteso di ricevere notizie, atteso che qualcuno che amavo venisse a farmi visita, atteso che qualche anima pia si degnasse di spiegarmi che diavolo stesse succedendo.
Ma nessuno, e dico nessuno, si era fatto avanti.
I giorni trascorsero a singhiozzo, come una stazione radio che non riesce a sintonizzarsi correttamente: a volte riuscivo a connettermi col mondo reale e a vivermi ogni secondo della giornata, altre volte invece sembrava andassi in black out e l'agonia di non riuscire a capire nuovamente dove fossi e cosa stessi facendo ancora in degenza mi distruggeva.
Non smisi nemmeno per un attimo di prendere le mie medicine, di farmi visitare, di vagare tra i vari reparti sotto prescrizione medica... Ogni giorno si ripeteva come un copione di cento pagine tutte uguali. Sveglia, prelievo, pillole, visite, sonnellino, pillole, perdita di memoria, panico, sonnellino, sveglia...
Quando dopo una settimana da quel martirio mi dissero che potevo tornare a casa con la raccomandazione di tornare tra due settimane per appuntare i nuovi progressi, mi sembrò di rivivere la gioia del giorno della vigilia di Natale.
Non ebbi fin da subito una chiara idea di quali fossero i miei coinquilini, ma quando li rividi, quel giorno stesso, tutti i loro tratti si fusero nella mia mente in un unico ricordo positivo e in breve tempo riuscii ad assemblare il mio puzzle. Organizzarono una piccola festa di bentornato; Brandon ci costrinse ad ingurgitare i suoi mega sandwich discutibili, definendo "offesa" qualsiasi nostro dubbio in merito, e Colin sfidò me e Larissa ad una battaglia di Just Dance da cui uscii vincitrice.
Nonostante mi sentissi ancora confusa e avessi bisogno di riposare, non c'era niente che potessi fare se non tuffarmi di nuovo a capofitto nella mia vita per riuscire a riprenderne in mano le redini.
Il giorno successivo il telefono squillò sul mio comodino alle sette e trenta del mattino.
Lo schermo citava "Kamal".
«Pronto...», biascicai.
«Ehi, Bella Addormentata... Ti abbiamo lasciato riposare, ma abbiamo bisogno di te qui», mormorò con dolcezza dall'altro capo del telefono. Ci misi qualche secondo prima di coniugare il concetto di lavoro a quello di Kamal, e quando l'operazione nella mia mente produsse il risultato sperato le mie labbra si aprirono in un sorriso.
«Buongiorno anche a te, Kamal. Sarò dei vostri, oggi».
«Hai bisogno di un passaggio?», si premurò.
Puntai lo sguardo al di là della finestra e soppesai quanto mi andasse di immergermi tra la gente.
«No, verrò in metro».
«A tra poco, allora», concluse e riagganciò.
Una pioggerellina leggera prossima all'acquazzone bagnava già il vetro della finestra. La luce grigia del mattino produceva ombre degne del palcoscenico sul mio piumone grigio perla. Mi costrinsi a tirare fuori le gambe dal mio rifugio caldo ed indossai una tuta comoda: presto qualcun altro avrebbe scelto dei vestiti per me, quindi non faceva la differenza.
Mi legai i capelli in una crocchia poco salda, mi sciacquai il viso e i denti, e una volta appurato di essere sola in casa afferrai semplicemente il cappotto e mi fiondai dentro l'entrata della metro più vicina.
Per la prima volta, l'odore di ferraglia e carta di giornale che tanto mi infastidiva mi diede sollievo anziché regalarmi un'emozione negativa. Era una cosa semplice, una di quelle cose di cui non mi ero mai curata, un dettaglio che avrei anche potuto definire banale se non fosse che le ultime settimane della mia vita le avevo trascorse appese ad un filo. Qualsiasi cosa riuscissi a percepire, in quel momento, era per me una sferzata di aria fresca... Anche il più irritante degli urli poteva assumere una connotazione positiva.
Non infilai le cuffie nelle orecchie come facevo di solito, piuttosto mi beai delle espressioni irritate o sovrappensiero della gente, del ronzio della musica nelle cuffie degli altri, degli sguardi spaesati dei bimbi più piccoli che per la prima volta viaggiavano su un mezzo pubblico...
Sembrava tutto nuovo, e invece l'avevo vissuto per anni.
Pensai che la vita fosse un dono divino e che ci accorgiamo di non poter avere il reso gratuito delle cose che non sono andate bene troppo tardi.

Arrivai agli studios a testa alta, osservando le anime che mi sfilavano accanto durante il tragitto fuori dalla metro con discreta attenzione. Ognuno di quegli individui aveva una vita, una storia, una personalità, ed ero più che sicura che la vecchia Ally non avrebbe offerto la possibilità di farsi avvicinare a nemmeno la metà di tutti loro, ma qualcosa dentro di me era cambiato e volevo fare di quella "differenza" l'occasione della mia vita per essere migliore.
Volevo chiamare le mie vecchie amiche del liceo senza più rimandare, senza avere paura di incappare in quel lato di me che tanto mi destabilizzava. Volevo essere me stessa, assumermi le mie responsabilità, scegliere per me e non più per gli altri. Volevo svegliarmi, prendere la metro, sorridere ad uno sconosciuto e permettermi di essere una ragazza normale che si fa degli amici normali, liberandomi di tutti quei pregiudizi che tanto avevo odiato, ma che negli anni mi avevano incastrata. Non volevo più avere rimpianti, non volevo più guardarmi alle spalle e pensare: "se solo avessi fatto così...", piuttosto mi sarei accontentata dei rimorsi, ma con la consapevolezza di aver sbagliato a causa del fatto che avevo semplicemente vissuto.
Mentre varcavo la soglia della sala relax e mi versavo del caffè nero in una tazza, l'istinto di allungare una mano verso le bustine di zucchero mi fece balzare alla mente un pensiero limpido.
Sarei stata una ragazza nuova con vecchie radici: ero una donna, gli anni e gli avvenimenti – soprattutto quelli recenti – mi avevano cambiata, ma non avrei smesso di essere quella ragazzina che tanto amava ingurgitare zucchero quando si sentiva a disagio.
Io non volevo cancellare chi ero stata, non potevo farlo per il bene di me stessa.
Nonostante quei pensieri terribilmente chiari mi rendessero instabile, quando i membri del cast – molti dei quali feci fatica a riconoscere immediatamente – vennero verso di me per salutarmi il mio primo istinto fu quello di riabbracciarli tutti. Le costumiste mi toccarono i capelli, un po' scioccate di trovarli così sciupati, e mi rassicurarono di trovare qualcosa che li avrebbe sicuramente "rianimati"; gli scenografi e i macchinisti mi diedero semplicemente un abbraccio, mentre nella confusione generale qualcuno mi chiese come stessi e quale fosse la prognosi finale. Poi, tra qualche battuta e l'affetto spropositato di Stacy, udii un leggero tintinnare alle mie spalle.
Mi voltai immediatamente e l'attenzione si concentrò tutta sull'uomo dell'est che stava per rendermi famosa. I suoi dettagli si spalmarono nella mia mente così nitidamente da sembrare il nostro primo incontro. L'istintò mi suggerì di sorridergli e, seguendo la mia nuova filosofia di pensiero, non mi privai di farlo.
«E' abbastanza deprimente festeggiare con del caffè, questo devo concedervelo, ma voglio comunque fare un brindisi a questa donna. Alla sua forza d'animo, che le ha permesso di non arrendersi nonostante il coma volesse spegnerla per sempre; al suo coraggio, che le permette di sorridere oggi dopo settimane di inferno; al suo talento, che la renderà straordinariamente famosa, ricercata, essenziale, priorità per qualunque regista», fece una breve pausa, sollevando a mezz'aria la tazza fumante.
In breve tempo, altri membri del cast si unirono a quel brindisi afferrando un bicchiere termico ed imitando il gesto del regista. Intravidi una donna alta e di bell'aspetto infilare un filtro da tè dentro una tazza di acqua bollente e alle sue spalle un uomo alto e grosso versarsi del caffè in un bicchiere.
Entrambi, una volta adocchiata, mi sorrisero e mi salutarono a qualche testa di distanza: solo dopo qualche minuto di intensa concentrazione associai i loro volti ai nomi di Harish e Savannah.
«Voglio soltanto ricordarti che noi tutti crediamo in te e che siamo contenti di riaverti di nuovo tra noi, Ally», disse ad alta voce. «Che questo possa essere un ritorno ed un nuovo inizio».
Una luce consapevole baluginò in fondo a quelle pozze scure. Mentre gli altri ripetevano in coro "alla salute", Kamal diede un sorso al suo caffè e non smise nemmeno per un attimo di guardarmi negli occhi.
Io sapevo che lui sapeva, ma io sapevo di sapere?
Mancava qualcosa, qualcosa di importante e concreto.
«E adesso basta, tutti ai posti di combattimento!», ridacchiò Kamal. Gli attori, i macchinisti e tutti gli altri membri del cast fecero rifornimento di brioche e bevande calde ed infine si diramarono, ognuno nei loro settori. Quando la confusione fu quasi del tutto svanita, Kamal avanzò di qualche passo verso di me e mi strofinò energicamente le spalle.
«Scommetto volessi farti perdonare qualcosa, con quel discorso», insinuai scherzosamente, guardandolo di sottecchi. Inclinò il viso e sulle sue labbra color cioccolato nacque un mezzo sorriso.
«In cosa avrei sbagliato?».
«Non sei venuto a farmi visita mentre tentavo di trasformarmi in una bacca!», risposi piccata, dirigendomi al suo fianco verso il tendone principale.
Scoppiò in una risata fragorosa e scosse la testa, infilandosi le mani dentro le tasche della tuta.
«E tu come fai a dirlo?».
«Io vi sentivo tutti», risposi semplicemente.
Arrestò il passo e mi piantò gli occhi addosso.
«Non avevamo il permesso di entrare. Avevi delle ferite aperte, non si sapeva quale fosse l'entità del danno: si rischiava il contagio. Io, Jason e Mya siamo venuti a farti visita tutti i giorni, ma ci è stato concesso di osservarti soltanto attraverso la finestra della stanza». Fece un respiro profondo e sembrò prepararsi alle mie domande che, ovviamente, non tardarono ad arrivare.
«Jason chi?».
Inclinò il capo e s'inumidì le labbra, paziente.
«Il tuo ragazzo, Ally. Il tuo futuro marito», concluse.
Istintivamente cercai l'anello di fidanzamento che avrebbe dovuto calzarmi al dito, ma di esso nessuna traccia. Corrucciai la fronte e mi concentrai, sforzandomi di scavare oltre l'unico viso che riuscissi a ricordare con tremenda chiarezza. Trascorsi alcuni istanti di interminabile silenzio, la mia mente sembrò uscire da quello stato di perenne confusione e il viso di Jason comparve magicamente in mezzo ai miei ricordi, come il mago che tira il coniglio fuori dal cappello.
«Ah, sì... Jason».
Entrambi annuimmo, mentre il suo ricordo mi riempiva tutti gli angoli della scatola cranica come un bidone stracolmo di gomma. Le immagini salienti che la mia mente aveva registrato in relazione a quell'uomo vennero a galla tutte insieme, emozioni comprese: il modo estenuante in cui mi aveva fatto la corte, come mi ero sentita quando mi ero sforzata di dargli una possibilità e crederci anch'io, la nostra prima volta insieme, il giorno in cui mi aveva chiesto di sposarlo, quello in cui aveva cominciato a sospettare di me e Mya, scoprendoci insieme a Boston su tutti i giornali...
Le diapositive si rincorrevano come in una tromba d'aria inarrestabile. Mi passai i pollici sulle tempie e provai a spiccicare nuovamente parola.
«Eppure... ricordo di aver sentito Mya, una volta. Non so dire se si trattasse del giorno o della notte, ma io ricordo chiaramente di aver avvertito le sue mani sulle mie».
Kamal strinse le labbra e fece nuovamente di sì con la testa.
«Io credo che tu debba parlarne direttamente con lei», sentenziò.
Mi guardai intorno, alla ricerca dell'unica persona che in realtà mancava. Non gli chiesi dove fosse né dove potessi trovarla: se non era già lì vuol dire che non era presente.
Kamal dovette decifrare i miei pensieri, perché mi strinse un braccio intorno alle spalle e mi accompagnò verso l'ala trucco.
«Te la senti di girare? Ci manca la scena del salvataggio di Kathryn, il suo ritorno a casa...».
«Sì, va bene. Posso dare un'occhiata al copione, prima?».
Sarei stata una bugiarda se avessi detto a Kamal di ricordare ancora la parte alla perfezione, ma con un ripasso intensivo forse avrebbe ricavato qualche scena quel giorno.
«Nessun problema», mi rassicurò.

Presto o tardi mi resi conto di aver sottovalutato il duro lavoro a cui mi sarei sottoposta nelle ore successive; confusione mentale a parte, compiere qualsiasi azione mi risultava faticoso. Ricordare più di due battute in croce era faticoso, muovermi sulla scena era faticoso, sostenere il passo dei miei colleghi era faticoso... Tutto ciò che mi veniva chiesto mi costava un enorme sforzo.
Ringraziai il cielo di avere al mio fianco un équipe di colleghi straordinariamente pazienti: era molto probabile che avrei barcollato fino a cadere, se non avessi sentito di avere l'appoggio, l'amore e l'aiuto di tutti gli altri.
A causa della mia spossatezza Kamal decise di girare soltanto la scena del ritorno di Kathryn, rimandando al giorno seguente quella del salvataggio, tecnicamente più complessa. Ogni mio tentativo di dimostrargli che potessi farcela si rivelò inutile: Kamal non voleva il meglio soltanto per me, ma anche per il suo film.
«Voglio girare qualche scena inedita», disse prima che raccogliessi la mia roba e me ne tornassi a casa, «qualcosa da poter inserire nel caso in cui si presentino delle sequenze da scartare».
Mi dimostrai aperta a qualsiasi tipo di progetto, disponibile alla sperimentazione. Kamal mi diede un buffetto sulla testa e mi lanciò uno sguardo carico di tenerezza, come quello di un padre che osserva il tentativo del figlio di rifarsi dopo un brutto fallimento scolastico.
Stavo scoprendo un lato di lui che credevo inesistente.
«Andrà sempre meglio», mormorò, mettendomi la borsa in spalla. Corrucciai la fronte, perplessa: com'era riuscito a dare voce a quei pensieri che avevo volontariamente ammutolito?
Abbassai lo sguardo, sospirando.
«Ho l'impressione di aver perso qualcosa...», gli confidai, sentendomi profondamente affranta. Non importava quante volte mi imbottissi di pensieri positivi e buoni propositi: a fine giornata sembravo aver perso l'ennesima partita a scacchi.
Kamal mi chiamò un taxi e sostò al mio fianco finché non lo vide arrivare.
«Non sono poi così convinto che si tratti di una cosa negativa», rassicurò. Feci spallucce ed immersi le mani gelide nelle tasche del cappotto.
Il cielo rasentava l'oscurità del nero, nemmeno uno stralcio di nuvola ne sporcava l'orizzonte. La tranquillità che regnava nel quartiere degli studios era animata esclusivamente dai nostri fiati condensati nell'aria.
«Non sono poi così convinta di voler sapere che intendi», lo scimmiottai, provando ad alleggerire la conversazione ed assestandogli una leggera gomitata tra le costole.
Lui tossicchiò, trattenendo le risate, poi si sfilò la sciarpa dal collo e me l'avvolse sotto le orecchie.
«Puoi sempre ricominciare da quello che hai perso, mettiamola così», ammiccò.
I fari di un taxi giallo e nero sfilarono in nostra direzione, illuminando all'improvviso le nostre figure e distraendomi da una possibile risposta concreta.
Gli lanciai un ultimo sguardo pieno di domande che non avevo il coraggio di porgli, poi gli sorrisi con gentilezza.
«Grazie», sussurrai, ma non mi riferivo alla sciarpa.

~∞~

Camminiamo tutti su un'unica strada.
Ci sono io, c'è mia madre, parenti lontani e vicini. Davanti a tutti, la guida del gruppo: mio padre.
Osservo le sue scarpe, il completo sportivo con cui abbiamo deciso fosse più consono spedirlo di fronte a Gesù Cristo.
Sorridono tutti, si prendono per mano. Perfino chi si è odiato in tutti questi anni si guarda con amore.
Afferro la mano di qualcuno anch'io, ma non mi curo di osservarne i tratti. Chiunque sia, mi sta infondendo la sua pace.
La sterpaglia e la ghiaia si infila sotto le nostre scarpe, le piante si diramano, la strada pare allargarsi... Di fronte a noi, un'immensa montagna.
Mio padre fa un gesto eloquente con la mano, ci invita a salire.
E ad uno ad uno, come se la forza di gravità non esistesse, chi mi precede comincia a scalare quell'immenso agglomerato di pietra e minerali sulle gambe, le braccia molli lungo i fianchi.
Corro loro in contro, urlo di non lasciarmi lì.
"Aspettatemi!", mi sveno. "Per favore, non ce la faccio!".
Mi arrampico anch'io e scivolo. Provo ancora e le pietre mi scorticano le mani.

Sono sola. Chi ha avuto la guida di mio padre riesce a superare l'ostacolo, io continuo a sprofondare senza sosta.
La polvere mi punge il naso, gli occhi; mi accorgo di piangere prima che possa impedirlo.
Poi, dall'alto, qualcosa mi picchia in testa.
Una corda.

"Che fai li sotto? Sali!".
Osservo il suo sorriso, i suoi occhi che bonariamente si prendono gioco della mia disperazione.
L'afferro, un po': è sicura. Mi faccio forza sugli avambracci e tiro sulle gambe tutto il peso del mio corpo, spostando la forza da una mano all'altra.
Lui si allontana, con la promessa di trovarmi oltre la corda. Mi affido all'istinto e continuo a scalare la roccia, mentre il terreno si fa piccolo e la cima della montagna sempre più vicina.
Scivolo su un fianco e mi rotolo nell'erba... Sono finalmente arrivata.
Davanti a me, estesi ettari di terra ospitano alberi da frutto, piante commestibili, verdura fresca.
Le sue dita leggere mi sfiorano la spalla e nel sogno sento che un brivido mi ha davvero trafitta e scossa.

"Vedi? Un giorno si risolverà tutto, te lo prometto".

La sveglia mi trapanò improvvisamente i timpani, costringendomi a spalancare le palpebre. Sollevai con poca eleganza un braccio verso quell'apparecchio infernale e lo misi a tacere con un colpo secco, poi richiusi gli occhi.
Respirai a fondo l'odore che aleggiava nella stanza; non l'avrei mai più sentito, di questo ero più che certa, eppure in quel momento mi parve tanto tangibile da avere il dubbio che mio padre fosse stato davvero lì per tutta la durata del sogno.
Fuori dalla finestra, per il secondo giorno consecutivo, la pioggia batteva contro i cardini. Sprofondai sotto coperte e cuscini e mi chiesi per un attimo perché la vita dovesse essere così ingiusta. Perché i violenti non pagavano mai e i benefattori venivano stroncati dalla vita stessa, in una sorta di beffa. Perché non c'era via di fuga dal destino e in cosa credevano quelli che affermavano la sua non-esistenza.

Perché non avevo potuto dire addio a mio padre e perché, prima ancora che all'amore, affidavamo tutto il nostro essere alla paura e all'orgoglio.
Mi raccolsi le lacrime coi polpastrelli, tentando di tenere insieme i cocci già instabili del mio vaso rattoppato.
Cosa aveva voluto dirmi? Avevo ragione di credere che fosse una messaggio chiaro, nonostante il mittente non fosse più tra i vivi. Forse era proprio questo il senso?
La metà razionale di me si chiedeva come potessi credere a dei presunti messaggi provenienti dall'aldilà, mentre la parte più sentimentale si aggrappava alla speranza di vivere il resto dei giorni usufruendo del suo aiuto come una guida turistica.
Sospirai chiamando a raccolta il coraggio rimastomi e strisciai fuori dalle lenzuola, cercando di liberarmi della nostalgia.
Il mio appartamento era stranamente silenzioso quella mattina, sembrava alludere ad un'assenza di massa. La cucina era in perfetto ordine, i cuscini sui divani erano stati sprimacciati e abbinati per colore, e il tavolino in vetro non pullulava di cicche e birre vuote.
Un sorriso spontaneo mi si dipinse sulle labbra e ringraziai il cielo di avere dei coinquilini tanto affezionati.
Mi strinsi nella vestaglia pesante ed aprii il frigo in cerca di latte, ma quando mi resi conto della desolazione che affliggeva gli scaffali capii immediatamente il perché di tanto ordine: avevano rassettato per farsi perdonare.
Scossi la testa affranta e il mio sguardo si perse lungo la parete attrezzata, sui vasi in terracotta e le cornici in argento. Accanto ad una colonna di DVD ancora immacolati, l'orologio segnava le sette meno un quarto del mattino.
Avevo quasi due ore abbondanti prima di un'altra ipotetica telefonata da parte di Kamal, e dal momento che il mio stomaco non accennava nemmno minimamente a voler smettere di borbottare decisi di vestirmi in fretta e di dedicarmi una colazione spaziale all'americana, giusto per darmi la grinta necessaria ad affrontare la giornata.
Infilai i piedi negli stivali antipioggia, lasciai i capelli liberi, sparii dentro un vestito di lana e mi legai l'ombrello stretto al dito.

L'aria fredda del mattino mi sferzò il viso, inumidendomi le guance ed infilandosi dentro le ossa. Osservai il viavai di gente sul marciapiede, l'accozzaglia di ombrelli simili a costellazioni, le espressioni assorte dei bambini trascinati a scuola dai genitori, la rabbia degli avvocati al telefono, le ventiquattrore sempre troppo piccole per tutti quegli uomini d'affari della medio-alta borghesia... E mentre i miei pensieri si rincorrevano provado ad immaginare quale mondo si celasse dietro ogni paia di occhi, una goccia di pioggia gelida mi punse la mano, facendosi strada verso il palmo asciutto.


«Tu non hai tradito nessuno...».
«Ally...».
«E vieni a parlarmi di sincerità!».
«Possiamo parlarne?».
«Cosa c'è da discutere?! Io ho tradito il mio futuro marito nella convinzione che anche tu stessi tradendo la tua compagna!».
«E questo ti faceva vedere il tradimento sotto una luce migliore?!».
«Me lo faceva vedere come una necessità di entrambe! Io pensavo che...».
«Che...?».
«Non importa».

Presi un respiro profondo, stordita dai ricordi, ma non ebbi il tempo materiale di riprendermi che un'altra sfilza di immagini mi bloccò il respiro.

«Sì, ho pensato che fosse una scelta egoistica. Sì, ero arrabbiata con te, furiosa, delusa, amareggiata, perché ti avevo permesso di farmi credere che valeva la pena innamorarsi ancora, e tu mi avevi piantato quel permesso dritto in mezzo alle spalle. E lo so che non eri felice, perché allo stesso modo in cui tu non hai avuto il coraggio di confessarmelo, io non ho avuto le palle di chiedertelo. E non è vero che non ti sentivo quando mi salutavi, al mattino... Ma ti svegliavi già depressa ed io non avevo la forza di sentirmi dire in faccia che tutto stava finendo. Forse è questa la mia colpa, non aver trovato il coraggio. Ma proprio quando mi sono decisa a lasciarti andare, quando contando sulla punta delle dita mi sono accorta che ben sette anni erano passati, tu sei ripiombata nelle mie giornate. Mi hai sconvolto, costretto a difendermi nel peggiore dei modi, perché sapevo che non avresti avuto alcun problema a brandire un'arma e a ferirmi di nuovo, soprattutto vista l'assenza di implicazioni sentimentali. Ma non l'hai fatto... Mi hai guardata ogni giorno come se volessi scoppiare, come se volessi confessarmi tutto, implorandomi con gli occhi di smetterla di essere cattiva con te. E solo adesso capisco tutto questo che senso ha...».
«Che senso ha...?».
«Chi si appartiene trova sempre il modo di ritrovarsi».

Boccheggiai, tornando alla realtà come risucchiata in un vortice d'aria. Provai a calmare il cuore, ignorando l'adrenalina e le emozioni incontrollabili che quei ricordi suscitavano in me; senza rendermene conto, avevo abbassato l'ombrello e mi ero infradicita i capelli.
Sollevai il cappuccio del giubotto e presi a camminare nel tentativo di proteggermi ancora una volta dall'acqua incessante, cercando di allontanare la mente dal passato.
Nonostante mi avessero ripetuto fino alla nausea di essere fidanzata e di star attraversando un periodo di crisi col mio attuale uomo – che per inciso non si era ancora fatto avanti da quando ero stata dimessa – , la mia mente non faceva altro che correre a Mya ogni volta che mi distraevo abbastanza da permettergli di prendere le redini del gioco. Non che lei fosse in una posizione migliore, sia chiaro; ero certa di averla sentita nonostante la mente avvolta dalla foschia impenetrabile del coma, eppure nemmeno lei sembrava voler più entrare nel mio raggio d'azione. Che senso avevano avuto tutte le nostre parole, tutto ciò che c'eravamo dette, tutti i gesti che c'eravamo scambiate, se una volta "salvata" mi ignorava come se non fossi mai esistita?
Sospirai, infilando una caramella all'anice sotto la lingua: forse era semplicemente troppo presto per parlare.

Esistono gli sms, Ally. Le chiamate, Facebook, Whatsapp... Non provare a raccontarti stronzate.
La mia coscienza bacchettona mi ricordò prontamente che nel duemiladiciassette non potevano esistere delle scuse plausibili per cui due persone che volevano sentirsi si ritrovavano impossibilitate a farlo...

E allora cosa? Perché Jason era scomparso senza uno straccio di motivazione? Qual'era il motivo della presunta "crisi"?
Tastai la geometria del mio cellulare, passando il pollice sul tasto cetrale e crogiolandomi nell'indecisione: la voglia di fare colazione stava pian piano ripiegandosi su se stessa.
Alla fine sbloccai lo schermo e cercai in rubrica il numero di Jason, ma come per tutti gli altri precedenti tentativi – all'incirca una decina – , anche quello andò a vuoto. Dopo pochi squilli la sua voce mi ricordò di lasciare un messaggio in segreteria.
A parte la delusione, nessun altra emozione mi attraversò l'epidermide.


«Ehm... Ciao, Jason. Non vorrei sembrarti petulante, ma non credi sia opportuno vederci? Sei praticamente scomparso da quando mi hanno dimessa e qui non fanno altro che dirmi di aspettare che sia tu a cercarmi, perché stiamo attraversando un periodo di crisi. E' successo qualcosa prima dell'incidente? Qualcosa di cui non riesco ad avere memoria? Non capisco cosa ci abbia allontanati, francamente... Richiamami appena puoi», mormorai infine, poi riattaccai. Era l'ennesimo messaggio in segreteria, le stesse parole tutte le volte.

E non mi aveva mai ritelefonata. Cominciavo a credere che avesse perfino cambiato numero.

Mi guardai intorno, mentre altri flashback di vecchi sogni e notti di fuoco passate a convincermi di stare bene continuavano ad accavallarsi gli uni sugli altri per avere la precedenza.
Un maestoso palazzo di vetro si ergeva davanti ai miei occhi, magnifico nella sua ingegneria aristocratica e menefreghista della pioggia battente. Attraverso ogni finestra riuscivo a scorgere dei corpi in movimento; segretarie indaffarante, convention di lavoro, uomini politici con spiccate doti relazionali e fantocci dello Stato... In tutto quell'andirivieni di pensieri e progetti, io non ero altro che un misero puntino. Un paio di piedi in mezzo a tanti altri piedi veloci, un cappotto pesante in mezzo a tanti altri cappotti di lana, un ombrello viola in mezzo a tanti altri ombrelli della stessa sfumatura...
Mai come in quel momento essere me stessa mi sembrò la decisione giusta da prendere. Avrei incalzato ancora una volta le caratteristiche di tutti quegli uomini decisi, pragmatici, organizzati che stavano al di là di quelle finestre luccicanti.
E non avrei avuto nessun dubbio, mai più.

Respirai a fondo l'aria fredda di Dicembre, abbassai lo sguardo sulle pozzanghere di fango e quando lo rialzai la mia attenzione fu catturata da un'insegna poco appariscente, di un legno scuro laccato e traslucido.
M'incamminai verso le grosse vetrate su cui la scritta "american breakfast" faceva da padrone, guastandomi gli sguardi estasiati delle famiglie riunite di fronte ad un buon piatto di bacon croccante e uova. Seguii gli occhi di ognuno, le movenze dei più piccoli, le espressioni assonnate dei più grandi... E quando il mio sguardo raggiunse il traguardo dell'ultimo tavolo, non mi stupii di trovarla proprio lì.

Mya. La Mya semplice che non aveva paura di essere se stessa, che aveva sempre combattuto per i suoi ideali e per i miei, trascinandomi in una battaglia a cui avevo deciso di voltare le spalle, sfoderando bandiera bianca.
Strinsi i polpastrelli attorno al telefono, realizzando con vergogna di aver avuto tanto zelo nel contattare Jason quasi tutti i giorni quanto poco coraggio nel riservare a Mya lo stesso trattamento.

Sii te stessa, Ally. Non avere paura.
Non ne avrei avuta. Esattamente come lei non ne aveva nel sedere ad un tavolo da sola e a consumare la sua colazione in mezzo ad una decina di famiglie, consapevole di essere la famiglia di se stessa.
Pochi attimi e il coraggio mandò l'impulso elettrico alle gambe, trascinandomi dentro. Lasciai che il campanellino sopra la porta annunciasse il mio arrivo e mi diressi a passo spedito verso di lei, la fiammella dell'emozione che bruciacchiava allegra dentro la gabbia toracica.
Senza aspettare che mi notasse, mi accomodai sulla panca di fronte la sua e m'infilai le mani sotto la stoffa del vestito, in tensione.
Il viso di Mya si mosse quasi impercettibilmente; sollevò gli occhi sui miei e sembrò non riuscire a mettermi subito a fuoco, ma quando capì che non si trattava di un'allucinazione le sue mani macchiate d'inchiostro ebbero un fremito intorno alla tazza di caffè.
Mi sfilai il cappuccio dalla fronte e lasciai che i capelli umidi mi ricadessero intorno alle orecchie, in imbarazzo per lo stato pietoso con cui mi stavo presentando al suo cospetto dopo tutti quei giorni.

L'immagine di Jason sparì dai miei pensieri alla velocità di un flash fotografico.
Mi scrutò a lungo, immersa nei miei dettagli. Posò le pupille sulle perle che mi abbellivano i lobi, sul cappotto umido, sulla porzione di collo visibile, sulla punta del naso, sulle pieghe di espressione che mi caratterizzavano la fronte, sulle labbra un po' secche...
Arrossii, infilandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio; la scarica di brividi che mi colpì la schiena mi informò del fatto che stessi perdendo tutto il coraggio che ero riuscita a racimolare.
Mya schiuse le labbra come a voler dire qualcosa, ma una testolina mora fece capolino impugnando il suo block notes con un'agilità e un tempismo degno di un oscar, troncando qualsiasi tentativo di conversazione con un solo colpo di penna.

Masticando fastidiosamente la sua chewing-um, si ravvivò i codini che le incorniciavano il viso con un gesto veloce della mano e prese ad appuntarsi il numero del tavolo.
«Ciao, cosa ti porto?», domandò meccanicamente la cameriera.
Sollevai lo sguardo su di lei priva di idee; un rapido sguardo alla tazza di Mya mi fornì l'ispirazione di cui avevo bisogno.
«Un caffè americano e due donuts, grazie».
«Non mangio dolci, lo sai», sussurrò Mya. I suoi occhi corsero fuori dalla finestra, alle panchine spoglie e ai rami secchi degli alberi.
Deglutii rumorosamente. Se percepire la sua voce oltre il drappo del coma era stato emozionante, definire ciò che provai nel momento in cui quel suono arrivò dal vivo nuovamente alle mie orecchie fu impossibile.
«Solo un caffè americano, allora». Una trappola per orsi mi serrò lo stomaco così violentemente da togliermi la capacità di digerire qualsiasi alimento solido.
La cameriera appuntò il mio ordine con lentezza esagerata, serrando la lingua tra le labbra come fosse la concentrazione da non perdere, poi s'infilò il blocco per appunti in tasca.
«Arriva subito!».
Accennai ad una smorfia che voleva somigliare ad un sorriso e poggiai le spalle contro lo schienale della panca, in cerca di conforto.
Un raggio di sole sembrò farsi spiraglio tra le nuvole arrabbiate, giusto il tempo di illuminare il pulviscolo che ci ondeggiava intorno senza seguire alcuna coreografia; Mya seguì il filo dei miei pensieri, osservò gli stralci di luce dare vita ad un gioco di ombre, poi i suoi occhi s'incastrarono nuovamente ai miei.

Un brivido di freddo mi trapanò lo sterno,
«Sei viva, allora», commentai.
«Anche tu. Pensavo non l'avrei saputo mai».
Aggrottai le sopracciglia: in fondo a quegli occhi color ghiaccio un'emozione la tradiva nel profondo.
«Bastava telefonarmi. Non ti sei più fatta viva dal mio risveglio».
Le sue labbra ebbero un fremito.
«Dal tuo risveglio?».
«So che eri lì, Mya. Ti ho sentita», confessai.
I suoi occhi luccicarono, si persero nei dettagli del tavolo, tra le venature del legno.
Approfittai del suo silenzio per incarare la dose:
«So anche che non si trattava della prima volta».
«E' impossibile», biascicò.
«Me lo ricordo».
Era la parola chiave. Mi trattavano tutti come se la mia memoria avesse riportato danni tali da non ricordare nemmeno il mio nome, ma la verità era che il coma non era durato abbastanza da annientare i ricordi che risiedevano nelle profondità di essa e per questo, eccetto casi di eccezionale sforzo, conservavo la maggior parte delle mie memorie intatte.
I codini della cameriera arrivarono prima che Mya potesse formulare qualsiasi tipo di risposta, regalandole qualche secondo in più di tempo.
Si sporse verso di me con una tazza fumante di caffè nero e un cestino di bustine di zucchero, poi mi ringraziò e tornò al suo lavoro.
Avvolsi la tazza con le mani e il calore che s'irradiò attraverso le dita mi cullò dolcemente.
Mya si sporse improvvisamente sul tavolo, lanciandomi uno sguardo bieco. Sembrava fossimo tornate nemiche.
«Ho fatto una cazzata, Ally. Non avevo il permesso di entrare nella tua stanza e me lo sono presa comunque. Ho rischiato di essere scoperta, di finire in galera, ma non mi è importato... Importava solo che ti svegliassi».
Le nostre pupille ballarono, si diedero il cambio in un passo a due che solo loro conoscevano, perdendosi in una musica di cui i nostri cuori padroneggiavano perfettamente il tempo.
«Ti hanno beccata?».
«No, sono riuscita a scappare in tempo», mormorò semplicemente. Mi passai la lingua sul labbro inferiore, in pensiero.
Doveva essere stata quella la volta in cui ero quasi riuscita a svegliarmi, per poi percorrere a ritroso tutti i passi in avanti che ero riuscita a fare. Ricordavo la sua voce, la sensazione di calore che il suo tocco era stato capace di trasmettermi, i brividi che mi avevano scossa nel profondo, dando vita a quel cono di luce che in seguito alla sua assenza era semplicemente scomparso così come era nato.
Non ero riuscita a provare più nulla di simile finché Mya non era tornata, stavolta per svegliarmi.

Presi un sorso di caffè troppo velocemente, ustionandomi la lingua.
«Mi è stato impedito di vederti, Ally», sussurrò, imitando la mia posa e incrociando le braccia al petto. Non mi rivolse alcuno sguardo, i suoi occhi continuavano a custodire ciò che di più prezioso possedesse: le sue emozioni.
Confusa, mi concessi un altro sorso insapore e provai a collegare il cervello alla lingua.
«Spiegati meglio».
«Sei un tipo da favole tu, no? Non ti sorprenderà sapere che ho dovuto baciarti per riuscire a svegliarti», un sorriso di scherno si dipinse sulle sue labbra.
L'imbarazzo s'impadronì di me, regalandomi una sensazione di disagio spiacevolissima.
Mi grattai la nuca e nascosi nuovamente il viso dietro la tazza; quel gesto sembrò addolcirla quanto basta per spiegarsi.
«Al primo tentativo non ci ho pensato. Volevo soltanto vederti, tenerti per mano... Avevo letto di storie di pazienti capaci di avvertire i discorsi dei propri cari e mi ero aggrappata alla possibilità che potessi sentirmi con tutta me stessa. Ho improvvisato un po' di parole, sai come sono fatta...», fissò nuovamente le panchine spoglie, a disagio, «Non avrei mai pensato di poter ottenere una reazione vera. Sono dovuta scappare perché il tuo cuore ha cominciato a battere all'impazzata e sapevo bene che questo significava l'arrivo immediato di un medico».
Mi sembrava di star leggendo il copione di un nuovo film d'azione, e invece quella era la mia vita.
Mya si passò una mano tra i capelli e si morse il labbro inferiore con indecisione.
Ignorai volontariamente le mie reazioni corporee.
«Non ci crederai, ma dopo lo stupore e la confusione generale il dottor Clarton mi ha confessato di pensare fosse stato Jason ad introdursi di soppiatto la notte in cui avevi avuto la prima reazione. Ho girato la situazione a mio vantaggio, ovviamente, proponendogli di fare un nuovo tentativo, ma stavolta sarei stata io ad entrare», spiegò.
I suoi occhi furono improvvisamente sui miei, incatenati nuovamente gli uni agli altri. Mi persi dentro quei ghiacciai spaventosamente invalicabili e seppi che il peggio non era ancora lontanamente nei pressi delle parole che mi aveva appena concesso.
«Ha accettato», supposi con estrema certezza.
Mya annuì, stringendo le labbra ad una linea retta.
«Abbiamo spiegato a Jason l'importanza di quel tentativo, omettendo le supposizioni del dottore ovviamente. Aveva una paura fottuta che tutti i suoi sospetti trovassero finalmente fondamento, ma a me non importava un fico secco delle sue paranoie; volevo solo svegliarti, Ally. Ha insistito per restare a guardarmi mentre conducevo il mio tentativo e quando ti ho baciata il vaso di Pandora si è rovesciato».

Sgranai gli occhi, mentre il quadro prendeva forma davanti a me. Ecco perché Jason non si era più fatto vivo, ecco perché tutti mi dicevano di rispettare i suoi tempi, che stavamo attraversando un periodo di crisi, ed ecco perché non aveva risposto nemmeno ad uno dei miei messaggi in segreteria...
La possibilità che avesse cambiato numero di telefono mi parve improvvisamente più concreta.
Dove era finito? Aveva cambiato città? Non c'era più modo di parlargli?
Mi sfiorai inconsapevolmente l'anulare sinistro e Mya seguì immediatamente i miei gesti; quei ghiacciai invalicabili sembrarono sgretolarsi, perdersi nell'oceano antartico.
«Hai reagito come speravamo, ti sei svegliata... Ma i dottori mi hanno allontanata immediatamente. Mi sono presa gioco di Jason, dei medici, ho mentito ed imbrogliato tutti, c'era da aspettarselo che non l'avrei passata liscia. Jason non ha voluto più saperne. L'ho pregato di restare, ché avresti sicuramente avuto bisogno di lui, ma non c'è stato verso di farlo ragionare».
«Sa di noi», conclusi, sovrappensiero. Non ero preoccupata o spaventata, ero semplicemente sconvolta e... sollevata. Per mesi quel segreto mi aveva fagocitato le budella, lambendo la mia tranquillità pezzetto per pezzetto, fino a distruggermi, e adesso era stato finalmente svelato. Era sbalorditivo il modo in cui si erano svolti i fatti: tutto mi sarei aspettata tranne che venire a sapere che qualcuno mi aveva liberato di quel peso con così tanta facilità, senza rendermi partecipe di una questione che io per prima avevo da sempre avuto il dovere di risolvere.
Mya dovette interpretare le mie espressioni in maniera errata, poiché si rabbuiò e mi lanciò uno sguardo di fuoco.
«Mi dispiace averti rovinato il matrimonio», concluse. «Pensavo che Jason conoscesse almeno un decimo di ciò che c'è stato tra di noi sette anni fa, ma ho avuto modo di credere che forse non l'hai ritenuto poi così importante».
Un emozione ribelle sfuggì al suo controllo, incrinandole la voce.
Finsi di non restarne colpita ed abbassai lo sguardo sul liquido nero che mi riscaldava la tazza.
«Non ci sarebbe mai stato alcun matrimonio, Mya, proprio in virtù del fatto che ogni decimo della nostra relazione ha avuto, ed ha ancora oggi, un'importanza che va oltre ogni comprensione», sussurrai ed avvertii lo stesso sollievo di prima ramificare lungo lo sterno, come una mano tiepida che unge il petto di un bambino febbriciante.

Stai facendo la cosa giusta, Ally. Ti stai finalmente dicendo tutta la verità.

La cameriera dai codini bizzarri si sporse lungo un bancone di marmo bianco, puntando un aggeggio metallico contro un condizionatore ad aria calda.
Aggrottai le sopracciglia ed indirizzai lo sguardo oltre la finestra: la pioggia si era trasformata in neve, esattamente come i miei segreti si erano tramutati in confessioni.
Mya intercettò i miei occhi e per la prima volta dopo quelli che mi parvero secoli intravidi delle lacrime in fondo a quello sguardo imperscrutabile.
Il mio cuore confuso mancò un battito.
«Mi sono svenata dietro le porte di quell'ospedale ogni giorno, ti giuro su Dio... Mi è stato privato di vederti...», farfugliò.
D'istinto allungai una mano verso le sue e le sfiorai le dita. Con un moto di tenerezza e disperazione, Mya le afferrò immediatamente e i suoi occhi si liberarono di qualsiasi prigionia, travolgendomi con tutte le emozioni che aveva gelosamente custodito.
Calore, sicurezza, familiarità... Un semplice tocco e fu come non essere mai state vittime del coma. Nonostante mi sentissi profondamente scossa, lasciai che Mya si liberasse delle sue zavorre.
«Dopo essere stata cacciata dal reparto io e Jason abbiamo avuto una lite accesa al termine della quale mi ha promesso di lasciarmi carta bianca. Ha detto che avrebbe parlato coi medici, che mi sarei potuta occupare di te come meglio credevo, che mollava la presa...», trattenne il fiato per un paio di secondi finché un singhiozzo la scosse così violentemente da farla tremare. «E invece mi ha mentito, mi ha ricattata! Ha pagato i medici per indurli al silenzio e mi ha minacciato di farti perdere la parte se mi fossi rimessa in contatto con te, di recare danno alla tua carriera, al tuo futuro... Ha detto che, da uomo influente quale era, avrebbe impiegato davvero poche mosse per distruggerti... Che se non potevi essere sua, di certo non saresti stata mia, mai più», terminò.

Osservavo le lacrime incastrarsi dietro quelle ciglia troppo scure, le sue labbra serrarsi per la disperazione di essersi fatta scappare ciò che da sempre l'aveva protetta dall'attacco del prossimo, le sue dita stringersi ancora più forte attorno ai miei palmi diafani; non riuscivo a non dar credito a quel racconto, non avevo la capacità di credere che dietro ognuna di quelle lacrime si stesse celando una bugia.
Mya era stata minacciata ed imbrogliata proprio come noi avevamo imbrogliato Jason, e a pagarne le conseguenze più di tutti era stata proprio lei. Occhio per occhio, dente per dente.
Se il suo obiettivo era stato quello di istaurare il tarlo del dubbio tra la mia mente e il cuore, l'aveva raggiunto. Se aveva puntato ad allontanarla dalla mia vita per sempre, rendendole impossibile qualsiasi tipo di contatto con la mia persona, c'era andato vicino.

Ma il destino trova sempre un mezzo per spostarsi. Se non riesce a correre da te in auto prende una moto, se non ha una moto ruba una bici e se non trova una bici impara ad andare sullo skate-board. Ma corre, corre anche sulle sue gambe per arrivare a svolgere il suo compito, e sebbene Jason avesse tentato di amputare quelle di Mya il destino aveva comunque trovato un modo per muovere me in sua direzione.

Aggirai il tavolino e mi sistemai al suo fianco mentre lei, con il suo solito orgoglio, provava a racimolare il contegno che non l'abbandonava mai asciugandosi le lacrime con la manica della felpa.
Tirò su col naso.
«Ho vissuto col fiato sospeso tutto questo tempo...», bascicò più a se stessa che a me.
Era una donna distrutta, ma finché non era lei a decidere che poteva mostrartelo non l'avresti mai saputo.
Io, dal mio canto, non riuscivo a credere che lo stesso Jason che aveva professato il suo eterno amore per me più e più volte fosse stato in grado di infliggere tanto dolore a lei e di fare una cosa del genere a me.
D'altronde, benché Mya fosse stata il mezzo contundente io ero comunque stata l'obiettivo finale.
Mi sfilai il portafogli dalla giacca umida del cappotto e mi stropicciai velocemente una banconota da dieci dollari tra le dita.
«Andiamo via di qui», mormorai.
Porsi a Mya il suo giubbotto, sistemai i soldi sotto la mia tazza e la trascinai per mano fuori dal locale.

~∞~

I seni nudi le ricadevano morbidi su un lato, mentre le dita si perdevano contemplando le vecchie cicatrici causate dagli aghi. Un ematoma giallastro si estendeva lungo l'incavo del braccio, segno di una sofferenza che era ormai prossima alla guarigione. I capelli di Mya sporcavano il bianco pallido del guanciale, un ciuffo di capelli le scuriva l'espressione.
Percorsi con due dita la valle dei fianchi, le ossa sporgenti, la fessura dell'ombelico, e sotto il mio tocco il suo corpo sembrò rabbrividire.

Non importa più di nulla. Importa solo che lei sia qui.

Chiuse gli occhi e mi strinse a se; il calore dei nostri corpi nudi si fuse in un'unica fiamma.
Mi baciò tra i capelli, sulla fronte, tra le ciglia...
«Stai bene, adesso?», sussurrai.
Incastrò lentamente una gamba tra le mie e sospirò.
«Starò bene quando mi avrai perdonata».
Le posai un bacio a fior di pelle sul seno e sollevai lo sguardo sul suo.
«Non c'è niente da perdonare», asserii.
Mi accarezzò lentamente il collo, dietro le orecchie, proprio come la bassa marea fa coi ciottoli più piccoli.
«Non avrei mai voluto lasciarti da sola», rimuginò ancora.
Le presi il viso tra le mani e provai a non farmi sfuggire quegli occhi color pioggia.
«Tu sei sempre stata qui», sollevai un dito per indicarmi la testa, «e qui», conclusi poi, indicandomi il petto. «Non mi hai mai lasciata, neanche per un attimo».
Non importava che avessimo definito "errore"tutte le volte in cui c'eravamo trovate invischiate in situazioni come quella, perché puntualmente tornavamo a ripetere le stesse azioni infischiandocene di ciò che la razionalità aveva da raccomandarci.
S'inumidì le labbra e i suoi occhi mollarono la presa, perdendosi sulla curva della mia bocca.
Mi sfiorò il labbro inferiore con la lingua e aspettò che le dessi il completo permesso di impossessarsi delle mie terminazioni nervose.
Un calore familiare mi strinse i punti più sensibili in una morsa piacevolmente dolorosa.
«Non ho mai tradito l'amore che mi hai concesso, Ally, mai», mormorò sulla mia pelle.
Deglutii a fatica, mentre la sua bocca si faceva spazio lungo il collo, attraversando la mascella con delicatezza esagerata.
«Nonostante il casino che ho combinato, sai che non l'ho fatto neanch'io», tentai.
Sapevo quanto le facesse male il pensiero che fossi andata avanti, che mi fossi rifatta una vita, che mi fossi concessa... ma se il sentimento di fondo era rimasto uguale, se avevo costruito tutta quella storia su mattoni di bugie e omissioni, se mi era bastato incontrare nuovamente i suoi occhi dopo sette anni per capire che tutto quel tempo lontane era semplicemente stato un errore, si poteva ancora parlare di tradimento a lei?

Tutto quel casino era stato un tradimento a me stessa.
Inaspettatamente, dopo una decina di secondi, Mya annuì e puntellò le mani ai lati del mio viso per mettersi a cavalcioni su di me. La coperta le scivolò sotto le spalle ed io mi premurai di coprire nuovamente entrambe.
«Ally, non voglio che tu perda la parte per colpa mia e non voglio nemmeno sentirmi responsabile per la tua carriera, io...».
«Shh», le posai un dito sulle labbra e sorrisi. «Non farò lo stesso errore due volte».
Le accarezzai la pelle delle braccia, finendo per baciarle la punta delle dita ad una ad una.
Mya mi osservò, consapevole: le iridi pallide stavano cedendo il posto all'imbrunire del languore.
«Facciamo che per stanotte torni ad essere mia», sussurrò lasciva. Depositò una scia di baci umidi sulle clavicole, sui capezzoli turgidi, sulle ossa leggermente sporgenti delle costole, lungo il ventre, concedendomi di metabolizzare una frase che mi riportò in breve tempo ad un ricordo ben specifico.

Le mie lacrime... L'anello che mi veniva mestamente sfilato dal dito...

Mi afferrò con delicatezza per un polpaccio e prese a baciarmi le gambe fino all'interno coscia, distraendomi.
Trattenni il fiato, inarcando la schiena.
«Sono sempre stata tua», mormorai senza respiro.
Chiusi gli occhi e le posai una mano tra i capelli, accarezzandole con dolcezza i lobi.
Riservò lo stesso trattamento all'altra gamba, marchiandomi la pelle qui e là e sorridendo a mezza bocca.
Poi, quando il suo viso fu esattamente tra le mie gambe, le sue labbra mi posarono un bacio leggero come un sospiro di vento sul clitoride.
«Non avrei saputo dirlo meglio».

Mya mi aveva lasciata libera di scegliere.
Io avevo scelto.

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