Capitolo XI: Crash (Mya's Pov)
«Ti va di fare un tiro?».
«Non ho mai provato».
Sul tavolino in vetro che divideva le nostre poltrone, bottiglie vuote di Vodka alteravano e storpiavano l'immagine della canna che Shane voleva offrirmi.
Minuziosamente arrotolata, con così tanta cura da sembrare un oggetto di inestimabile valore, quell'insignificante ammasso di erba mi sembrava tanto spaventoso quanto stupido.
Shane rise, gettando il capo all'indietro sullo schienale. Mi unii alla sua risata, giusto perché ormai non parlavamo quasi più: ridevamo e basta.
«Oh, Mya... Non riesco a crederci!», scosse la testa.
«Che c'è? Ti sembro una drogata, per caso?», biascicai.
Lei rise ancora più forte. Quel suono, da sempre basso, parve stridermi nelle orecchie come unghie su una lavagna. Strizzai gli occhi e mi scostai i capelli dalla fronte.
«Nah. Solo ubriaca».
Annuii lentamente, mezzo sorriso ad incresparmi le labbra.
Mi parve di vederla affondare le mani dentro le tasche dei jeans fino a tirarne fuori un accendino. Si portò la canna alle labbra e ne bruciò l'estremità, dando vita ad un puntino di luce rosso incredibilmente luminoso.
Fastidiosamente luminoso... O forse ero solo troppo ubriaca per riconoscerne le reali fattezze.
Tirò a lungo e ad occhi chiusi, poi espirò in mia direzione intossicandomi di un fumo opaco e acre.
«A cosa devo l'onore di questa sbronza?», gracchiò, aprendo e chiudendo le labbra creando nuvole concentriche.
Tossicchiai appena.
«Non conosco un modo migliore di passare il tempo con gli amici», asserii.
«Mmm... Riesci ancora a dire cazzate! Non sei abbastanza sballata per questo incontro!», afferrò un cuscino e lo lanciò in mia direzione, ma nonostante lei pensasse non fossi abbastanza ubriaca a conti fatti quel cuscino non riuscii ad evitarlo.
Provai a ricambiarle il gesto, borbottando:
«Ma quali cazzate?!».
«Io so perché sei qui», esclamò. Sollevò le sopracciglia ed annuì con veemenza, posandosi i gomiti sopra le ginocchia e tirando un'altra profonda boccata di fumo. «E' per Ally».
Certo che è per Ally. Si tratta sempre di Ally.
Ridacchiai sommessamente, pronta a negare servendomi di quel briciolo di razionalità rimastomi, ma Shane zittì ogni mia intenzione allungandomi nuovamente la sua canna.
Ci fissai gli occhi sopra, studiando le venature dell'erba secca attraverso la cartina chiara, quasi trasparente, e per un attimo mi chiesi cosa ci potesse essere di tanto diverso da un tiro ad una sigaretta normale.
Si tratta sempre di Ally.
«Non morirai nel sonno, sta' tranquilla», mormorò, l'ombra di un sorriso consapevole stampato all'angolo delle labbra.
Dalle casse stereo, la voce di Bob Marley in sottofondo mi parve una coincidenza beffarda.
«Sarei morta anni fa, con tutto il fumo passivo che mi hai costretto ad inalare. Che stronza di merda...», ridacchiai. La mia mente viaggiò a ritroso mentre le sue mani mi stringevano le spalle in una morsa affettiva: i pomeriggi spesi a piangere, ad ascoltare le mie paranoie, le gelosie, i miei drammi, le mie continue domande sul perché le cose fossero andate com'erano andate, e sul perché non avessi potuto fare niente per cambiarle... I giorni passati ad ascoltare i consigli sinceri di Shane sotto l'effetto di una canna, a prenderla per il culo quando dopo un po' crollava assopita, a sorbirmi tutto quel fumo fastidioso solo per il piacere di avere ancora accanto qualcuno da poter considerare amico, qualcuno capace di dirmi stupida quando facevo la stupida, e brava quando reagivo bene.
«Diciamo che mi hai reso il gesto baciando la mia ragazza a quella cazzo di cena!», esclamò.
Non le era andato giù che avessi usato la sua donna come scudo per allontanare i sospetti di Jason.
Mi colpì malamente su una spalla e mi avvicinò ancora una volta la canna alle labbra, guardandomi di sottecchi: ubriaca o meno, come biasimarla? Anch'io sarei diventata matta se qualcuno avesse baciato la mia ragazza senza previo consenso.
Feci scorrere gli occhi sulle sue dita strette intorno al filtro, l'immagine sbiadita del resto della stanza alle sue spalle continuava a vorticarmi nelle pupille.
Provai ad afferrare l'oggetto della nostra attenzione e me la rigirai un paio di volte tra indice e medio.
Shane scoppiò a ridere.
«La tieni in mano neanche fosse una bomba!».
Di getto, senza pensarci più, avvicinai quella spirale di erba alla bocca ed inspirai profondamente come si fa con una sigaretta normale. L'odore acre del fumo mi riempì il naso e lo sterno, bruciandomi le vie respiratorie.
Ma di fatto, nessun effetto collaterale.
Sputai fuori il fumo in eccesso e insieme a questo anche tutta l'ansia derivata dal pensiero di dover fare quel tiro.
Se solo fosse stato un tiro soltanto...
Dopo qualche altra ora di bevute e tiri di canna, tutto quello che avrei voluto fare era addormentarmi e risvegliarmi solo dopo aver smaltito nel sonno tutta quella merda ingerita e inalata.
Contemplavamo entrambe qualcosa alle pareti, come se quadri, chiodi e appendini avessero improvvisamente acquisito un'importanza storica.
Silenzio.
Tra di noi, solo il rumore dei respiri pesanti.
«Come ti senti?», esordì la mia amica.
Ruppe quel momento di estraneazione totale con la peggiore delle domande.
Cercai di raccogliere le idee perse tra le nuvole di fumo.
«Fumata», ridacchiai. Shane tossicchiò con una mano davanti alla bocca ed annuì come per confermare che si sentisse allo stesso modo. Sorseggiò l'ennesimo cocktail e si focalizzò su un'altra domanda:
«Che farai adesso?».
«Che intendi?», biascicai, sfilandomi le scarpe e allungandomi sul divano.
Shane socchiuse gli occhi ed osservò il liquido trasparente sbatacchiare dentro il bicchiere di vetro.
«Hai dato ad Ally un ultimatum. Se non dovesse rispettarlo?».
Mmm... Non che fossi nelle condizioni ottimali per pensare a qualcosa che non fosse il bisogno impellente di rilassarmi e dormire, ma dopotutto la "questione Ally" riusciva ad impadronarsi della mia capacità di attenzione anche nei momenti onirici, figuriamoci in quelli di veglia.
«Mi hai dato una canna in cambio di un po' di sincerità?».
«Più o meno», sorrise.
«Beh», cominciai, dando sfogo a tutte le parole che mi vorticavano confuse nella testa senza frenarle né controllarle, «in quel caso deciderò io. Le ho concesso di entrare a far parte della mia vita ancora una volta, nonostante mi fossi promessa di non incappare mai più né in lei né in quelle come lei, ma non soffrirò mai più come ho sofferto sette anni fa. A questo punto è inutile raccontarti balle, no? Non l'ho mai dimenticata, Shane... Ma tu questo lo sai già», snocciolai.
Afferrai un cuscino un po' troppo duro per farci un pisolino e ci poggiai la testa sopra, chiudendo gli occhi.
«Quindi, se non dovesse essere lei a decidere tra te e Jason, sceglieresti tu», concluse.
Annuii senza proferire parola. Si scolò il resto del cocktail e posò il bicchiere sul tavolino di fronte a noi con un tonfo sordo che per un attimo fece sobbalzare i miei sensi assopiti.
«La lascerai andare?», si sistemò dall'altro capo del divano ed imitò la mia stessa posizione.
«Cos'altro potrei fare?», bofonchiai io. La testa mi girava un po', cominciavo a sentirla talmente leggera da non avvertirla materialmente più.
Shane si chiuse in un silenzio che parve urlarmi: "nient'altro che questo".
Mai prendere decisioni, compiere azioni o fare promesse quando si è troppo felici o troppo arrabbiati. Ma anche quando si è fumati e sbronzi si dovrebbe evitare!
Forse il giorno successivo avrei dimenticato tutto, forse avrei ricordato ogni dettaglio di quella conversazione confusa... Ma una cosa era certa: dal punto di vista razionale sapevo già che allontanarmi da Ally mi avrebbe uccisa ancora una volta, ma lo avrebbe fatto ancor di più restare al suo fianco a condizione di essere la sua seconda scelta.
~∞~
«Stop, stop! Ally, potresti venire qui per piacere?».
Mi allontanai dalla cinepresa scivolando via sul mio apparecchio a quattro ruote, tirando giù la staffa del microfono dalle teste degli attori.
Sapevo già cosa gli stesse per dire Kamal: Ally era spenta e finta, quel giorno.
Lo vedevo io dall'alto della mia postazione, figuriamoci come doveva essere attraverso lo spioncino della telecamera.
Ally andò in contro a Kamal, torturandosi le labbra coi denti. Aveva i capelli sfatti e il viso macchiato di polvere da sparo, ma indossava un paio di pantaloncini succinti e un top trasparente che lasciava intravedere chiaramente la pelle scura dei capezzoli; le scene che stavamo girando erano delle repliche, nient'altro che sequenze già filmate da conservare come riserva nel caso in cui, tra le due copie, una delle due spiccasse maggiormente agli occhi di Kamal in bellezza. Kathryn era finalmente riuscita a scappare via dalla festa in cui, insieme a tutte le altre schiave, era stata costretta a servire i padroni dell'est con danze e banchetti. Durante la sequenza antecedente a quella girata, una delle ragazze con cui aveva stretto un legame aveva chiaramente sentito parlare di un "dopo cena" alquanto spinto tra i commensali, e per questo, avvisata l'amica, avevano preso coraggio ed erano fuggite via.
«Che ti prende?», chiese Kamal a bruciapelo. Finsi di non ascoltare e mi concentrai sul panno spugnoso che proteggeva il microfono da aggressioni esterne.
«Sto semplicemente ripetendo la scena...».
«Ti stanno inseguendo con una pistola, Ally. Hanno aperto il fuoco su di te e su un'altra ragazza che, per quanto sconosciuta, ti ha messa in guardia su una possibile violenza futura. Stai lottando per la tua vita! Voglio più di qualche urletto. So che sai fare di più», la ragguagliò.
Ally si passò una mano tra i capelli e abbassò lo sguardo. Kamal seguì i suoi movimenti e cercò nuovamente i suoi occhi.
«Non ti senti bene?», mormorò.
Spiai in direzione di Ally e la vidi fare spallucce.
«No, va tutto bene. E' solo che... questa è una replica e ho paura di non saper fare meglio della prima volta in cui l'abbiamo girata, di deluderti ecco...».
Un briciolo di sincerità c'era in quelle parole, ma era un barlume così lontano da sembrare la luce fioca di una lucciola persa in una stanza avvolta dalle tenebre.
Cercai volutamente il suo sguardo e lei, per un solo istante, lasciò che le sue pupille accarezzassero le mie...
«Se verrà peggio di quella utilizzerò l'originale. Queste riserve sono importanti per me, Ally. Potrei perfino ritagliarle entrambe e mettere insieme i tratti migliori. Sii semplicemente te stessa e non farti troppe paranoie», le fece cenno col capo di tornare dalla sua collega, una ragazzina dai capelli biondi, e insieme ricominciarono a strisciare sulla rampa in movimento.
C'era qualcosa che non andava.
Il suo lavoro equivaleva fortunatamente anche ad una delle sue più grandi passioni, quindi perché svolgerlo in peggio? A meno che non stesse davvero male fisicamente, il malessere doveva essere necessariamente mentale.
Allungai il microfono sulle protagoniste. La bionda scalpitava tra cespugli immaginari, mentre Ally fingeva di essere rimasta incastrata in qualche rovo del presunto giardino attraverso il quale si stavano dando alla fuga.
Poi, dal nulla, Ally mi lanciò uno sguardo e proprio in quel momento l'audio di tre colpi d'arma da fuoco si diffuse nell'aere circostante, facendola sobbalzare.
Si acquattò con le mani strette intorno alle orecchie e strinse il viso in una smorfia di autentico dolore, così autentico che per un attimo pensai fosse reale.
«Scappa, scappa!», le urlò la co-protagonista, afferrandola per un braccio. Uno degli scagnozzi di Jamal entrò in scena, la pedana venne attivata, lo screen green illuminò le loro figure vestite di tutto punto e tutte e tre cominciarono a correre a perdifiato. L'antagonista teneva una pistola a mezz'aria e ogni volta che premeva il finto grilletto, qualcuno trasmetteva il suono degli spari attraverso le casse del tendone.
Ally voleva dirmi qualcosa.
Me lo sentivo nelle viscere, i suoi sguardi erano parole incomprensibili che mi frullavano nelle budella. Dopo qualche istante di puro movimenti scenico, Kamal chiamò lo stop e sollevò il pollice destro in direzione di Ally come segno di apprezzamento.
Lei non parve contenta, solo sollevata. Sospirò e raccattò la sua roba da una sedia in fondo al tendone, poi s'infilò una felpa e si diresse a passo spedito verso la zona relax.
Un attimo prima sembrava stesse affogando alla ricerca di un salvagente, e l'attimo dopo scappava via senza rivolgermi nemmeno uno sguardo.
Sistemai gli attrezzi di scena accanto allo screen green e dissi ai miei colleghi che sarei andata a casa, ma una volta uscita dal tendone non potei fare a meno di notare che Ally non si fosse allontanata poi molto dall'uscita e che sostasse ai margini di un grosso cespuglio con la testa tra le mani.
Nonostante m'imponessi di non provare alcunché, alla fine il senso di colpa mi attanagliava comunque: la causa del suo malessere ero io? Il fatto che le avessi chiesto di scegliere per impedirmi di soffrire ancora come in passato era ciò che di più le stava facendo del male? Era giusto, dopo un tempo così esageratamente lungo, tornare sui propri passi e provare a ricomporre qualcosa che si era irrimediabilmente rotto in passato?
Avevo la facoltà, con le mie imposizioni, di farle prendere una decisione, magari la migliore, quella che non l'avrebbe fatta soffrire mai più?
Sospirai con un macigno sul cuore.
«Va tutto bene?».
Come se si aspettasse che prima o poi la sarei venuta a cercare, Ally non parve stupita di sentire proprio la mia voce.
Scosse la testa ed io avanzai di qualche altro passo in sua direzione, accorgendomi solo allora del fatto che stesse piangendo.
Raccolse alcune lacrime residue coi polpastrelli e mi riservò uno sguardo spento, stanco.
Mi abbassai sulle ginocchia, raggiungendo la sua altezza, e prima che potessi aggiungere altro o fare qualsiasi altra domanda, Ally prese a parlare come spinta da un moto di elettricità improvviso.
«E' solo che ieri sera ho invitato Jason a casa, e io... Pensavo che la casa fosse libera, avevo chiesto ai ragazzi di darmi il permesso di utilizzare in autonomia il salotto per una sera... Ma quando abbiamo aperto la porta di casa abbiamo trovato Colin e Brandon abbracciati, stretti in un bacio così romantico da farmi chiedere da quanto tempo non baciassi Jason così, semmai lui mi abbia baciato in quel modo...», si perse per un attimo, inghiottendo lacrime salate, poi biascicò in preda ad una nuova crisi di pianto: «Ma la cosa peggiore è che Jason ne è rimasto scioccato! Ha voluto chiudersi in camera mia, mi ha chiesto come facessi a vivere sapendo di avere due gay nella stessa casa, che non riesce a comprendere come due uomini possano stare insieme pur sapendo si tratti di un errore... Li ho difesi a spada tratta, ogni sua parola mi sembrava una stilettata dritta al cuore. Pensavo: "Dio, ma con chi sto?!" e mentre questo pensiero continuava a tormentarmi, Jason non smetteva di ripetere che se avesse avuto un figlio gay l'avrebbe rinnegato e spedito in qualche istituto fino alla completa guarigione!».
A quel punto Ally si perse in un mare di singhiozzi; era talmente scossa da tremare visibilmente da capo a piedi, il petto non accennava a fermarsi, le mani le tremolavano come foglie su alberi secchi, e gli occhi erano così pieni e gonfi di dolore che anche a volersene prendere un po' per sé non si sapeva da dove cominciare.
Provai a mettermi nei suoi panni e in pochi secondi compresi come quella reazione da parte di Jason l'avesse fatta tornare bruscamente indietro nel tempo, ai giorni in cui aveva disperatamente sofferto la solitudine e la pressione da parte di sua madre, e di come si sentisse ferita dal fatto che per l'ennesima volta qualcuno che amava tanto stava rinnegando la sua natura... solo che Jason non lo sapeva.
Abbassai lo sguardo e sospirai: chissà perché, da uno come lui non mi sarei aspettata niente di diverso. Non lo conoscevo abbastanza, certo, ma era sufficiente guardarlo negli occhi quel tizio ricoperto di finti titoli, per capire quanto fosse superficiale.
Nonostante non fossi riuscita ad arrendermi con Ally, se solo l'avessi beccata dopo quei sette lunghissimi anni tanto felice da spegnere qualsiasi mia speranza o aspettativa, probabilmente l'avrei lasciata perdere senza immischiarmi nella sua vita mai più... Ma c'era stato qualcosa nello sguardo che mi aveva rivolto quel giorno in sala registrazioni. Qualcosa di diverso, spontaneo, brillante. Incosapevole di trovarmi a pochi millimetri di distanza e per questo tanto disarmante e sincero da aprirmi tutte le porte del suo cuore con un unico sbalzo d'aria.
Ally non era felice.
Non volevo peccare di arroganza presumendo non lo fosse più stata dopo la nostra rottura, ma potevo affermare con una certa sicurezza che si trattasse di una felicità fittizzia, costruita dentro una bolla privata addobbata a festa per ricordarsi ogni giorno di quanto sforzo ci avesse messo per rendere la sua vita un po' più colorata. Ma era soltanto un illusione... e presto o tardi le sarebbe stato servito il conto, come in quel momento.
Quegli attimi di silenzio da parte mia aumentarono la preoccupazione di Ally.
«Ho sbagliato tutto, vero?».
Corrucciai la fronte, mentre lei faceva scorrere gli occhi lungo i tatuaggi sul mio braccio sinistro.
«Che c'entra, adesso?».
«Scusami... voglio andare a casa».
Afferrò il cellulare alla sua destra e si ridestò, pronta a schizzare via come un razzo impazzito.
L'afferrai per un braccio e cercai il suo sguardo, ma si rifiutò di concedermelo.
«Non fare pazzie», l'ammonii, sicura del fatto che prendere delle decisioni versando in quello stato d'animo sarebbe stato per lei deleterio.
Sfilò lentamente il polso dalla mia presa e senza dire una parola corse a grandi falcate nuovamente verso il tendone.
Avrei dovuto seguirla ancora, forse. Controllare che si riprendesse prima di lasciarla sola, tenerle compagnia al cellulare, tartassarla di messaggi, spiarla...
Non so cosa sarebbe stato più giusto. Non so cosa avrei potuto fare per evitare il frastuono che ne seguì.
Dopo qualche istante di puro stordimento, anch'io mi diressi nella zona relax per prendere la mia roba e tornarmene a casa, ma qualcosa non andò per il verso giusto.
Un urlo straziante mi riempì le orecchie come cera bollente, lasciandomi l'udito come coperto da ovatta.
Mi voltai in direzione di quel suono e l'attimo successivo ci fu uno schianto così forte da farmi rizzare i peli sulla nuca. Alcuni dei miei colleghi si precipitarono fuori, seguendo la fonte del suono; mi accodai scansandoli malamente, mentre una sensazione orribile cominciava a serpeggiarmi sotto la pelle.
Kamal sembrava essere arrivato per primo e si trovava in ginocchio accanto ad una donna, sbraitando qualcosa al telefono. Poco più distante da loro, una Subaru grigia continuava a fumare e tagliava in due la corsia opposta.
Pestai qualche piede ed urlai malamente a qualcun altro di farmi passare, ma non appena fui abbastanza vicina per dire con certezza di chi si trattasse il mio corpo istintivamente indietreggiò, troppo codardo per riuscire a vedere oltre.
Riconobbi i suoi capelli, sporchi e riversi sull'asfalto. Le mani molli e senza vita accanto alle ginocchia di Kamal, una sola scarpa al piede e nessuna possibilità di poter muovere il suo corpo per appurare l'entità del danno.
Il mio corpo si scontrò con il muro umano del resto dello staff alle mie spalle e nonostante non avessi la forza per guardarla ancora, per affermare che si trattasse davvero di Ally, fui costretta a restare lì col ghiaccio che m'investiva da capo a piedi e mi faceva sudare freddo.
Mi sentivo bloccata, non riuscivo a rilassare le palpebre né a muovere le labbra per dire qualcosa.
La mia mente si rifiutava di formulare un pensiero logico, come risucchiata in un buco nero.
Mi accasciai inerme accanto a Kamal e le passai le mani sul viso pallido, ma non appena la mia pelle entrò a contatto con la sua, qualcosa crepò il muro di quell'apatia, facendomi scoppiare in un mare di lacrime.
Cacciai un urlo così forte da svuotarmi di tutto il terrore che mi aveva appena riempito il petto come il distillato di un veleno potentissimo; le passai disperatamente le mani tra i capelli e la chiamai con tutta la forza che avevo in corpo.
Kamal mi richiamò tirandomi per la maglietta, avvolgendomi le spalle con le braccia, ma io non volevo dargli retta, non volevo che mi toccasse, non volevo allontanarmi da lei, volevo soltanto urlare il suo nome fino a svegliarla, volevo fare tutto ciò che era in mio potere per scuoterla, per darle la vita, anche soffiarle la mia dritta nel cuore se serviva.
Mi avvicinai al suo viso e posai la fronte sulla sua, tenendole il viso stretto tra le dita mentre le mie lacrime solcavano lo sporco delle sue guance.
«Sta arrivando l'ambulanza, okay? Tieni duro, ti prego... Ti prego...».
Senza pensarci due volte, posai le labbra sulle sue tanto forte da sbiancarle, provocando lo sgomento generale. Intorno a me calò un silenzio di tomba così insignificante da scomparire.
Si stavano chiedendo se fossi la sua amante? Se stesse tradendo Jason con me? Se tutti i giornali scandalistici avessero allora ragione? Non mi importava. Non m'importava nulla di tutta quell'ignoranza vestita di finto buonismo e comprensione.
Volevo che andassero via tutti.
Volevo restare da sola con lei finché non si fosse svegliata. Perché l'avrebbe fatto, sì, e io sarei stata lì al suo fianco quando sarebbe successo.
Le presi le mani tra le mie e gliele sfregai energicamente, sussurrandole di tenere duro ancora una volta.
«Mya...», mi richiamò Kamal. Non mi sorpresi di non sentire alcun tipo di sgomento nella sua voce.
Lui sapeva, sapeva da tempo.
«Si sveglierà», affermai.
In lontananza, a qualche via di distanza, le sirene dell'ambulanza ci annunciarono il loro arrivo.
«Sarà così», cercò di tranquillizzarmi lui.
«Non posso perderla», sussurrai, dondolando su me stessa e rivolgendogli uno sguardo appannato di lacrime. Affondò gli occhi dentro i miei e qualsiasi dubbio gli fosse rimasto sembrò trovare risposta.
Le sirene si avvicinarono sempre di più fino a svoltare l'angolo e a frenare bruscamente. Tre uomini e un'infermiera in divisa fluorescente tirarono giù dall'abitacolo una barella medica; la donna si staccò dal trio e si avviò verso la Subaru grigia, dove l'uomo alla guida era ancora in stato di shock al volante.
Lo afferrò per le spalle e lo aiutò a scendere, ma era chiaramente illeso e questo dettaglio accese in me la miccia della rabbia.
«Ehi!», urlai, rimettendomi in piedi. Come se non esistesse nessun altro, mi avvicinai all'uomo con grandi falcate e presi ad urlargli contro. «Era trasparente, eh?! Non l'hai vista attraversare?».
Sollevò le mani tremolanti in segno di resa e cercò di formulare una risposta decente.
«Si è gettata... Si è gettata sotto l'auto in corsa... Non ha guardato! Non ho capito nemmeno da dove sia saltata fuori!».
«Veniva da lì, cazzo! Da quel capannone!».
L'infermiera si interpose tra di noi, ponendo una mano a palmo aperto verso di me ed intimandomi alla calma.
«Quest'uomo è in stato di shock, non è in grado di darle le informazioni che le servono in questo momento, signorina. La prego di allontanarsi», mi chiese gentilmente.
Nonostante la mia rabbia, m'infilai le mani tra i capelli e tornai ad Ally ancora addormentata. Possibile che non avesse davvero guardato prima di attraversare? Che si fosse lanciata in corsa in mezzo alla strada? Dopo una breve conta, i tre infermieri la posizionarono sulla barella e la caricarono sull'ambulanza insieme al proprietario della Subaru.
Li rincorsi, piena di speranza:
«Dove la state portando? Posso salire?».
Due dei tre medici mi ignorarono, il terzo invece mi concesse un'espressione scocciata.
«E' un parente?».
«Sono... Sono un'amica».
«Spiacente, non possiamo aiutarla», snocciolò di premura, poi afferrò entrambi i portelli e chiuse dentro quell'ammasso di ferraglia l'altra metà del mio cuore.
Non ebbi la forza di controbattere, sicura di non poter fare nulla contro le rigide regole di quell'istituzione. Rimasi immobile in attesa che l'ambulanza scomparisse così com'era arrivata, poi il profumo di Kamal mi arrivò dritto alle narici e con questo anche le sue mani sulle mie spalle.
Quel contatto mi riportò drasticamente ad una realtà di cui non volevo momentaneamente far parte.
Un singhiozzo mi scosse il petto.
«Come... Cosa cazzo è successo in meno di due minuti?!», sbraitai. Avrei voluto urlare ancora, ma mi sentivo la gola in fiamme.
«Non ho visto tutta la scena, ma immagino che Ally non stesse bene», presuppose. «Aveva gli occhi sporchi di pianto quando sono arrivato in strada».
Già... Ally non stava bene.
Era sbadata, certo, ma molto più razionale di ciò che voleva far credere. Non avrebbe mai attraversato senza guardare, se non fosse stata tanto distratta da ciò che la sconvolgeva da perdere il contatto con la realtà.
Mi sembrava di essere stata improvvisamente trasportata dentro un film dell'orrore o risucchiata dentro uno dei peggiori incubi della mia vita.
In meno di dieci minuti Ally era stata scaraventata in aria da uno sconosciuto, soccorsa e strappata via dalle mie mani. Cosa avevo fatto io per evitare che tutto ciò che stava attraversando non la sommergesse?
Niente. Anzi, avevo trasportato personalmente un secchio d'acqua dentro cui affogarla.
Se solo non ci avessi messo i miei ultimatum, la mia presenza assidua... Se solo avessi mantenuto ciò che mi ero imposta, riservandole un trattamento esclusivamente professionale...
I miei occhi rimasero incollati al cemento che rivestiva l'angolo dietro cui aveva svoltato l'ambulanza; rimasi ferma in quella posizione eretta per così tanto tempo da ricordare perfettamente tutti i dettagli di quel punto indurito dal tempo.
Andarono tutti via.
Pian piano, tra il mormorio generale dei colleghi, rimasi sola. Solo il senso di colpa continuò a tenermi compagnia, e ben presto scoprii quanto potesse essere stronzo come compagno di vita.
Con i "se" e con i "ma" non sarei andata da nessuna parte, e nonostante le supposizioni fossero quanto di più razionale riuscisse a frullarmi per la testa, ben presto capii di dover cambiare strategia poiché
Ally aveva bisogno di me ed io dovevo tornare tutta intera per poterla aiutare.
Il giorno successivo fu un incubo.
Presentai nell'ufficio della direzione un foglio di certificato medico con cui chiedevo di potermi assentare dalle riprese, quindi raggiunsi l'ospedale presso cui era stata ricoverata e attesi pazientemente che scoccasse l'orario di visita per poterle portare una scatola dei suoi cioccolatini preferiti e una rivista. Attesi nell'ala comune per più di due ore, cuffie alle orecchie e musica a palla.
Mi rifiutavo di pensare al peggio, figuriamoci di crederlo.
Ally stava bene e se così non era lo sarebbe stata molto presto.
Non appena gli inferieri spalancarono le porte del reparto di Ortopedia e Traumatologia dentro di me si diffuse la tipica sensazione da concerto, quando corri a perdifiato per raggiungere le postazioni migliori e goderti così da vicino il tuo cantante preferito.
Ma lì non c'era musica, solo il brusio dei visitatori e il continuo sottofondo lamentoso dei pazienti sofferenti.
Mi avvicinai con una certa urgenza al bancone dietro cui una ragazza minuta – probabilmente una stagista – stava armeggiando tra scartoffie e file in stampa. Mi lanciò un'occhiata ansiosa, come se gestire un'altra operazione fosse impossibile.
«Prego», squittì con la sua voce nasale, sistemandosi gli occhiali tondi sugli occhi. Le ciglia le sbattevano fastidiosamente contro i vetri già macchiati di mascara secco.
«Cerco Ally Dandelia Telesco. Ha avuto un incidente ieri, dovrebbe essere in questo reparto».
La stagista annuì pensierosa ed allungò le dita su una pila di fogli malconci; li sfogliò velocemente la prima volta e, dopo aver sfoderato un espressione corrucciata, si diede ad una ricerca più dettagliata... Ma dall'occhiata che mi riservò alla fine di quell'operazione capii che il nome di Ally non si trovava nella lista dei pazienti del reparto.
Afferrò un cordless e mi mostro il dito indice in una chiara richiesta di attesa. Si allontanò un attimo per parlare al telefono, lasciando le mie budella aggrovigliarsi, e quando finalmente tornò con una risposta i suoi occhi mi parlarono ancor prima delle sue labbra.
«Mi dispiace, la paziente non si trova in questo reparto», asserì.
Si riaccomodò, riprendendo le sue operazioni come se quella frase così spicciola potesse bastare a mettermi il cuore in pace.
Posai i palmi sulla mensola di legno che ci separava in altezza.
«Quindi?», la interrogai.
«Cosa vuole sapere, signorina?».
«In quale reparto la tenete, mi sembra ovvio».
Stavo per perdere la pazienza.
«Questo non so dirglielo con certezza...», riflettè.
«Non credo l'abbiate sistemata dentro i distributori automatici, giusto?».
«Come?», gracchiò stupita.
Mi passai una mano tra i capelli, esaurita.
«Può chiamare un capo reparto e farmi indirizzare, per favore?».
Sembrò colpita dalla puntura di un insetto. Indispettita, afferrò nuovamente il cordless e stavolta parlò con un suo superiore davanti a me. Gli chiese di "una certa Ally Dandelia Telesco", annuì di tanto in tanto, sfogliò qualche altro foglio sulla sua scrivania, finché non trovò l'oggetto del suo desiderio e concluse perciò la sua telefonata.
Scorse col dito una lunga fila di nomi, si bloccò sul suo e mi guardò.
Qualsiasi tipo di stizza scomparve.
«Terapia intensiva», biascicò.
Nella mia mente riecheggiò il suono tecnico di quelle due parole messe insieme; era metallico, freddo, sembrava preannunciare la morte senza nemmeno conoscerne il reale significato.
Anche se io lo conoscevo, e anche bene.
Senza ringraziarla, mi trascinai come un peso morto verso il corridoio e pigiai un pulsante rosso su una parete con cui richiamai l'ascensore al mio piano.
Fissavo il vuoto.
Terapia intensiva...
Terapia intensiva...
Era grave. Venivano portati lì i pazienti che avevano subito degli incidenti quasi mortali, quelli in stato vegetativo, chi veniva sottoposto a coma farmacologico e quelli che potevano aggrapparsi solo alla speranza...
Le ante dell'ascensore si aprirono di fronte a me, ma di tutta quella gente che mi sorpassava per raggungere i propri cari io notai solo la mia tristezza che si accomodava sul piccolo vagone di lamiera.
Quella trappola mortale cigolò fino al secondo piano dove, una volta riaperte le due ante, un silenzio di tomba m'investì le orecchie.
Mossi qualche passo verso la hall, cercando con gli occhi tracce di vita umana. Le sedie erano tutte vuote, sembrava che nessuno venisse a far visita lì.
Un rumore di passi si fece sempre più udibile alle mie spalle; mi voltai per decifrare di chi si trattasse e quando notai la divisa azzurra di un dottore cucita addosso ad un ragazzo sulla trentina, il mio cuore fece una piccola capriola di felicità.
«Salve, potrei avere delle informazioni?», gli chiesi con calma.
Il dottore, biondo e più alto di me di qualche centimetro, si avvicinò ad un bancone e tirò fuori una cartelletta e una penna.
«Certo. Chi sta cercando?», rispose cordiale, facendo scintillare il suo nominativo: Dottor Clarton.
Forse avevo fatto centro.
«Una mia amica ha avuto un incidente stradale, ieri. Si chiama Ally Dandelia Telesco».
Annuì consapevole, come se già sapesse chi stessi cercando, e senza dare ulteriori sguardi alle sue scartoffie mi fece cenno di seguirlo.
Camminammo lungo un corridoio fatto di finestre larghe attraverso le quali non si poteva guardare, inaccessibili all'occhio umano per colpa delle veneziane serrate. Lungo quella camminata, di fronte a qualche porta numerata, notai una vecchia signora, un cinquantenne, una madre con due figli e due anziani stretti in un abbraccio.
Era quella la terapia intensiva. Pregare Dio dietro una porta sperando che, una volta riaperte le veneziane, si fosse compiuto il miracolo.
Io quale Dio avrei pregato? Il mio Dio non mi era mai stato a sentire.
Alla fine del lungo corridoio interc ettai due corpi familiari e man mano che mi avvicinavo li riconobbi come quello di Kamal e quello di Jason.
Il primo era assorto nei suoi pensieri, mentre il secondo parlava al telefono con un tono così vittimistico che per un attimo la voglia di spaccargli il naso prese il sopravvento su di me e dovetti bucarmi i palmi delle mani con le unghie per non cedere a quell'istinto.
Ally era lì da qualche parte, incosciente e in gravi condizioni, e lui piagnucolava al telefono come se dovessimo occuparci della sua sensibilità prima ancora che dell'incolumità di Ally.
Il dottore allungò una mano verso la porta numero 21 e disse:
«La ragazza di cui mi hai chiesto sta riposando qui dentro», mormorò. Kamal si girò verso di me di scatto: forse il suono della voce di un altro uomo che non fosse Jason l'aveva riportato alla realtà. Il dottore lanciò uno sguardo di permesso a quest'ultimo e lui, vedendosi chiamato in causa, chiuse immediatamente la telefonata e venne verso di noi.
«Questa ragazza mi ha chiesto della sua fidanzata, signor Perez».
Jason s'infilò le mani nelle tasche del completo elegante un po' sfatto e poi fece cenno al dottore con la testa di dirmi tutto.
Mi sembrò alquanto riluttante e per questo la voglia di prenderlo a pugni tornò immediatamente ad impossessarsi di me.
«Come ho già spiegato al signor Perez e al signor Ohbair, la signorina Telesco ha accusato un trauma cranico di notevole gravità. Battendo la testa, i tessuti cognitivi e le ossa si sono scontrati dando origine ad un'emorragia celebrale. In questi casi, noi dottori diciamo che il cervello va "in protezione" entrando in uno stato di coma».
Nonostante stessi cercando di andar dietro a tutto quel discorso tecnico, alla parola "coma" il mio cervellò si arrogò il diritto di spegnersi.
Resosi conto del mio sguardo sbarrato, il dottore smise per un attimo di parlare e restò a guardarmi.
«So che non è una notizia facile da mandar giù, ma è giusto che io vi metta di fronte alla realtà. Non sappiamo ancora se si tratti di un coma medio o di un coma prolungato, ma sappiamo che la gravità del coma non ha raggiunto i valori compresi tra otto e quindici della Scala Glasgow, per questo motivo è stato necessaro intubare la signorina Telesco ed aiutarla con la respirazione meccanica».
Feci un profondo respiro, cercando di calmare i battiti accelerati del mio cuore; Kamal mi teneva gli occhi puntati addosso per ammonirmi.
«Può spiegarmi meglio?», alitai. Il dottore corrucciò le labbra e la fronte, e cercò delle parole meno tecniche per dirmi che Ally non si trovava né nella posizione di guarire domani né in quella di non guarire mai più.
«La Scala Glasgow è un metodo di valutazione di cui ci avvaliamo per misurare l'entità del coma. E' composta da numeri che vanno da tre a quindici e i pazienti che presentano un coma di gravità compresa tra il valore tre e il valore otto sono quelli più propensi alla terapia intensiva e all'intubazione. La signorina Telesco non è riuscita a superare il valore otto ed è per questo che le abbiamo riservato una stanza in quest'ala, in modo tale da poterla tenere sempre sotto osservazione».
Prima di poter intervenire, Kamal sbottò:
«Quando sapremo se si tratta di un coma medio o di un coma prolungato?».
«Stanotte», sussurrò il dottore. «Se il coma avanza oltre le ventiquattrore, potremo dire che si tratti di coma prolungato».
Lessi negli occhi di quell'uomo di medicina che nonostante avrebbe voluto darci una speranza, non ve n'era alcuna che Ally si svegliasse entro le ventiquattrore.
Abbassai lo sguardo sulle venature del parquet e mi domandai cosa avesse fatto di tanto sbagliato quella ragazza piena di energia e talento per meritarsi di essere calpestata così dalla vita.
Gli occhi mi punsero pericolosamente e una morsa mi strinse lo stomaco così dolorosamente da farmi piegare in due.
Mi accasciai contro una delle sedie pieghevoli alle mie spalle e mi tenni la testa tra le mani.
«Signorina, si sente bene?», si premurò il dottore, poi si voltò verso Kamal. «E' la sorella? Una cugina?».
Lui esitò prima di rispondere, ma alla fine sputò fuori un semplice e flebile sì.
«Scommetto che non possiamo nemmeno farle visita», sussurrai sarcastica.
L'uomo in divisa, piegato sulle ginocchia davanti a me, scosse la testa con amarezza.
«Sono le regole dell'ospedale. Durante l'orario di visita posso solo sollevare le veneziane e lasciarvela guardare da fuori», concesse.
Annuii debolmente.
«Non c'è... qualcosa, un medicinale, una terapia... Insomma, qualcosa che la aiuti a risvegliarsi?».
«Faremo tutto il possibile», si premurò di rispondere già conscio che quella richiesta da parte mia sarebbe arrivata. «La signorina Telesco si sveglierà. Questa è una certezza», affermò, posandomi una mano su un ginocchio e cercando il mio sguardo.
Ingoiai a denti stretti le lacrime e lo ringraziai tacitamente per quella sicurezza, piccola per altri forse ma grande per me tanto quanto bastava a riempirmi il cuore.
Il dottore si rimise in piedi e strinse la mano prima a Jason poi a Kamal.
«Vi aggiornerò non appena ci saranno delle nuove notizie. Tornate a trovarla domani durante l'orario di visita», mi diede una pacca sulla spalla e provò a sorridermi. «Cambierò le medicazioni e mi occuperò della signorina Telesco ogni giorno personalmente».
«Lei ricopre anche il turno di notte?», gli chiese stupidamente Jason.
Perché no? Facciamolo lavorare ventiquattrore al giorno, quel povero disgraziato.
Il dottore scosse la testa.
«No, la dottoressa Flowers mi darà il cambio alle dieci di stasera. La signorina Telesco sarà nelle mani di una donna discreta. Non entra mai nelle stanze a disturbare il riposo dei suoi pazienti a meno che una macchinario non le riveli che è necessaria la sua presenza».
Quell'affermazione accese in me un'insana idea. Il dottore ci salutò dicendoci qualcos'altro, ma io non l'ascoltai. L'idea che mi aveva appena colpito l'encefalo come la più potente delle scosse elettriche stava ramificando lungo la calotta cranica.
La dottoressa Flowers non entrava nelle stanze di notte a meno che il suo cerca persone o il monitor della hall non le rivelasse che qualcuno dei suoi pazienti necessitasse delle sue attenzioni; il dottore che ci aveva assistito, invece, si sarebbe occupato di Ally solo dalle prime luci dell'alba in poi.
C'era un breve lasso di tempo in cui Ally sarebbe rimasta da sola.
Mi serviva un camice verde e una mascherina.
~∞~
Il mio piano poco studiato prevedeva una scorpacciata di cibo spazzatura ai distributori e un nascondiglo utile. Una volta finito l'orario delle visite, mi ero diretta al piano terra con l'intento di depredare qualsiasi cosa fosse commestibile e una volta essermi riempita le tasche avevo atteso pazientemente lo scorrere delle lancette. Avevo vagato per tutti i reparti senza però poter entrare in nessuno, mangiando cioccolatini, brioche, salatini e schifezze varie, e una volta terminato il mio tour mi ero semplicemente accasciata su una sedia per studiare nei minimi dettagli l'illegalità che stavo per compiere. Il dottor Clarton sarebbe andato via alle dieci e allo stesso orario avrebbe preso il suo posto la dottoressa Flowers, quindi dovevo trovare il modo di introdurmi in terapia intensiva e nascondermi dentro qualche ripostiglio delle scope prima che i due s'incontrassero nella hall del reparto per passarsi il testimone.
Saliti i piani che mi avrebbero condotto da Ally, il solito "silenzio da Terapia Intensiva" m'investì le orecchie come un formicolio fastidioso. Tesi le orecchie in cerca di qualsiasi scalpitio o fruscio di camice, ma non udii nulla se non altro silenzio.
A passi lenti e felpati m'introdussi un po' di più tra le pareti bianche e spoglie, e arrivata all'angolo della hall lanciai un rapido sguardo in giro. I miei occhi intercettarono una placchetta metallica con su scritto "privato" e lì di seguito tutte le altre stanze dei pazienti.
Se anche ci fosse stato uno stanzino, non si trovava nelle mie vicinanze.
Nonostante la paura di essere beccata, la necessità di stringere le mani di Ally era così forte da annullare qualsiasi timore. Appiattita contro la parete, provai a spingere il mio corpo un po' più in là oltre le prime stanze finestrate e coperte. Sapevo bene che all'angolo con esse vi fosse il corridoio della stanza 21, ma non avendo beccato il dottor Clarton nelle vicinanze avevo paura che si trovasse proprio lì e che potesse sbucare fuori da qualche stanza da un momento all'altro.
Allungai il capo oltre l'angolo del corridoio e notai come, tra i vari numeri, capeggiasse accanto ad una porta blu la scritta "WC". Il cuore mi balzò in gola: poteva essere l'unica possibilità che avessi.
Mi morsi il labbro inferiore con indecisione, poi il mio sguardo captò dei fogli su un carrello a ruote e una scintilla sembrò accenderli di luce.
Alla velocità della luce, ma senza far rumore, ne afferrai uno insieme ad una penna abbandonata sul banco e mi richiusi alle spalle la porta del bagno.
Gettai fuori tutta l'aria accumulata nei polmoni e cercai di calmare il battito del mio cuore, un respiro alla volta.
Ritrovata un po' di calma, voltai il foglio – una lista di farmaci da non dare ai pazienti – e scrissi sul retro la parola "guasto". Mi guardai in giro, senza trovare niente con cui poterlo attaccare alla porta di uno dei bagni, quindi ci feci un foro con un dito e lo infilai dritto lungo una delle maniglie.
Dopodiché, mi ci chiusi dietro e attesi che l'ultimo quarto d'ora passasse agonizzandomi.
Cercai di trovare l'aspetto positivo di quella situazione: almeno i bagni erano puliti.
In quei minuti carichi di preoccupazione la mia mente percorse a ritroso alcuni degli istanti più belli della mia storia con Ally, incespicando di tanto in tanto nelle situazoni più brutte, fino ad arrivare alla completa rottura. Chissà in cosa avevamo sbagliato... In cosa avremmo potuto fare la differenza.
Forse eravamo state delle incoscenti, forse non eravamo state abbastanza adulte e non avevamo valutato nel modo corretto le implicazioni di quella fuga sentimentale. Ma a cosa serviva guardarsi alle spalle? A cosa serviva sedersi su un divano, ubriacarsi e darsi al fumo? Essere abbastanza incoscienti da razionalizzare una decisione impossibile era ciò che mi serviva per affrontare la realtà se, una volta cosciente, non riuscivo più a tener fede alla mia posizione?
Sospirai.
Il mio cuore lo sapeva bene: non sarei mai riuscita ad allontanare Ally una seconda volta, nemmeno dopo mille ultimatum. La mia mente lo voleva disperatamente, ma nonostante tutti ritenessero che io fossi una persona forte il mio cuore spesso e volentieri prendeva in mano le redini della situazione quando si parlava di lei, e mi boicottava.
La mia vita era per la seconda volta nelle sue mani e tutto questo era inammissibile! Era ovvio che se avessi dovuto puntare l'indice contro qualcuno avrei fatto meglio a puntarlo contro me stessa, ma ci sono sentimenti a cui non puoi mettere il guinzaglio e l'amore per Ally era uno di quei sentimenti impossibili da annientare.
Dopo qualche altro minuto controllai l'orologio e con mio grande sollievo notai che l'ora desiderata era finalmente arrivata. Attesi qualche altro minuto concedendo alla dottoressa Flowers il beneficio del ritardo, e una volta trascorsi i successivi cinque minuti di bonus provai a sbucare fuori dal mio nascondiglio.
Tutto continuava a tacere.
Con attenzione tirai verso di me la porta principale del bagno e in un batter d'occhio mi ritrovai nuovamente in corridoio. Ancora una volta tesi le orecchie alla ricerca di un possibile suono nelle mie vicinanze, e quando la tosse secca della dottoressa Flowers raggiunse riecheggiando il corridoio nel bel mezzo del quale mi trovavo io per poco non mi venne un infarto e non mi lasciò secca sul pavimento.
Vaffanculo. Dovevo calmarmi o avrei mandato all'aria tutto il mio piano. Dopotutto, il fatto che la dottoressa avesse la tosse era un aspetto positivo: mi consentiva di capire a che altezza del reparto si trovasse.
Scrutai velocemente con gli occhi tutti i numeri delle stanze fino a trovare la numero 21.
Accanto ad essa, un'altra porta citava "vietato l'accesso al personale non qualificato".
Bingo.
I camici e le mascherine monouso dovevano trovarsi lì. Senza far rumore raggiunsi la porta e la trovai stranamente e fortunatamente aperta.
Forse, per una questione di comodità in caso di emergenza, non chiudevano quella porta a chiave. In fondo, a parte i dottori e i pazienti in stato vegetativo, solo i parenti venivano in quella parte d'ospedale ed era raro che si muovessero dalle sedie sulle quali pregavano per fare altro che non fosse quello.
Aperta la porta, fui investita da una zaffata di odore medicinale, di roba confezionata e di plastica industriale. Tra gli scaffali capeggiavano due defibrillatori, quantità ingenti di cotone e disinfettante, grossi pacchi di analgesici, siringhe e infinite flebo pronte all'uso. In basso, impilata nel modo più ordinato possibile, c'era della morfina e insieme a questa anche una vasta gamma di antidolorifici oppiacei.
Infine, accanto ad un lavandino posizionato sotto una finestrella minuscola, vi era uno scatolone arancio a cui erano state tagliate le alette per richiuderlo ancora pieno di confezione monouso di camici verdi, mascherine e cuffiette.
Presa dall'eccitazione di aver finalmente trovato ciò che mi serviva, sfilai dall'involucro di plastica l'oggetto dei miei desideri e indossai i componenti della divisa in fretta e in furia.
Col cuore che pompava veloce feci nuovamente capolino fuori da quella porta e senza pensarci due volte feci irruzione nella stanza di Ally, richiudendomi immediatamente la porta alle spalle.
L'odore della sua pelle si confondeva con quello dei medicinali; l'aria era stantia e fredda, come se si trovasse dentro un congelatore, e le luci erano basse e soffuse come a favorirle un sonno che invece era autoimposto.
Era composta, sdraiata in una posizione quasi innaturale talmente perfetta, con le gambe allineate e le braccia parallele ai fianchi. La testa era leggermente sollevata dalla posizione eretta e i capelli, sfatti e ancora sporchi, le ricadevano accanto al viso come se qualcuno glieli avesse aggiustati per darle un'aria più composta.
A quel punto, osservando quegli occhi chiusi privi di spasmi muscolari, quelle labbra tirate e bianche, quelle guance cadaveriche, mi permisi di scoppiare a piangere. Non c'era una sola parte di lei che riconoscessi come appartenente al suo corpo.
Aveva il viso gonfio, il lato sinistro mi sembrava un po' tumefatto, e la pelle era talmente diafana da farla apparire come un'altra persona. Lei, che era sempre apparsa come una ragazza del sud con la pelle baciata dal sole, adesso sembrava solo un corpo senza sangue, senza vita.
Mi avvicinai al suo letto con lentezza esagerata, mentre l'elettrocardiogramma registrava i battiti del suo cuore prendendosi gioco dei miei sentimenti, ricordandomi che Ally fosse ancora lì ma senza esserci davvero.
Avvicinai al suo lettino uno sgabello e mi ci sedetti sopra, lasciando che la mascherina assorbisse le mie lacrime. Le presi delicatamente una mano e il contatto con la sua pelle appena tiepida mi scosse da capo a piedi con un tremendo singhiozzo.
«Ally...», le sussurrai. «Piccola mia...».
Le diedi un bacio sul palmo della mano e le massaggiai lentamente le nocche.
«So che non dovrei essere qui, che è contro la legge... E so anche che se fossi cosciente mi rimprovereresti come solo tu sai fare, ma avevo bisogno di parlarti, di dirti che mi dispiace di averti dato delle scadenze, di averti obbligato a scegliere. So quanto è difficile per te, so che è stata dura per entrambe andare avanti, e so che ritrovarci non era affatto previsto... Ma c'è qualcosa tra di noi, qualcosa che dal primo istante ci ha legate con un filo invisibile, impossibile da tagliare via».
Tirai su col naso, perdendomi tra tutti quei discorsi che un filo logico nemmeno ce l'avevano.
«Ti ricordi quella sera in discoteca? Io mi ricordo di te, del tuo nervosismo, di tutte quelle bustine di zucchero che hai mandato giù... Ricordo perfino il modo imbarazzante in cui eri vestita».
Accampai una mezza risata e le strinsi le dita più forte.
«Ti ho invitata il giorno dopo e quando non ti sei presentata ho avuto paura di non riuscire a rincontrarti mai più. Io non credo al destino... ma le circostanze che ci hanno portato sulla stessa strada da quella sera in poi sono troppe per essere definite solo "coincidenze". E poi... sì, ci si può innamorare e ci si può allontanare quando i sentimenti si affievoliscono, ma il mio amore per te non è mai diminuito».
Le scostai una ciocca scura dal viso immobile e le sfiorai una guancia.
«Abbiamo fatto tanti di quegli errori imperdonabili... Non finirò mai di darmi della stupida per non aver colto in tempo il tuo malessere, forse se fossi stata più attenta a ciò che ti mancava sentimentalmente piuttosto che a ciò che ti mancava materialmente oggi saresti ancora la mia donna», mormorai piena di rimorsi.
Presi un profondo respiro e mi domandai perché le stessi confessando tutto proprio nel momento in cui non poteva ascoltarmi e capirmi, ma in fondo la risposta era molto semplice.
«Ma nonostante tutto, io ti sento ancora mia, Ally, nonostante a conti fatti tu non lo sia più.
Ed è per questo che ti dico... che sei libera di scegliere. Che indipendentemente da ciò che deciderai, io continuerò a darti il mio amore e il mio supporto, sempre, perché in fondo non posso accampare nessuna pretesa. Nessun ultimatum, nessun obbligo. Ti lascio libera. Questa è la tua vita e devi svegliarti per continuare a viverla, hai capito?».
Lanciai di sfuggita un'occhiata all'orologio. Erano quasi le dieci e trenta e nonostante avessi voluto rimanere lì tutta la notte, forse era meglio cominciare a cercare un'uscita di sicurezza per andare via senza essere visti.
Mi sollevai dallo sgabello e le lanciai un'ultima occhiata dall'alto, pregando in cuor mio Dio di darle un'altra possibilità.
Mi accostai accanto al suo orecchio e le diedi un bacio sulla tempia, tenendole il viso tra le mani.
«Sarò qui quando ti sveglierai, sempre al tuo fianco. Ti amo, piccola mia».
Mi scostai dal suo viso e lasciai che la mascherina assorbisse le mie ultime lacrime, ma proprio quando stavo per voltarle le spalle ed afferrare la maniglia della porta per andare via l'elettrocardiogramma cominciò a registrare un battito cardiaco anomalo, molto più rapido. Le lanciai uno sguardo allarmato e mi resi conto del fatto che avesse le guance arrossate e che le dita della mano che le avevo stretto stessero subendo degli spasmi.
«Ally...».
Mi aveva sentita? Stava cercando nuovamente le mie mani? Avevo gli occhi sbarrati e il cuore che mi pompava frenetico contro la cassa toracica, ma non avevo il tempo di avvicinarmi nuovamente per farle delle ulteriori domande. La dottoressa Flowers sarebbe stata lì a momenti: se la fortuna era a mio favore, sarei riuscita a scappare di lì giusto in tempo per non farmi braccare e arrestare.
Mi fiondai fuori dalla porta e mi guardai velocemente in giro. Oltre le porte delle stanze, in fondo al corridoio, vi era una porta in vetro con su scritto "uscita di emergenza" impossibile da aprire se non da dentro. Mi ci lanciai, scivolando con le suole delle scarpe sul pavimento, e strinsi il braccio della porta talmente forte da rimbalzare fuori con un unico scatto.
Mi fiondai giù dalle scale antincendio e nel frattempo lanciai un ultimo sguardo al reparto: della dottoressa Flowers si vedevano già i capelli in lontananza.
Pregai Dio di non essere stata vista, ma ahimè era meglio che mi mettessi l'anima in pace: avrebbero capito che qualcuno aveva fatto irruzione.
Ally aveva il braccio leggermente spostato, non avevo fatto in tempo a mettere lo sgabello al suo posto prima di uscire e non ero nemmeno sicura di aver chiuso la porta della sua stanza in tempo.
Cazzo!
Ma perché, perché Ally aveva reagito?! Il dottor Clarton aveva detto che si trovava in uno stadio di coma avanzato!
Eppure mi aveva anche promesso che si sarebbe svegliata. Che il trucco fosse quello? Parlarle? Mi sentiva?
Corsi a perdifiato verso la stazione degli autobus e nel frattempo mi strappai di dosso tutta quella roba medica, lanciandola dentro il primo cassonetto della spazzatura disponibile.
Arrivata ad una fermata, mi accasciai sulla panchina d'attesa e provai a prendere fiato. Avvertivo i polmoni ardere e lo stomaco contorcersi.
Avevo così tante domande per la testa, così tanti interrogativi senza risposta, che anche il cervello stava per andarmi a fuoco.
Ally aveva avuto una reazione.
Ce l'aveva avuta perché le avevo parlato? Aveva riconosciuto la mia voce? Qualcosa dentro di me era più che sicura che si trattasse di questo. La sua pelle aveva preso colore dopo il mio bacio, dopo le mie confessioni. Forse volevo solo convincermi di una cosa di cui mi avrebbe fatto piacere avere la certezza, ma una cosa era certa: io e il dottor Clarton dovevamo fare un patto.
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