Capitolo X: The day of friendly advice
Jason camminava avanti e indietro dentro le sue pantofole pesanti, osservava le automobili sfrecciare veloci al di là delle finestre. Il caffè dentro il suo bicchiere termico produceva un rumore fastidiosissimo ad ogni movimento, spezzava il silenzio imbarazzante con un rumore ancora più imbarazzante. Non indossava maglietta, solo un sotto di tuta grigio e i capelli sfatti dal sonno.
Sul tavolo che ci divideva da una lite sicura, un giornale locale mi ritraeva in una foto in cui mi vedevo intenta a scavalcare le pareti di neve di Boston.
Fin qui tutto bene, se non fosse che la stessa foto ritraeva anche Mya, una mano sul mio braccio per sostenermi e il volto imbronciato, al contrario del mio assolutamente sorridente.
Mi sentivo così scossa e sbigottita da non riuscire a proferire parola: passeggiare per Boston non mi era sembrato un problema, l'idea dei paparazzi con quelle condizioni climatiche non mi aveva sfiorato nemmeno per un attimo la mente.
Oltretutto, a parte Kamal, nessuno sapeva del mio viaggio a Boston e del perché stessi facendo una capatina alle origini, quindi non mi spiegavo come fosse possibile che fossero riusciti a beccarmi comunque...
La foto era sgranata poiché ingrandita, non era nitida, ma i capelli e la statura di Mya erano inconfondibili e per quanto Jason l'avesse vista poco e nulla riuscì comunque a riconoscerla.
Anche se non sapevo leggergli nel pensiero, potevo immaginare cosa lo stesse turbando tanto: gli avevo proibito di venire con me per milioni di motivi nonostante lo definissi la persona più importante della mia vita, e poi, senza che avessi potuto controllarlo, qualcuno aveva scattato una foto che mi ritraeva con Mya, una figura che avevo definito del passato e che improvvisamente si meritava più di lui la possibilità di sostenermi in un momento di dolore. Perché? Quella domanda sembrava scagliarsi in ogni angolo della cucina.
«Non ti capisco», esordì dopo interminabili attimi di silenzio.
Il pulviscolo ondeggiava intorno alla sua figura, la poca luce di quel giorno nuvoloso riusciva comunque a stagliarsi contro il suo corpo scolpito.
Osservai le ombre che quei leggeri giochi di luce creavano sulle curve del suo corpo, sui fianchi spigolosi, sull'addome piatto, sulle braccia tese, sulle venuzze esposte degli avambracci, e mi chiesi cosa non andasse in lui, perché mi ostinassi a voltare le spalle a qualsiasi cosa e a chiunque non fosse Mya Atson...
«Non hai niente da dire?».
Sobbalzai e mi strinsi nella mia camicia da notte sottile.
Socchiuse gli occhi a due fessure e mi squadrò alla ricerca di qualcosa che non riuscii a captare, poi scostò le tende e continuò ad osservare le vite in corsa sulle carrozzerie colorate.
«Non l'ho invitata io, è stato un caso che si trovasse lì».
Abbozzò una risata divertita.
«Ma che coincidenza!».
«E' così», insistetti. «Si trovava a Boston per aiutare un amico col suo vecchio lavoro».
Non era del tutto una bugia, in fondo Mya era partita proprio per lavorare da John... Non mi aveva inclusa nei suoi piani, però, cosa che avevo fatto io per avere un po' di conforto.
Jason sospirò, si voltò e tornò da me. Si abbassò alla mia altezza, posò le mani sui braccioli della sedia su cui ero seduta con estrema lentezza e cercò i miei occhi.
«Hai idea di cosa significhi avere la continua sensazione di star vivendo una doppia vita?».
Certo che ce l'avevo, forse convivevo con quella sensazione più di quanto facesse lui. Continuamente spaccata in due tra ciò che dovevo fare e ciò chesentivo di dover fare, indecisa di fronte ai bivi, spaventata dalle possibili e future decisioni, e come se non bastasse non riuscivo a tirar fuori il piede da una delle due scarpe, vivendo due realtà con due persone diverse.
Chi meglio di me poteva spiegargli cosa si provava?
Voltai il capo dall'altra parte, incapace di guardarlo negli occhi.
«Io ti amo. Lo sai quanto ti amo, ma convivere con tutti i tuoi segreti, con i tuoi silenzi, è come camminare continuamente su un campo pieno di buche e avere paura di restarne inghiottiti ad ogni passo».
Mi morsi le labbra a sangue cercando di trattenere le lacrime; Jason mi afferrò delicatamente il mento e cercò nuovamente i miei occhi, mi carezzò uno zigomo e mi chiese con uno sguardo di parlargli, di aprirmi...
«Non è così, è solo... Sono solo cose del passato, cose a cui non voglio pensare, che mi hanno ferito...».
«Cose che ti allontanano da me», concluse con la voce incrinata.
A quel suono non potei evitare di guardarlo: gli passai una mano su un braccio, incerta, e per la prima volta mi resi conto davvero di quanto tutto ciò da cui lo tagliavo fuori lo ferisse.
«Cosa facevate in quella foto?», azzardò, deglutendo.
Lessi il dubbio nella sua voce, un tentativo disperato a cui non avrebbe mai voluto dar voce.
Allungai la mano sulla sua guancia, gli sfiorai la barba un po' cresciuta, inspida, e lui ci poggiò il viso sopra.
Mi chiesi perché Dio mi stesse dando il potere di ferire due persone a cui tenevo così tanto senza fornirmi però la capacità di porvi rimedio.
«Perché Mya ti preoccupa tanto? Eravamo molto amiche in passato, stavamo solo facendo una passeggiata...».
«Perché sorridi nella foto?».
Perché la stavo prendendo in giro mentre lei continuava ad arrabbiarsi.
«Ho fatto una battuta che non ha capito...».
Glielo leggevo negli occhi, che Jason sapeva di essere preso in giro. Glielo leggevo in quelle iridi verdi, che stava cogliendo l'ennesima bugia.
Ed era deluso, perché ancora una volta gli stavo nascondendo la parte più vera di me mostrandogli l'unica che conoscesse già e di cui non voleva sapere più nulla: quella falsa.
«Fammela conoscere», pronunciò infine.
Si sollevò come se non fosse più disposto a patteggiare: la sua era più un'imposizione che una richiesta.
Il panico prese a ribollirmi al centro del petto.
«Io non...».
«L'ho capito, Ally. Non vuoi rendermi parte del tuo passato, devo arrendermi al fatto che ci sono delle cose che non saprò mai, ma almeno fai questo sforzo. Fammela conoscere, voglio parlarle, sentirmi un passo meno lontano da te... Più vicino alla tranquillità. Puoi farlo?».
Non era il caso, non dopo tutto quello che era successo tra me e Mya, eppure mi sembrava l'unica via di fuga. Dargli la possibilità di parlarle, di mostrargli che non era una minaccia, che la sua presenza non implicava nulla che potesse nuocergli sarebbe potuta essere la soluzione perfetta a tutti i miei problemi, la risposta a tutte le sue domande. Non sarei stata costretta a confessare nulla, avrei potuto posticipare ancora di qualche tempo il momento della catastrofe.
Perché sì, sapevo che sarebbe arrivata prima o poi, solo che non mi sentivo ancora abbastanza pronta...
Che poi, ero proprio sicura che Mya non costituisse una minaccia per Jason? Dopo ciò che era successo a Boston ero più che sicura del contrario.
«La chiamerò», acconsentii.
Avrei dovuto inventarmi qualcosa, creare un piano...
«Va bene», sorrise. Parve improvvisamente più tranquillo, quell'ammasso di carta grigia sul tavolo non mi sembrò più una bomba ad orologeria.
«Che ne dici di uscire a cena stasera?».
Se avessi avuto dell'acqua in bocca l'avrei sicuramente sputacchiata dappertutto.
«Stasera?!», gracchiai.
«Sì, a meno che non abbià già da fare. Può portare la sua ragazza, facciamo un'uscita a quattro», tentò.
Sapevo che quello era l'ennesimo guanto di sfida, un mezzo attraverso cui testare la mia sincerità e farmi capire che non fosse uno stupido: Jason nutriva dei forti dubbi nei confronti della relazione che intercorreva, e che era intercorsa nel passato, tra me e Mya ma non aveva il coraggio di pormi in modo diretto le sue domande.
C'era un unico problema: Jenna non era più in città.
Dovevo inventarmi qualcosa.
«Sì, posso chiederglielo».
Shane era mia amica, mi avrebbe aiutata... Speravo.
Cedermi in prestito la sua dama per una notte non era poi questo gran sacrificio.
Il pomeriggio crollò sul mio stomaco come un macigno pesante. Le ore sembrarono non trascorrere mai, Kamal decise di rivedere alcune delle scene più complicate per dare la possibilità al montaggio di avere più materiale su cui lavorare, quindi dovetti cambiarmi un sacco di volte, struccarmi e ritruccarmi finché tutte le scene più salienti non ebbero la loro riserva.
In sala erano presenti diversi operatori del suono, ma di Mya neanche l'ombra. Come sempre sembrava scomparire proprio quando io ero sulle sue tracce.
Durante una breve pausa chiamai Shane sul cellulare e dopo il terzo tentativo la sua risposta mi sembrò una manna dal cielo.
«Oh, Dio», risposi esasperata.
«Dev'essere qualcosa di importante se lo nomini invano. Che succede, Dandelia?».
«Scommetto che lo sai già», abbozzai.
Mya e Shane erano diventate molto amiche, non mi avrebbe sorpreso sapere che conoscesse fin nei minimi dettagli ciò che era successo a Boston. Eppure, contro ogni pronostico, Shane si dimostrò dubbiosa.
«No, mi sa che ti sbagli. Guai a lavoro?».
«Guai con Jason», sussurrai, lanciando sorrisi qua e là a chi passava in sala comune per prendere un caffè.
«Ha scoperto che sei lesbica?».
«Io non...».
«Ah, no. Non ti permetto di dire ciò che stai per dire».
Sospirai.
«Mi serve Costantine e tutte le sue abilità di attrice».
Fischiò.
«La cosa si fa seria. Ti deciderai a raccontarmi o no?».
Non ero del tutto propensa a raccontarle ciò che c'era stato tra me e Mya, ma dovevo darle un assaggio dell'accaduto se volevo farle capire il motivo di tanta urgenza.
«Qualche giorno fa sono partita per Boston, dovevo partecipare al funerale di mio padre. Non pensavo che i paparazzi avrebbero pedinato ogni mio movimento, e invece mi sbagliavo. Ho incontrato Mya, abbiamo passeggiato per le strade, i paparazzi ci hanno scattato delle foto e adesso tutti i giornali di Gossip stanno facendo congetture riguardo questo "week-end sulla neve" tra la futura stella del cinema e l'angelo misterioso che l'ha salvata dai paparazzi mesi fa», snocciolai, avvertendo chiaramente gran parte della tensione che mi si era accumulata sul petto sciogliersi.
Forse avevo davvero bisogno di parlarne con qualcuno...
«Sì, Mya mi ha detto di tuo padre... Mi dispiace non averti fatto le mie condoglianze prima, non volevo riempirti il telefono di squilli e messaggi. So anche che vi siete incontrate, dovevo riaccompagnarla nel Kansas il giorno che invece le hai chiesto di restare».
Strabuzzai gli occhi.
Mya aveva detto a John di non essere partita perché il suo mezzo per tornare in città aveva subito un ritardo, non mi aveva detto di Shane...
«Aveva un biglietto prenotato?».
«Nah, dovevo darle uno strappo io. Ma sai com'è fatta Mya quando si tratta di te».
Com'era fatta? In cosa cambiava? In cosa era diversa? Dettagli dettagli dettagli...
«Capisco...», sussurrai stordita.
«Allora? A cosa ti serve Costantine?».
Provai a fare un po' di chiarezza in mezzo a tutte quella confusione.
«Ho bisogno che finga di essere la ragazza di Mya per stasera, Jenna è partita e non so a chi altro chiederlo», mormorai con la tazza termica del caffè davanti alla bocca.
Avevo archiviato la rabbia di essere l'unica a non sapere della sorellastra sconosciuta.
«Perché?».
Quella era la domanda che più in assoluto avrei voluto evitare.
«Ho negato a Jason la possibilità di venire con me a Boston, l'ho convinto che fosse una pessima idea, che avrei fatto meglio a fare un viaggio da sola... Ma ecco che sbuca fuori quella dannata foto su tutti i giornali! Ovviamente è arrabbiato, non riesce a capire il motivo per cui gli abbia proibito di farmi compagnia se poi io e Mya eravamo lì insieme come se la mia non fosse una pausa di lutto, ma bensì una vacanza sulla neve!», sputai, strozzandomi per evitare di urlare.
Shane, dall'altra parte, si fece scappare una lunga risata.
«Quindi ti ha chiesto di conoscerla meglio?».
«Sì», esclamai esasperata.
«Tipico... Senti, il tuo uomo non è stupido. Ha molta pazienza, questo dobbiamo concederglielo, ma finirà prima o poi così come quella di Mya. Stai giocando col fuoco, Dandelia... Devi prendere una decisione. Neghi a Jason la possibilità di consolarti e chiedi a Mya di restare al tuo fianco per passarti i fazzoletti nei momenti catartici. Che ti frulla in quella zucca? La mia donna è tutta tua se pensi che questo ti servirà per migliorare la situazione, ma secondo me stai soltanto aggiungendo troppo brodo ad una pentola troppo piccola ...», concluse.
Quelle parole, quella verità così limpida, si abbatté contro di me con la potenza di mille lame: mi tolse il respiro. Da tempo non sentivo dei consigli così sinceri, non mi affidavo all'aiuto esterno e totalmente incondizionato di un'amica... Facevo meglio ad aggrapparmi a quelle parole con tutta la forza che mi restava, perché in futuro avrei dovuto servirmi di quel discorso per trovare la forza di seguire tali lezioni.
«Lo so...».
«A che ora passate a prenderla?», sviò.
«Per le otto e trenta può andar bene?».
«Le dirò di infilarsi nella vasca alle cinque. Buon lavoro, Ally», sussurrò con voce dolce.
Tuu tuu tuu...
La telefonata terminò lasciandomi nella mente un guazzabuglio di immagini che giocavano a rincorrersi.
Mi chiedevo con insistenza cosa avrei fatto, come avrei dovuto comportarmi per nuocere il meno possibile ad entrambi, perché pensassi a Mya con così tanta insistenza, perdendomi tra i ricordi... Potevo ancora vedere il suo corpo tendersi, lasciarsi andare sotto le mie mani, i suoi seni tesi, i capezzoli rigidi, la curva morbida e perfetta del collo, i capelli sfatti, la bocca socchiusa pronta ad accogliermi...
Perfino l'odore che vibrava nella caffetteria dello staff mi ricordava lei, il suo shampoo, il suo profumo inconfondibile, gli occhi resi scuri dall'eccitazione, i tatuaggi che le costellavano le braccia, il collo, l'epidermide lattiginosa, il sapore pungente della sua intimità, della sua eccitazione...
«Stai sbavando».
Richiusi immediatamente la bocca inconsapevolmente schiusa e mi ridestai con la violenza di un ceffone, trasalendo.
Mya, nel suo completo total black, si stava versando del caffè bollente in una tazza termica e non avevo idea del quando e del come fosse riuscita ad arrivare al mio fianco senza fare il minimo rumore.
«Ero soltanto pensierosa».
«Beh, in base a cosa pensi può capitare di sbavare», mi fece l'occhiolino e prese un sorso dalla tazza.
«Sei di buonumore», notai.
«Ho deciso di prendere il futuro con filosofia», agguantò un cornetto e ci affondò i denti, strappandone un pezzo.
«Sai già cosa ti riserverà, quindi».
«Oh, certo. A breve la prenderò di nuovo nel c...!»
«Mya!», strillai. Una costumista si voltò in nostra direzione e ci sbirciò, attirando l'attenzione di qualcun altro. Sorrisi loro come se nulla fosse e tirai Mya da parte.
Presi un profondo respiro e cercai di ignorare la fatica che il mio corpo sembrava impiegare nel non perdermi tra le sue iridi chiare.
«Ho bisogno di un favore», sibilai piena di vergogna.
«E ti pareva!», bofonchiò, trangugiando la sua colazione.
Come potevo proporgli una cena a quattro col "nemico"? Sapevo perfettamente che Mya riteneva Jason tale e lui non faceva di certo riferimento a lei come ad un'amica!
Ma se quella era davvero l'unica via per far in modo che lui smettesse di sospettare e mi lasciasse modo di continuare a capirmi, senza dovermi preoccupare necessariamente dei suoi continui controlli...
Ero un'egoista del cazzo, lo sapevo bene. Stavo mettendo i miei sentimenti al primo posto a discapito di quelli di due persone che amavo, ma come potevo prendere una decisione senza sacrificare qualcosa?
«Hai visto le foto sui giornali?».
«No, Brad Pitt ha fatto le corna ad Angelina?».
«Guarda qui», afferrai una delle tante copie distribuite per la caffetteria e l'aprii a pagina sette. «Ci hanno beccate durante la passeggiata a Boston. Ho avuto una lite con Jason stamattina e mi ha chiesto di conoscerti meglio, giusto per sentirsi più tranquillo».
Le sue labbra si aprirono in un sorriso sfrontato, smagliante, arrogante, pieno di boria.
«Quindi mi teme».
«Non credo proprio. Vuole soltanto assicurarsi di poter stare tranquillo, di non avere rivali».
«Ed è così?», sussurrò.
Il mio sguardo vagò dai suoi occhi alle sue labbra, in un andirivieni che confuse anche me.
Lontane dal resto dello staff, Mya mi afferrò per un braccio e mi bloccò sapintemente tra l'inizio di un grosso capannone nero e una porta scura. Un quadrato di un metro scarso in cui a stento potevano essere posate due scope.
Mi sfiorò il labbrò inferiore con l'indice, seguì il profilo del mento, mi strinse le dita sul collo, poi tornò ai miei occhi.
Avvertii il petto ardere e mi sentii prossima all'iperventilazione. Il suo respiro s'infranse sulla mia bocca, mentre con il naso sfiorava la punta del mio e mi costringeva ad appiattirmi contro la parete.
Mi accorsi con stupore che il mio corpo la voleva, reagiva alle sue provocazioni, tremava sotto i suoi tocchi...
«Ha un rivale oppure no?», mormorò insistendo. La sua voce era calda, bassa, e nonostante pensassi che rispondere il meno possibile alle sue azioni l'avrebbe costretta ad allontanarsi, dovetti al contrario rendermi conto ben presto che il mio restare inerme, come se fossi indifesa, non faceva altro che aumentare la sua eccitazione.
Allungai le mani e gliele posai sulle spalle.
«Fammi... fammi semplicemente questo favore...», la supplicai. Nonostante fossi nel torto assoluto, provai a non sprofondare di vergogna e glielo chiesi ancora una volta.
Mya abbozzò un sorriso consapevole, inclinò il viso sul mio orecchio e mi sfiorò il lobo con la punta della lingua, costringendo milioni di brividi a sprigionarsi come fuochi d'artificio lungo la mia colonna vertebrale.
«Vorrà dire che sarò io a dare una risposta a questo quesito. Mi stai chiedendo una guerra, Nana, e sarà guerra ciò che avrai».
Si allontanò lentamente, tornò a fissarmi le labbra, gli occhi, poi si ricompose velocemente. Si aggiustò il colletto della camicia, indossò il suo auricolare e mi fece l'occhiolino sbucando fuori da quel cubicolo stretto.
Ero nella merda fino al collo.
Jason voleva sapere di poter stare tranquillo, che non c'era nulla da temere quando io e Mya ci ritrovavamo nello stesso raggio di azione, e Mya invece voleva dichiarargli guerra, dimostrargli che aveva da preoccuparsi eccome, che se davvero si fosse messa in testa di avermi mi avrebbe ottenuta.
In tutto questo, io ero l'ago della bilancia. Avevo il potere di far pendere tutto sulla testa dell'uno o dell'altro malcapitato, ma nonostante fossi fornita dei pesetti non riuscivo ancora a posizionarli.
~∞~
«Mi sembri un tantino agitata», commentò Larissa fuori dalla porta di camera mia.
Il pavimento sembrava un campo minato, ovunque si cercasse di mettere piede era probabile incontrare calzette, scarpe, collane, mutande e maglioni. Il letto era il cimitero dei vestiti fuori moda: tutto quello che non era di stagione giaceva lì come un corpo abbandonato. Con la testa infilata nell'armadio e il sedere in bella mostra fuori dalle ante, continuavo a tirare fuori qualsiasi cosa mi sembrasse adatta per poi gettarla o a terra o sul piumone.
Larissa era sconvolta, tentava di darmi una mano ma finiva solo per grattarsi confusamente la testa.
«Hai una cena con Kamal?».
«Peggio!».
«Un nuovo produttore, forse?».
«Il destino», mormorai, accasciandomi tra i vestiti appallottolati. Avevo la fronte madida, mi sentivo terribilmente accaldata dentro i miei vestiti invernali.
Colin passò distrattamente davanti alla porta di camera mia proprio quando decisi di togliermi il maglione, ma sembrò non accorgersi di nulla.
Feci per nascondermi e Larissa sorrise.
«Non lo sai?», m'interrogò con un espressione di tenerezza.
Aggrottai le sopracciglia.
«Cosa dovrei sapere?».
«Che potresti avere le tette più belle del mondo e lui non le noterebbe nemmeno».
«Che dici?», esclamai, «Brandon gli chiede sempre di una certa tizia che Colin frequenta, si spiattellano in faccia i propri racconti intimi!», sussurrai, abbassando il tono di voce.
Larissa ridacchiò e scosse il capo.
«Guarda che era solo una copertura», ammise. Si abbassò alla mia altezza, afferrò una camicetta di velo color cipria abbellita da un nastro di paillettes sul collo e me la porse, intimandomi a provarla con un gesto eloquente.
L'afferrai incerta e continuai a scrutare dentro quegli occhi non troppo scuri.
«Stai insinuando che...?».
«Sta con Brandon. Li ho beccati l'altra notte, di ritorno da un appuntamento. Se ne stavano sdraiati sul divano, l'uno tra le gambe dell'altro, mezzi addormentati».
Strabuzzai le palpebre. Mi sembrava di vivere in una dimensione dove l'unica deficiente che si ostinava a negare la propria natura ero io.
«Non potrebbero semplicemente essersi addormentati?», tentai, consapevole di fallire.
Larissa frugò tra la valanga di gonne e pantaloncini eleganti, ne tirò fuori un paio color crema dal tessuto morbido, con tasche larghe sui fianchi e ci accoppiò immediatamente dei collant color carne, poi mi passò il tutto.
Li afferrai incerta, sorpresa del fatto che io non fossi riuscita a mettere insieme nemmeno due scarpe dello stesso colore mentre a lei era bastato uno sguardo in mezzo a tutto quel caos per fornirmi un outfit perfetto.
«Nudi?», esclamò con tono ovvio. «Non mi sembra una coincidenza normale», ridacchiò.
«Te l'hanno confessato?».
«Non gliel'ho chiesto in modo diretto, ho solo lanciato qualche frecciatina a cui hanno risposto in modo affermativo. Alla fine ho detto a Colin che sarei stata qui per lui quando sarebbe stato pronto a parlarmene, ma insomma... Dopo quello che ho visto non ho bisogno di altre conferme», fece spallucce e non aggiunse nient'altro.
Cominciò a rimettere a posto la mia roba mentre, seduta sulla poltrona di camera mia, m'impegnavo con minuzia ad infilare i collant su per le gambe.
Come avevo fatto a non accorgermene? Non che Larissa ci fosse riuscita, con molta probabilità nemmeno lei se ne sarebbe resa conto se non li avesse colti in flagrante... Eppure mi sentivo comunque un'idiota.
Insomma, mi ritenevo ancora parte di quel mondo, com'era possibile che non ci avessi fatto caso? Il mio gay radar non funzionava più?
Mi resi conto improvvisamente che tutto quel tempo passato ad impormi di essere qualcun altro non aveva fatto altro che annullare la vera me stessa, le mie vere terminazioni, sensazioni, intuiti, in favore di un fantoccio privo di reattività.
«A che pensi?», esordì lei.
Trasalii maledicendomi per non essere stata brava abbastanza da rendere la mia espressione imperscrutabile e provai a sorriderle.
«Niente di importante».
«Perché hai detto di avere un appuntamento col destino?», inclinò il capo lateralmente e mi venne in contro, aiutandomi a chiudere la cerniera dei pantaloncini sulla schiena.
Insieme ad un sospiro, provai a sputare fuori tutte le sensazioni negative e i timori scaturiti dalla possibilità di aprirmi con lei.
Larissa attese, rispettando il mio silenzio, e dopo essermi infilata la camicetta mi sospinse su una sedia di fronte alla specchiera e mi passò le mani tra i capelli. Osservai i suoi movimenti, certa del fatto che volesse acconciarli, e mi dissi che dopo tanto aiuto le dovevo un minimo di conversazione.
Mi schiarii la voce ed ignorai la leggera tachicardia.
«Le cose con Jason non vanno molto bene», sputai.
Lei annuì lentamente, già conscia di ciò che le avevo appena confermato.
«Lo sospettavo. E' da un po' che te ne stai sempre per i fatti tuoi, non parli più di lui con la stessa frequenza di prima e nelle rare volte in cui ci vediamo mi sembri sempre persa tra i tuoi pensieri...», rimuginò.
Si allungò sulla specchiera ed afferrò due spille colorate, tirandomi i capelli all'indietro con un pettine.
Ogni nodo districato mi sembrava un nuovo passo mosso in direzione del conforto che Larissa poteva fornirmi.
«C'è una persona...». Larissa si bloccò per un attimo e mi lanciò uno sguardo attraverso lo specchio, poi riprese a pettinarmi in silenzio. «Fa parte del mio passato, ma credo di non essere mai riuscita a chiudere definitivamente con lei».
«Lei? Intendi lei come "persona"?».
«Intendo lei come "donna"», esalai.
Finalmente ero riuscita a sputare fuori il sasso che fino a quel momento mi aveva ostruito le vie respiratorie.
Trattenni l'aria e la lasciai andare, beandomi della sensazione di liberazione che quella piccola confidenza era riuscita a regalarmi.
Con due click fermò le spille dietro la nuca, tenendo ben salde alcune ciocche di capelli.
I secondi scorsero interminabili, mentre le attorcigliava in trecce fitte da fissare in altre zone del capo.
Mi torturai le dita e la mente, domandandomi se la scelta di confessarle qualcosa fosse stata troppo azzardata a quel punto.
Finiti i capelli, Larissa afferrò lo schienale della sedia e mi voltò verso di lei. Posò le mani sui braccioli proprio come aveva fatto Jason quel mattino e cercò i miei occhi, li scrutò a fondo.
«Si tratta della ragazza che ti ha salvato dai paparazzi la sera del trailer del film?».
Come negare? A parte Larissa e i vari membri del cast, nessun altra figura femminile mi ronzava intorno ed io, impegnata com'ero, non avevo il tempo per crearmi nuove amicizie. Fino all'arrivo di Mya la mia vita era andata avanti senza alcun tipo di intoppo e mai prima di allora avevo sentito l'esigenza di parlare a Larissa di una fiamma del passato. Coincidenze? La mia coinquilina non era stupida: con molta probabilità era riuscita a tenermi sott'occhio abbastanza da trarre le sue conclusioni.
«Sì...», mormorai. «Lavoriamo nello stesso cast».
«Ma non mi dire... Ed era una tua amica?».
Deglutii un fiotto di saliva acida e mi tormentai la pelle dei polpastrelli, quasi fino a sanguinare.
«No». Fu un soffio di vento. «Era la mia ragazza».
Larissa non si scompose come temevo, il suo sguardo non mutò. Allungò una mano e mi carezzò una guancia, poi mi attirò a sé per un braccio e mi strinse forte.
Restai pietrificata, perché mai mi sarei aspettata che fra tutta quella gente che mi correva in contro, mi parlava e mi sorrideva, ad aiutarmi sarebbe stata l'unica ragazza diplomatica da cui tutto mi sarei aspettata, grandi discorsi e consigli magistrali, tranne che un semplice abbraccio.
Mi si riempirono gli occhi di lacrime e mi permisi di scoppiare, di lasciarmi andare contro quella spalla tanto agognata che io stessa mi ero imposta di evitare per non crollare. Larissa mi affondò le dita tra le pieghe della camicetta, mi strinse le scapole, mi tenne ben salda e lasciò che mi sfogassi.
Mi sfuggì un singhiozzo sonoro a cui solo io potevo dar voce: per l'ennesima volta avevo fatto un errore, ma più pensavo di sbagliare più la sensazione di felicità che scaturiva da questi fatidici errori mi confondeva.
Se era sbagliato amare Jason, perché lo amavo? Se era sbagliato tradirlo, perché mi sembrava di poter spiccare il volo ogni volta che lo facevo? Se Mya non era la cosa giusta per me, perché il fato l'aveva rimessa sulla mia stessa via? E se ogni uomo ha la capacità di intendere e volere, forse continuavo a commettere degli errori perché io ne ero sprovvista? Oppure stavo sbagliando tutto con Jason e il ritorno di Mya non era altro che la prova schiacciante di un errore passato?
Mi sembrava di poter sprofondare tra tutti quei punti interrogativi.
«Ho visto le foto di Boston. E' successo qualcosa tra di voi, Ally?».
L'allusione velata dietro il suo tono di voce mi parve ovvia.
«Sì... Non so come uscirne...».
Continuò ad accarezzarmi le spalle: ebbi la sensazione di essere tornata per un attimo tra le braccia di mia madre.
«L'unica via che puoi seguire è quella del cuore», mi parve di sentirglielo sussurrare col sorriso tra le labbra.
Si allontanò di poco, il giusto necessario a passarmi i pollici sotto gli occhi. Raccolse le mie lacrime e mi tenne il viso fermo tra le mani.
«Cosa devo fare?».
«Devi fare quello che il tuo cuore desidera».
Anche Mya aveva risposto così, benché fosse la persona meno indicata per decretare. Eppure, nonostante dovessi seguire davvero i miei sentimenti, avere la consapevolezza di dover prendere una decisione senza interpellare la mia parte razionale mi spaventava a morte.
«E se si rivelasse tutto un errore?», tentai, la voce tremante.
Larissa mi sospinse nuovamente sulla sedia, mi passò una salvietta umida sul viso e m'intimò ad ascoltarla senza piangere.
Afferrò una scatolina contenente del fondotinta e lo stese lungo le guance e la fronte.
«Quando ero soltanto un'adolescente incontrai Mark, un ventenne prossimo alla gestione prematura dell'azienda di famiglia. Mi fece la corte per settimane, ma allora ero soltanto un'adolescente e non ci misi molto a perdere la testa per lui. Mia madre lo trovava arrogante, un figlio di papà che non conosceva il valore del sacrificio, mentre mio padre voleva che continuassi a frequentarlo e che m'impegnassi a far funzionare bene le cose in previsione di un matrimonio futuro. Aveva decisamente perso la testa per lui!», ridacchiò, ma il suono che ne venne fuori fu davvero triste. «Tra me e mia madre c'era questa sorta di attaccamento... La ritenevo la mia migliore amica, capisci? Sentivo di dover fare quello che diceva lei ogni volta che la sua parola andava contro la mia. Quindi lasciai Mark e mi trasferii in un'altra città, mi trovai un lavoro ed incontrai Sam».
«Il tuo ex marito?», sussurrai, sentendola armeggiare con la cipria.
Larissa aveva ventotto anni, ma lo sguardo antico che mi riservò in quel momento le conferì un'età superiore, più saggia.
«Esatto. Fui io a fare la corte a lui, sai? Sam non voleva proprio saperne di me, ma io dovevo togliermi Mark dalla testa. Ad una festa tra amici mi misi in ginocchio e gli chiesi di sposarlo... Disse di sì! Non so se per compassione o per sentimento, ma accettò. Sai come andò a finire?».
Aprii di poco gli occhi e scossi la testa. Lei mimò una "o" con le labbra e mi chiese di tenere la bocca ferma per potermi mettere il rossetto.
«Durante l'estate di due anni fa Sam decise di noleggiare una barca. Chiamò un'agenzia, fissammo appuntamento, ma quando arrivò il momento di andare a vederla e firmare le condizioni Sam si ammalò. Per non perdere l'impegno preso decise di mandare me... E indovina chi mi ritrovai davanti?».
Allontanò il rossetto dalle mie labbra, strofinò le sue e mi chiese di imitarla.
Scrutò con gli occhi lungo la specchiera ed agguantò la prima trousse che le capitò a tiro; scelse dei colori MAT tra l'avorio e il marroncino, bagnò il pennello e si avvicinò nuovamente al mio viso.
Chiusi gli occhi.
«Mark?», sussurrai appena.
«Già. Facemmo l'amore tutto il giorno...».
«Larissa!», aprii la bocca in un'espressione scioccata ma divertita, e lei mi ammonì.
«Ssh! E' andata proprio così. Lo guardai negli occhi e mi sembrò di poter azzerare tutti gli anni e gli errori che avevo commesso in passato in un battere di ciglia! Mi dimenticai di ciò che ero venuta a fare, del tempo, di Sam... Ci sedemmo all'interno della barca, gli parlai di me e lui mi confidò di non essere riuscito ad innamorarsi di nessun altra, mai più».
Chiuse la trousse, mi soffiò sulle palpebre chiuse, poi mi spazzolò le ciglia con del mascara nero.
«E poi? Com'è andata?».
«Avevo mentito a me stessa, Ally. Avevo preso la decisione di lasciare Mark solo per far felice mia madre, ma in cuor mio sapevo che quella scelta mi avrebbe ucciso. Persi la cognizione del tempo... Sam venne a cercarmi e ci beccò dentro la barca, ancora nudi. C'eravamo addormentati... Chiese il divorzio ed io mi ripresi la mia vita in mano».
Quando smise di armeggiare con gli attrezzi del make-up avvertii chiaramente il suo corpo allontanarsi, quindi riaprii gli occhi.
Le ero grata per quella testimonianza, perchè sapevo che presto o tardi ne avrei cavato fuori una morale.
«Ti ha fatto male perdere Sam?».
Storse il naso.
«Beh, un po' sì. Insomma, avevo insistito io per averlo nella mia vita, mi ero affezionata... Ma avevo scambiato i miei sentimenti per amore».
«Quindi... l'impegno fuori città che di tanto in tanto ti fa mancare da casa si chiama Mark», ridacchiai.
Afferrò lo schienale e puntò il mio corpo verso lo specchio, così da permettermi di ammirarmi. Mi sorrise ed io ricambiai il gesto al suo riflesso.
«Ho seguito il mio cuore, Ally. E anche se è difficile, anche se a volte penso che una vita con Sam sarebbe stata mille volte più semplice, anche se certi giorni sono più difficili di altri per via della lontananza... Penso che non avrei mai potuto prendere una scelta migliore per me nella mia vita. Ho ascoltato i miei sentimenti, ho messo da parte tutto il resto. Adesso lavoro, ho ripreso gli studi, e anche se lontano dalla mia città so che c'è un uomo che mi ama e che non ha mai smesso di farlo neanche quando io gli ho voltato le spalle...».
Mi baciò tra i capelli, adocchiò un paio di orecchini di cristallo e li lasciò pendere lungo i miei lobi con cura e delicatezza.
«L'unica via che puoi seguire è quella del cuore», citai nuovamente.
Lei mi lanciò un ultimo sguardo, fece qualche passo verso la porta e disse:
«E' importante che tu capisca cosa il cuore ti sta suggerendo in questo istante, tesoro. Non conosco questa ragazza e non conosco la vostra storia, ma so bene cosa si prova ad imporsi di ascoltare la ragione sbagliando ogni cosa. Mettiti al primo posto e lascia dietro di te tutto il resto. Capirai cosa vuoi davvero», decretò.
Ordinai ai miei occhi di non versare nemmeno una lacrima per non rovinare il trucco impeccabile con cui Larissa aveva gentilmente deciso di abbellirmi, quindi le lanciai un bacio a mezz'aria e la seguii con gli occhi finché non mi lasciò da sola con i miei pensieri.
Qualcosa dentro di me s'indurì; la testimonianza di Larissa mi diede l'impressione di poterne uscire vincitrice, più forte, più libera.
Dopo aver gettato un ultimo sguardo allo specchio, indossai le mie decoltè di vernice color crema e mi avviai verso la porta d'entrata.
Avrei denominato quel giorno: "the day of friendly advice".
~∞~
Jason aveva prenotato in un ristorante di lusso sito al piano terra di un albergo a cinque stelle.
Immerso nel verde di un giardino, il palazzo costruito interamente in vetro brillava sotto la luce della luna, e l'acqua delle piscine che lo attorniavano si rifletteva sulle vetrate con giochi mistici di luce. Si estendeva in altezza piuttosto che in larghezza, superava gli alberi ben curati e i cespugli di diversa forma, e lasciava poca immaginazione a chi si ritrovava a passare di lì. Somigliava al Solange, ma pretendeva di essere meno sofisticato, più all'avanguardia nonostante i milioni di confort offerti ai clienti.
Inutile descrivere il mio disagio interiore: il fatto che i soldi spesi per costruire quel tempio di ricchezza superassero di gran lunga quelli che io, nonostante fossi un'attrice, avrei guadagnato per girare il film di Kamal mi lasciava indifferente rispetto al pensiero di dover passare la serata in compagnia del futuro marito che avevo tradito e di una coppia che non era una vera coppia. E tutto questo pensiero ingarbugliato mi dava la conferma che sì, stavo davvero a pezzi.
All'entrata, un ragazzo giovane e di bell'aspetto ci accolse con un leggero inchino, sfogliò la sua lista di prenotazioni su un piedistallo di marmo nero e quando trovò il cognome di Jason ci sorrise, invitandoci a seguirlo.
Il tavolo era appartato, sull'ala est dell'edificio. Eravamo divisi dagli altri invitati da separè in legno di bambù e questo mi fece pensare che forse Jason non voleva essere disturbato, che volesse tentare di mantenere la privacy di quella cena. Ma dividerci dal resto dei clienti non era forse un modo in più per attirare l'attenzione? Chi osservava da fuori non si sarebbe chiesto il motivo di tanto segreto?
Mi feci consolare dal pensiero che quello non era il Solange, e che magari i paparazzi ci avrebbero lasciati in pace.
Mya e Costantine arrivarono una decina di minuti dopo il nostro ingresso, anche loro scortate dal cameriere all'entrata. Si presentarono ai nostri occhi smaglianti e bellissime. Se non avessi conosciuto Mya nel profondo, avrei detto che sprizzasse gioia da tutti i pori.
Costantine portava i capelli legati in alto da un grosso chignon abbellito da pietruzze dorate, gli occhi erano dipinti dello stesso colore mentre le labbra avevano un che di caramellato. Tutta la sua pelle appariva di quel colore, in realtà. Il vestito a mezze maniche le stringeva la vita e terminava in un paio di pantaloni larghi, eleganti, le cui cuciture sfioravano elegantemente le decolté marroni. La stoffa color cioccolato del vestito sembrava una cascata fondente sulla sua pelle perfetta.
Mi sentii improvvisamente un'imbranata.
Mya invece indossava un paio di mocassini neri, pantaloni eleganti stretti al polpaccio, una camicia Armani blu notte e un papillon nero. Le maniche erano sollevate all'altezza del gomito, lasciavano intravedere i tatuaggi, mentre i capelli erano stati acconciati tutti su un lato, scompigliati ma in modo sapiente. Aveva un filo di mascara nero sugli occhi chiarissimi, quasi grigi, e per quanto sapessi che tutto quello sfarzo non facesse affatto per lei mi sembrò di capire che si trovasse perfettamente a suo agio.
Oppure Costantine era stata brava nell'impartirle regole e condizioni, facendole il lavaggio del cervello.
Ad ogni modo, sembrava un angelo maledetto. Trasgressione e peccato, il suo corpo e il suo essere mi rimandavano a quei termini.
Prima di accomodarsi Costantine le sfiorò la mano, le lanciò un'occhiata che voleva essere intrisa d'amore ma che a me parve solo di sostegno, poi presero posto sotto gli occhi attenti di Jason.
Le scrutava, non voleva perdersi nemmeno un movimento: era la serata delle conferme.
«Allora... Finalmente abbiamo l'onore di una cena insieme!», esclamò lui al mio fianco.
Il mio disagio interiore si diffuse a macchia d'olio.
«Era diventato un bisogno impellente», ammiccò Mya.
Le mani presero a formicolarmi: bisogno per lei, per la necessità che aveva di tracciare il territorio, o era una presa in giro nei confronti di Jason?
Trascorsi un paio di secondi, convenni che l'una non escludeva l'altra risposta.
Negli occhi di Jason si affacciò la perplessità, poi sollevò una mano per attirare l'attenzione di un cameriere al di là dei separé e questo venne tempestivamente in nostra direzione per appuntarsi gli ordini.
«Vorrei una bottiglia di vino rosso, il migliore che avete in cantina. Qual è la specialità dello chef stasera?»
«Aragosta in salsa di vaniglia, pesce crudo alla Tahitienne e gamberi saltati con verdure», citò il ragazzo.
Sembrava un soldatino sull'attenti vestito di bianco.
Jason passò in rassegna gli occhi dei commensali: l'idea del pesce crudo non mi piacque per niente.
«Per me va benissimo», sorrise Costantine.
Jason mi strinse una mano sul tavolo e m'incitò a scegliere.
«Non c'è... qualcosa di più semplice?», sussurrai.
Con la coda dell'occhio, notai gli occhi inceneritori di Mya dritti sulle nostre dita intrecciate.
Jason sbuffò.
«Tesoro, siamo in un ristorante stellato», ridacchiò. «Non servono cotolette e patatine fritte».
Costantine si unì alla sua risata. Quell'umiliazione sottintesa bastò a farmi salire il sangue al cervello.
Strappai letteralmente via la mano dalla sua morsa e rivolsi un sorriso cordiale al cameriere.
«Può informare lo chef della presenza di una bambina un po' troppo cresciuta in sala? Sono sicura che non gli dispiacerà cucinare cotolette e patatine fritte per me».
Lo vidi tentare di trattenere una risata e appuntare quell'ordine senza aggiungere altro se non un: "certamente".
Mya aprì di fretta il menù e pronunciò ad alta voce il nome del primo piatto in lista.
«Un piatto di troccoli in crema di triglie e pistacchi, grazie».
Faticava a tenere il nervosismo sotto controllo.
«Aggiunga un altro piatto della specialità della sera, grazie», terminò il mio futuro sposo.
Gli tese i menù, il cameriere ci ringraziò e sparì dietro altri separé.
«E così, tu sei la ragazza di Mya? Che sorpresa... La notte del trailer non mi eravate sembrate così intime», insinuò Jason, puntando i riflettori su Costantine e cercando di scovare le possibili menzogne.
Ma la bionda era brava a recitare, molto più brava di me.
«Mio padre mi uccide se mi becca a confondere la vita privata con il lavoro», rispose brevemente, sorridendo. Jason annuì ed accampò una risata falsa.
Sembrava una cena di cortesia, e invece era una vera e propria inquisizione.
«Giusto! Gestivi l'affitto della villa per quella notte, dico bene?».
«Esatto. Mya sa bene di non poter pretendere attenzioni da parte mia se sto lavorando».
Intravidi Costantine posarle una mano sulla coscia e Mya sorriderle sfrontata, arrogante.
«Ed è in quei momenti che cerco le mie nuove fiamme. Odio stare da sola», fece spallucce e Costantine le assestò un pugno debole sulla spalla, scatenando il divertimento di Jason.
Lo stavano convincendo?
«Che stronza che sei!», l'accusò la bionda.
«Ma raccontatemi un po' di voi!», riprese senza dar tregua Jason.
«Cosa vuoi sapere?», lo interrogò Costantine, posando le mani a coppa sotto il mento. «Mi piace parlare della nostra storia d'amore ai curiosi», sorrise.
«A dirla tutta, la tua donna è un'attrice migliore della mia!».
Mya contrasse la mascella.
«Ovvero?», s'intromise.
Jason continuò a parlare con Costantine.
«Quando l'ho conosciuta per la prima volta pensavo stesse con quella ragazzina coi capelli a caschetto, la mora... ricordi, tesoro?», si voltò improvvisamente verso di me.
Deglutii qualcosa d'indefinito e provai ad accampare una scusa che non somigliasse ad una bugia.
«Davvero hai avuto quell'impressione?», ridacchiai isterica. «Ma no! Quella è soltanto sua sorella!», Costantine mi seguì a ruota come se ciò che avevo appena detto fosse una battuta esilarante, una barzelletta così divertente da non poter fare a meno di ridere.
Sentivo gli occhi inceneritori di Jason perforarmi la tempia destra, Mya ci guardava sorridendo in modo tirato, invece.
«Beh, devo aver frainteso certe effusioni...».
«Una sorella non può parlarti all'orecchio o farti una carezza? Non era il suo ambiente, quello lì. Mi stava incollata perché ero l'unica persona che conoscesse», chiarì.
Jason sembrò soddisfatto dalla sua reazione infastidita e sorrise sornione, facendo spallucce.
Il cameriere arrivò con le due specialità della sera e chiese gentilmente a chi andassero servite; si sporse verso Jason, poi verso Costantine, infine servì ad entrambi il contenuto della terrina in porcellana ed andò via.
«Scusami tanto, allora. Ho sommato il fatto che Costantine non ti avesse presentato come la sua ragazza alle attenzioni di tua sorella, e sono arrivato ad una conclusione sbagliata».
Mya stava per ribattere, ma Costantine la precedette.
«In realtà è stato un bene che Mya abbia interrotto le mie presentazioni e che se ne sia andata via. In quella villa anche le pareti hanno occhi e orecchie! Per qualche dollaro in più, chiunque sarebbe disposto a fare la spia con mio padre e a mettermi nei casini».
La bionda afferrò le posate e scavò tra i gamberi, osservando attentamente il ricco condimento colorato che attorniava la portata principale.
«Questa roba dev'essere squisita!».
Sospirai: mi sentivo grata per il fatto che almeno provasse a direzionare il focus della conversazione altrove, ma purtroppo in cuor mio sapevo bene che spegnere le loro anime in guerra non sarebbe stato affatto facile.
Nel frattempo, anche gli altri piatti arrivarono. Il cameriere mi sorrise rivolgendomi uno sguardo complice e, come da esplicita richiesta, il mio piatto con cotoletta e patatine fu servito al tavolo.
Giusto per fare un dispetto a Jason.
Costantine augurò buon appetito seguita dal coro degli altri commensali, e tutti e quattro cominciammo presto a mangiare. Jason mi fece assaggiare il suo piatto, ma, come immaginavo, per poco non sputai il boccone masticato di nuovo al suo posto: odiavo il pesce crudo.
Costantine sembrava avere un orgasmo, invece.
«Sognerò questo piatto ogni notte finché non tornerò qui a mangiarlo, me lo sento», esclamò.
Dopo qualche istante, Mya fece spallucce e lentamente il silenzio piombò su di noi.
Cosa dovevamo dirci? Non eravamo amici, nessuno di noi conosceva abbastanza l'altro da poter fare una conversazione amichevole, e quella non era nemmeno una cena di lavoro a cui poter partecipare per parlare d'affari. Era solo uno stupido capriccio nato dalla mia paura di dire la verità. Le uniche capaci di guardarsi dentro, di scavarsi a fondo e capirsi eravamo io e Mya, ma in quel momento eravamo anche le uniche due che facevano meglio a tacere se non era strettamente necessario rispondere o intraprendere una conversazione.
Mi sentivo una stupida: sarebbe bastato così poco, aprire bocca e lasciare che tutta la verità ne venisse fuori, invece non facevo altro che ammassare bugie su bugie come montagne di vestiti vecchi che solo il fuoco poteva ridurre in cenere.
Jason provò a rivolgermi uno sguardo d'incoraggiamento, si schiarì la gola, infine tentò un nuovo argomento di conversazione:
«So che forse non è il contesto più adatto, ma volevo ringraziarti sentitamente per aver tenuto compagnia alla mia Ally nei giorni successivi al funerale di suo padre... Essere un attore è fantastico, ma diventa un peso quando qualcuno ha bisogno di te e sei incastrato a lavoro senza alcuna possibilità di sgattaiolare via. E' fortunata ad averti come amica», snocciolò il mio uomo in direzione di Mya.
Lei fece scoccare la lingua, scrutò attentamente dentro i suoi occhi senza proferire parola e mentre il silenzio continuava a ronzarmi dentro le orecchie, il cameriere venne a stappare la bottiglia di vino più costosa dell'intera cantina, come da richiesta, e prese a versarne due dita dentro ognuno dei calici.
Dopo mezzo inchino, si dileguò.
«E' così per qualsiasi tipo di lavoro, anche il più umile, Jason. Volevo esserci e ci sono stata».
Quella risposta mi scavò un buco nello stomaco: equivaleva a dirgli di essere stata migliore di lui.
Jason aprì bocca per parlare ma la richiuse subito dopo, infine annuì.
«Come ho detto, è fortunata ad averti come amica».
«Già», confermò lei con mezzo sorriso arrogante.
Costantine aveva le spalle tese, ma si ostinava a voler mantenere un espressione rilassata. Il suo timore, nonostante non fosse direttamente visibile, era comunque palpabile. Chissà con quante minacce di morte nei confronti di Jason le aveva riempito la testa Mya!
Lei continuò ad affondare la forchetta nel suo piatto, infilzando più troccoli alla volta. Era nervosa, dava l'idea di voler mangiare in fretta e scappare via da lì.
Non perché fosse codarda, ma perché sapeva che ne sarebbe uscita ferita.
E io non volevo e non potevo ferirla ancora...
«Il fatto che i giornali vi scambino per una coppia è snervante però, non vi pare?», esordì Jason al mio fianco.
Tutte e tre sollevammo lo sguardo su di lui, facendo tentennare le posate sul piatto. Lo guardammo atterrite, come se udire quell'interrogativo non potesse essere possibile, e invece lo era eccome.
Jason era un uomo caloroso, testardo, caparbio, aveva bontà d'animo da vendere, ma non era stupido. Nonostante continuassimo ad imbrogliarlo nella speranza che abboccasse, lui perseverava nel tentativo di scoprire le nostre carte.
Costantine si tamponò le labbra con un fazzoletto di stoffa, sfilandolo da sotto il piatto di porcellana e vagò con gli occhi lungo il tavolo alla ricerca delle parole adatte.
«I giornali fanno tante di quelle supposizioni, insomma... Dare scandalo è il loro mestiere. Immagina se parlassero sempre e comunque di cose che si sanno già, chi comprerebbe le riviste? I paparazzi e i redattori lavorano grazie alla curiosità della gente, alle supposizioni poco carine... Io non ci do troppo peso. So che Mya mi è fedele».
Inclinò il capo verso di lei e le accarezzò un braccio. Mya, dal canto suo, allungò una mano e gliela portò su un lato del viso, si avvicinò di slancio e le posò un bacio appena accennato sulle labbra, spiazzandomi e spiazzandoci tutti.
La pelle di Costantine si accapponò, si irrigidì appena ma non si allontanò per non far saltare la copertura, e rimase ben ferma nell'attesa che quell'attimo terminasse così come era cominciato.
Jason le fissò intensamente: nei suoi occhi passò la curiosità, l'incredulità, infine la malizia.
Nei miei, la rabbia, la delusione e infine il disgusto.
Costantine sollevò una mano e la posò su quella che Mya le aveva delicatamente adagiato sulla guancia, infine le sorrise.
Mya strinse le labbra e provò a ricambiare quell'espressione che tutto trasudava tranne amore vero.
«Certo che lo sono», concluse Mya e per un attimo i capelli mi si rizzarono su per la nuca.
Immagini atratte ricche di probabilità mi offuscarono la mente, trascinandomi via da quel tavolo di un paio di chilometri, come risucchiata da un buco nero: era come vederla da lontano, seduta sugli spalti della vita, mentre si gode la sua con un'altra donna. Le mani intrecciate a qualche bionda slavata, attenzioni non più mie, premure perdute...
Certo che lo sono...
Certo che lo sono...
Come facevo ad ignorare la sensazione che mi dilaniava lo stomaco ogni volta che pensavo a lei con un'altra o semplicemente di nuovo lontana dalla mia vita? E soprattutto, non l'avevo voluto io tutto questo? Perché stavo cercando di ottenere di nuovo qualcosa che avevo volutamente scartato in passato?
«Beh, seguirò questa perla di saggezza, allora», suggerì Jason, strappandomi alle mie allucinazioni.
Il suo tono di voce mutò, sembrava molto più convinto di quello che aveva utilizzato fino a quel momento.
Profondamente scossa, continuai la mia cena registrando con estrema minuzia tutti i dettagli del mio piatto.
Costantine cominciò a blaterare qualcosa a proposito della prossima pellicola a cui Jason stava lavorando ed io mi finsi semplicemente interessata, accampando espressioni incuriosite o sorridendo ad entrambi in modo falso e tirato.
Finché qualcosa non mi sfiorò il polpaccio.
Attraverso la stoffa fine dei collant, capii immediatamente che si trattava della gamba di Mya.
Con molta calma le rivolsi uno sguardo imperscrutabile e lei scavò nei miei occhi, nella pelle del mio viso, squadrandomi spudoratamente nella vana speranza di trovare risposte ai suoi timori.
Ero infastidita? Arrabbiata? Delusa?
Certo!
E lo ero ancor di più perché mi permettevo di esserlo nonostante portassi un anello di fidanzamento al dito e sapessi di aver appena assistito al bacio più falso del pianeta terra! E questo non faceva che incrementare ancor di più quella rabbia prossima all'esplosione, perché sapevo che solo così avremmo potuto allontanare i dubbi di Jason anche solo di qualche centimetro più in là e nonostante ciò mi arrogavo il diritto di puntare i piedi!
«Volete ordinare qualcos'altro? Un dolce?».
«Mi viene da vomitare...», mormorai.
Jason mi piantò gli occhi addosso.
«Vuoi che ti accompagni al bagno?», si premurò.
«No, tranquillo...».
«Ti accompagno io. Se vomiti addosso a me non è un problema, se vomiti addosso a Costantine invece...», alluse Mya.
Jason contrasse la mascella e ridusse gli occhi a due fessure; il suo sguardo vagò da me a Mya e da Mya a Costantine, ma alla fine soffiò fuori tutta l'aria trattenuta e mi fece cenno di andare.
Mi misi in piedi e non aspettai affatto che mi sorreggesse, anzi affrettai il passo più velocemente possibile. Perché si era offerta di seguirmi? Non poteva lasciare che prendessi un boccone d'aria pulita prima di intossicarmi ancora con altre bugie?
Diedi un colpo secco alla porta del bagno che si aprì con un tonfo sordo, poi infilai le mani dentro il lavandino e lasciai che il sensore elettronico le rilevasse e ci scaricasse sopra un po' d'acqua fresca.
Mi tamponai il collo con le mani bagnate, godendomi quel contatto rilassante, e proprio in quel momento Mya fece il suo ingresso trionfale.
«Era necessario», esordì.
Le lanciai uno sguardo di fuoco.
«Cosa?».
«Lo sai che era necessario baciarla. Jason è ad un passo così dallo scoprire tutto», strinse due dita a poco più di un centimetro ed avanzò un passo verso di me.
Mi asciugai le mani con il getto dell'aria calda di uno strumento a parete e non proferii parola. Troppe cose mi frullavano per la testa: avevo paura che la copertura saltasse, ma metà di me lo desiderava così ardentemente da destabilizzarmi; avevo permesso a Jason di entrare nel mio cuore e adesso tutto ciò che volevo era cacciarlo via; la verità mi terrorizzava, ma anche le bugie cominciavano a mettermi paura e non sapevo più cosa fare.
«Ho capito. Era necessario», ripetei come un'automa.
Mya colmò la distanza tra di noi e mi posò una mano su una spalla. Quel contatto sciolse immediatamente tutti i nodi della mia anima.
Chiusi gli occhi e mi imposi di mantenere la calma.
«Ti senti male?», sussurrò.
«No, voglio solo andarmene a casa».
«Cristo, Ally! E' stato il tuo uomo a volere questa cena e tu l'hai assecondato! Abbi le palle di finire ciò che hai cominciato!».
«Come quello che ho cominciato con te?!», sbraitai.
«Tu hai deciso di mentire! Tu hai deciso di accampare tutta questa sceneggiata per difenderti... da cosa?! Non so nemmeno io da cosa scappi! Fai l'amore con me, te ne penti e poi torni a cercarmi! Mi imbottisci la testa di parole, mi fai credere tante belle cose, hai il potere di farmi stare bene l'attimo prima e di scaraventarmi nell'abisso l'attimo dopo! Sono stanca di restarci fottuta, okay?», urlò.
Accanto a noi, una delle porte del bagno si aprì con un leggero cigolio per poi battere nuovamente sui suoi cardini. Una donna anziana, sulla sessantina, posò le mani su uno dei lavandini che dividevano i nostri corpi e si sciacquò le mani, lanciandoci degli sguardi spaventati, poi si defilò.
Mi strinsi le braccia al petto, infreddolita. Le lacrime minacciavano di pungermi gli occhi e il buco che poco prima mi si era aperto al centro del petto adesso era diventato una voragine.
«Io non voglio fotterti, Mya... Non voglio più ferirti...», ammisi con voce tremolante.
Fece l'ultimo passo che la divideva da me e posò lentamente la sua fronte sulla mia, chiudendo gli occhi.
Li chiusi anch'io in quel disperato gesto di ricongiunzione, come se una porzione di pelle così piccola stando a contatto potesse trascinarci dentro una bolla privata di cui solo noi due avevamo le chiavi.
Respirai a fondo il suo odore che sapeva di buono, di colazione pronta alle sette e trenta del mattino, di latte e biscotti, di famiglia, di conforto, di passione, amore e dolcezza... e la mia mente formulò una sola domanda: mi sentivo così quando era Jason a toccarmi, a starmi vicino?
Il suo respiro si condensò sulla pelle delle mie guance, sulle ciglia già umide, e quando ebbi il coraggio di aprire gli occhi tutti i dettagli del suo viso mi si presentarono davanti. Nitidi e perfetti, in un'immagine che non avevo il potere di scacciare, non riuscì ad allontanarla come facevo ogni giorno coi nostri ricordi più cari.
Le posai le mani ai lati del viso e avvicinai le labbra sulle efelidi che le costellavano il naso, baciandole ripetutamente come se volessi dedicare quelle attenzioni ad ognuna di loro. Spostai la bocca sulle guance, sugli zigomi, sulla fronte, ma quando arrivai alle sue labbra avvertii chiaramente la sua volontà di scostarsi.
Cercai il suo sguardo, perplessa.
«Quel bacio non significava niente. Tu, per me, significhi ancora tutto», soffiò piano.
Il cuore mi pompò nel petto alla velocità della luce.
«Io...».
«Io non posso sopportare di vederti tra le braccia di un altra persona. Di sapere che ti dorme vicino, che ti accarezza, che ti tocca...» , sulle sue labbra si dipinse una smorfia di disgusto.«Non posso sopportare di vederlo respirare il tuo odore, cercare le tue mani, sapere che quando la notte viene a cercarti tu...».
Strinse le labbra e gli occhi in un'autentica smorfia di dolore; potevo sentirlo farsi mio, entrarmi nel petto e annientarmi l'anima come il più potente dei veleni.
«Mya...».
«Non sai quanto mi è costato fingere di essere la ragazza di Costantine, stasera... E l'ho fatto solo per te, per non farti soffrire, per rispettare i tuoi tempi... Non ho mai baciato nessun altro che non sia tu prima di questa sera, Ally. Ho infranto la promessa più importante della mia vita per aiutarti, ma non posso, non posso... Credevo di farcela, di poter resistere, ma così non va...».
Ogni volta che io e Mya ci ritrovavamo faccia a faccia, qualche confessione che mi spiazzava veniva sempre fuori dalle sue labbra. Possibile che in tutti quegli anni non avesse avuto nessun altra? Nemmeno per una notte di sesso? Era una donna bellissima, attraente ed enigmatica... Non aveva ceduto a nessuna avances? Mi stava mentendo per farmi sentire in colpa e porsi sotto una luce migliore?
«Non ti ho mai obbligata a non andare avanti...».
«Difatti sono la prima che si definisce una stupida. Ma ho fatto una scelta, ti sono rimasta fedele col cuore e con l'anima. E non importa cosa abbia fatto tu, perché nemmeno io ti ho mai tenuta legata a me... Ma tra di noi c'è di nuovo qualcosa e non puoi fingere che non sia così».
Mi guardò a lungo, studiando le ciocche di capelli ribelli sfuggite alla crocchia ordinata, le mie labbra, i miei occhi umidi...
Prese un profondo respiro e si avvicinò con impeto, baciandomi con urgenza, bisogno, facendo cozzare le mie spalle contro i riscaldamenti spenti alle mie spalle. Emisi un gemito debole, mentre la sua lingua tracciava contorni indefiniti lungo il mio labbro inferiore, cercava la mia, la lambiva con lentezza esagerata. Le infilai le mani tra i capelli e lei mi morse il labbro, lasciandosi andare ad un mugugno sommesso.
Ma prima di potermi sentire per un attimo nuovamente libera di essere chi e cosa ero davvero, Mya posò le mani sulle mie spalle e cercò di riprendere contegno tenendomi a bada.
«Ti voglio solo per me, Ally».
Annuii con veemenza, apparentemente convinta.
Apparentemente.
Lei scosse il capo, conscia del fatto che non avessi capito ciò che intendesse.
«Devi fare una scelta. O me o Jason», concluse.
Mi si fermò il respiro sulla conclusione più ovvia di tutte, sull'apoteosi delle conclusioni scontate.
Cosa mi aspettavo? Ci saremmo arrivati prima o poi. Non avrei potuto tenere tutta la vita un piede in due scarpe.
Trafitti dal dolore e dalla paura malcelata, gli occhi di Mya sostarono per alcuni attimi nei miei. Mi persi in quel colore adesso blu, reso scuro dall'eccitazione, una pozzanghera di fermezza che non ammetteva repliche.
Fece qualche passo indietro e mi lasciò respirare, infilandosi le mani nelle tasche anteriori dei jeans e raggiungendo nuovamente i ragazzi al tavolo.
Il mio riflesso allo specchio non sembrava rispecchiarmi, nulla di ciò che ero diventata eguagliava la vera me stessa.
Chi riesce a farti spiccare il volo, Ally?
Chi sarà la tua scelta?
"Mi stai chiedendo una guerra, Nana, e sarà guerra ciò che avrai".
E guerra avrei avuto.
La voce di Dam:
Che dire? Ho letto e riletto, corretto e cancellato, e alla fine... TADDDAAAAAN! Questo è il risultato. Nella speranza che l'attesa non abbia deluso le vostre aspettative finali, vi consegno in regalo questo capitolo. Sapevamo tutti che saremmo arrivati a questo, ora la domanda è... cosa succederà? Come sempre, grazie A TUTTI E A TUTTE per il supporto, il sostegno, perché vi preoccupate per me anche quando si tratta della mia vita privata. Siete i numeri uno! E non importa da dove venite o cosa fate nella vita: io vi sento tutti vicino a me <3
Un bacione, ci aggiorniamo in e al prossimo capitolo! :D
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