Capitolo VIII: Remorse
Il 29 Settembre di quello stesso anno, una donna disperata e in lacrime decise che era venuto il momento di sollevare la cornetta e comporre il mio numero di telefono. Chiamò per darmi una notizia che non ero pronta a sentire, la sua voce mi risultò estranea, spenta, rassegnata, come se si trattasse di un robot, e solo quando mi mise al corrente di ciò che era successo capii il perché.
Mio padre era morto, e nessuno poteva farci niente.
In meno di cinque minuti di conversazione telefonica venni a sapere che l'anno successivo alla mia partenza gli era stato diagnosticato un tumore allo stomaco insieme ad una particolare patologia, entrambe ad uno stadio avanzato, e che mia madre aveva cercato di prendersi cura di lui in tutti i modi possibili, portandolo in giro per gli stati alla ricerca di una cura che andasse al di là della "semplice" chemioterapia, senza però ottenere il risultato sperato.
Si era spento nel sonno, imbottito di medicinali per evitargli il dolore, in perfetto coma farmacologico.
La morte non accetta posticipazioni e nei casi in cui decide di farlo si riprende ciò che ti ha concesso servendoti un conto più salato.
Perciò, riattaccando la cornetta quel giorno, mi chiesi se mio padre avesse sofferto più del necessario, visti gli anni di vita con cui la morte aveva voluto graziarlo...
Rimanere in città e continuare a lavorare fu subito fuori discussione: nonostante ciò che mia madre ed io avevamo dovuto affrontare a causa della mia storia con Mya, e nonostante non ci fossimo salutate nel migliore dei modi l'ultima volta che c'eravamo rivolte la parola, in quel momento l'unica cosa che il mio cuore desiderava fare era tornare a casa ed abbracciarla forte.
Non si trattava solo di mio padre, anzi... Forse la sua morte, per quanto potesse suonare orribile a dirsi, poteva essere la molla che, scattando, ci avrebbe spinto di nuovo sullo stesso cammino. Da tanto tempo meditavo di farle visita, di parlarle, di raccontarle di me, di chiederle un riavvicinamento, ma la paura mi aveva sempre fermato. Come potevo fermarmi adesso che la colonna portante della sua vita era crollata, però?
Potevo immaginarla, coi suoi capelli rossi e sfatti seduta sul divano del salotto, a gambe giunte e sguardo perso... Si era fatta donna grazie alle attenzioni di mio padre, la sua forza era sempre stata lui, e conoscendola non sapevo proprio cosa avrebbe fatto da domani in poi.
Chiesi a Kamal di darmi tregua per una settimana, di sospendere le riprese che riguardavano Kathryn in prima persona e di registrare tutto il resto, così da concentrarsi su di me solo al mio ritorno quando, almeno speravo, mi sarei ripresa da quella batosta.
Non mi permisi di piangere, indossai l'ennesimo scudo protettivo, me l'ancorai bene al viso e al petto e mi fiondai in mezzo a quella faccenda come se niente avrebbe potuto scalfirmi, come se avessi trovato il metodo giusto per farmi scivolare il dolore degli altri addosso, come se fossi un'ancora in mezzo al mare a cui chiunque avrebbe potuto aggrapparsi senza affondare...
In realtà ero tutt'altro che questo e mi avrebbe fatto comodo per una volta poter essere io l'annegato e qualcun altro l'ancora, ma capii di non poterlo fare molto prima di quanto immaginassi.
A Jason non avevo mai parlato particolarmente nel dettaglio dei miei genitori. Si era sempre chiesto perché avessi cercato fortuna altrove anziché tentare di sfondare nella mia città restando al fianco dei miei, perché non parlassi mai di loro e perché soprattutto non telefonassi mai a mia madre, perché non li avessi mai invitati a cena per farglielo conoscere e perché sul mio passato con loro continuassi ad essere molto evasiva... Ma rispondere a tutte le sue domande era fuori discussione, e come qualsiasi altro interrogativo su ciò che avevo passato da ragazza anche questi non trovarono risposta.
Il giorno dopo quella telefonata, però, dovetti parlargli di loro e raccontargli del perché avessi acquistato un biglietto andata e ritorno per Boston. Scandagliai in lungo e in largo qualsiasi altra opzione, ma il solo pensiero di dover dire altre bugie mi rivoltava lo stomaco più di dirle, quindi a malincuore gli passai un pizzico del mio dolore e lasciai che lo cullasse tra le braccia per un po'.
«Ti faccio compagnia», sussurrò toccandomi la mano destra. Le sedie da cucina mi sembravano improvvisamente scomode, l'aria troppo rarefatta. Non volevo compagnia, non avrei sopportato una mano stretta alla mia accanto alla bara di mio padre. Men che meno quella di Jason.
Era l'uomo della mia vita, avrei dovuto desiderare il suo conforto più di qualsiasi altro tipo di vicinanza, ma il mio cuore non voleva coinvolgerlo. Non perché non lo ritenessi sufficientemente forte a sostenermi nel momento in cui sarei crollata – perché sì, sapevo già che sarebbe successo – , ma perché vederlo muoversi nel mio vecchio spazio adolescenziale, osservarlo mentre calpesta lo stesso pavimento su cui mi era toccato piangere e scalciare, senza mai ottenere niente se non altre privazioni, accostare i suoi movimenti agli stessi che Mya aveva compiuto entrando per la prima volta in quella casa... Insomma, tutto questo sarebbe stato come prendere una parte della mia vita ed eliminarla, sostituirla con una figura nuova, combinare vecchi ricordi a nuove esperienze così da annullarli.
Io non volevo cancellare il mio passato, volevo solo tenerlo per me.
Non volevo includere nessuno in ciò che avevo dovuto passare per stare con Mya, per liberarmi da tutte quelle catene con cui i miei genitori – sicuramente a causa della troppa apprensione – avevano voluto tenermi al sicuro; quello era un segmento importante della mia vita, mi aveva aiutata a crescere, a maturare, a diventare la donna che ero, e la casa dei miei genitori altro non era se non l'emblema della storia d'amore che più mi aveva sconvolta, cambiata, devastata e resa felice allo stesso tempo. Nessuno, tranne me e Mya, era il "benvenuto" tra quelle quattro mura. Non c'era niente di personale in tutto ciò, non riguardava soltanto Jason ma qualsiasi altra persona del mio presente.
Gli sfiorai le dita e provai a sorridergli.
«Vorrei andare da sola, in realtà».
Strabuzzò gli occhi.
«Non ti lascio da sola!».
«Tesoro, ascolta...», cercai di essere quanto più calma e convincente possibile, anche se in quel momento avrei tanto voluto starmene rintanata sotto le coperte in silenzio, «... mia madre è distrutta. Ha bisogno soltanto di me in questo momento. Con molta probabilità vorrà cacciare via tutti i parenti che verranno a trovarla, non si lascerà parlare, sarà sgarbata e spesso assente... Non voglio che tu la conosca in questo modo perché è tutt'altro che questo».
«E' normale che sia così, hai mai visto una vedova sorridente e ben disposta ad accettare le condoglianze ad un funerale?», fece sarcastico.
Aggrottai le sopracciglia e tirai via con delicatezza la mia mano dalla sua presa.
Allargò le braccia esasperato, roteando gli occhi al cielo, poi le incrociò al petto.
«Perché ho l'impressione che tu mi stia tagliando fuori da tutto questo?».
«Perché non c'entri niente!», sbottai.
Spalancò gli occhi.
«Ah, non c'entro niente! Sono il tuo fidanzato, siamo prossimi al matrimonio e non c'entro niente! Forse se mi avessi presentato ai tuoi genitori tempo fa adesso affronteremmo tutto questo insieme, piuttosto che andare da sola come se io non esistessi!».
«Non cominciare, Jason. Non è questo il momento».
Una risatina nervosa gli scappò dalle labbra, mentre un piede cominciava già a battere sul pavimento.
«Oh, scusa. Sto per caso sconfinando nei segreti di cui non puoi parlarmi?».
Gli lanciai uno sguardo fulminante, carico di disprezzo.
I suoi occhi cambiarono espressione in fretta, la stessa fretta con cui mi apprestai a cercare il cappotto per andare via da quella stanza e da quell'appartamento.
«Ehi... Ally, aspetta, io... Scusami, non volevo dire quelle cose».
«Non importa. Ho da fare adesso».
«Non puoi fermarti a parlarne per un secondo?», mi pregò.
Afferrai l'ombrello accanto alla porta d'ingresso, mi avvolsi la sciarpa attorno al collo ed aprì la porta di casa.
«L'ho fatto ed è stata una pessima idea, ecco perché me ne sto andando».
Mi voltai, ma con uno scatto rapido mi afferrò nuovamente per il polso, costringendomi a voltarmi.
«Permettimi di venire con te».
Sfilai nuovamente la mano dalla sua presa e mi mostrai decisa.
«Devo andare da sola. Sono sicura che saprai starmi accanto quando tornerò... Ne avrò bisogno».
Pigiai sul primo tasto dell'ascensore e non appena le porte si aprirono mi c'infilai dentro, sperando di non sentire più un'altra replica ed evitando accuratamente il suo sguardo.
Odiavo tenere Jason all'oscuro di tutto, ma provare a parlargli di me mi bloccava la gola e qualsiasi buona volontà veniva spazzata via.
Nel pomeriggio Kamal m'inviò un messaggio di conferma: potevo partire per Boston, avevo quattro giorni di permesso. Mi stava bene, sarei potuta tornare a casa durante tutti fine settimana successivi, oltretutto.
Larissa e Colin mi aiutarono a preparare la valigia, due pigiami e sei cambi, un po' di intimo e un regalo per mia madre. Un regalo simbolico, di riconciliazione, un braccialetto di perle rosa.
Durante la preparazione della valigia i miei coinquilini ebbero il buon senso di non parlare di mio padre e di non domandarmi come mi sentissi a riguardo, anche perché non avrei saputo cosa rispondere...
Era impossibile per me pensare che fosse successo davvero; non riuscivo a credere che mentre io me ne stavo a studiare recitazione e a realizzare i miei sogni, dall'altra parte del paese mio padre stesse soffrendo come un cane.
Larissa era una buona amica, e come qualsiasi amica che si rispetti anche lei riuscì a capire ciò che provavo dai miei silenzi, senza aver bisogno di alcuna spiegazione.
Mi prese il viso tra le mani e guardandomi profondamente negli occhi disse semplicemente: "non addossarti alcuna colpa".
Provai a seguire il consiglio e mi preparai per affrontare il funerale del giorno dopo, oltre che l'impatto col dolore di mia madre.
Mi chiedevo cosa avrei provato, come mi sarei comportata, se sarei riuscita a restare tutta intera...
Una parte della risposta la ricevetti all'alba del giorno dopo, quando un macigno dalle dimensioni cosmiche mi diede il buongiorno posandosi all'altezza del mio petto.
Il treno partì alle sette e mezza e arrivò a destinazione tre ore e mezza dopo.
Nessuno venne a prendermi alla stazione. Ad accogliermi, solo lo stesso bigliettaio di sempre e i fogli con gli orari invernali.
Temporeggiai verso la strada di casa: evitai di prendere il bus o il taxi e mi godetti le vetrine dei nuovi negozi, mi concentrai sulle nuove gestioni cercando di ricordare i vecchi proprietari e le precedenti boutique, notai con piacere dettagli immutati, strade ancora pulite, case ancora in vendita e appartamenti di nuovo pieni...
Lungo il tragitto continuai a fissare il quadrante dell'orologio, ripetendomi a ritroso il tempo rimastomi prima del doveroso impegno.
Ancora mezzora, okay...
Venti minuti, prendo un caffè...
Un quarto d'ora... Potrei assicurarmi che i miei vicini di casa abitino ancora dove li ho lasciati mentre percorro la via...
Cinque minuti...
Cinque...
Mi sentivo l'essere più codardo all'universo, nascosta dietro il grande albero del giardino, a guardare tutta quella gente che andava e veniva con grossi mazzi di fiori e crostate di mele.
Che aspettavo ad entrare?
Mio padre era davvero lì dentro?
Mia madre era davvero accanto alla sua bara?
Non riuscivo a crederci: così vicina eppure talmente paralizzata da essere lontanissima.
Tua madre ha bisogno di te.
Mia madre aveva bisogno di me. E io, anche se mai l'avrei ammesso ad alta voce, avrei sicuramente avuto bisogno di lei una volta dentro.
Feci un respiro profondo, provai a calmare qualsiasi paura e, spiegazzandomi le pieghe della gonna, provai a muovere qualche passo in direzione della porta d'entrata.
Alcuni nuovi arrivati alle mie spalle intercettarono la mia figura e bisbigliarono, mimando qualcosa a gesti con chi era già dentro casa o sull'uscio della porta.
Riuscii a captare: "figlia", "abbandonata", "povera madre" e "stupida viziata".
Non che m'importasse più di tanto di tutta quella gente mai vista prima di quel momento, ma quei termini con cui sicuramente stavano appellando me e mia madre mi lasciarono un tantino perplessa.
Come faceva gente sconosciuta a sapere di noi? E perché, proprio in virtù di tale ignoranza, si permettevano di parlare di abbandoni?
Stringendomi nelle spalle, superai il portone e una volta dentro tutti gli occhi mi fissarono.
Il brusio terminò, l'acqua che squassava nei bicchieri degli invitati ad ogni movimento perse il suo volume, il rumore di tacchi lungo il parquet del salotto si ridusse notevolmente fino a sparire; qualcuno si schiarì la voce in quel silenzio di tomba e gli invitati si aprirono pian piano, forse incosciamente, come i petali di un fiore che svelano la propria corolla.
E la corolla era mia madre, seduta, quasi rannicchiata, su una sedia vecchia al centro della cucina.
Qualcuno le aveva messo una tazza di latte caldo e dei biscotti accanto, ma non sembrava ne avesse toccato alcuno e il latte pareva aver smesso di fumare da tempo.
Il suo sguardo frugava la stanza lentamente, non riusciva a concentrarsi su niente e si distraeva con estrema facilità. Mi ricordò i volti dei drogati, gli occhi di quelli che vivono solo nei "trip", che dopo una dose ne cercano un'altra per restare ancora un po' fuori dal mondo reale.
Eppure aveva latte e biscotti vicino, non eroina.
Accennai un passo verso di lei, i presunti parenti continuarono ad aprirsi tutti intorno a noi come in un film, ma mia madre non mi degnò di uno sguardo.
Quando le fui a un palmo dal naso, vista l'assenza di risposte, le posai una mano sul viso e provai ad incontrare i suoi occhi.
La ricerca frenetica di un punto da osservare scemò improvvisamente, si voltò con estrena lentezza verso di me e le sue pupille furono dentro le mie.
Sembrò guardarsi ad uno specchio dopo non averlo fatto per anni: lei guardava la vecchia se stessa ed io sentivo di star guardando la me dei giorni futuri, stessi occhi e stessa espressione assente.
La sua pelle era così tesa e trasparente da sembrare un fantasma, un fantasma solitario a cui non era rimasto nessuno. Un brivido di paura mi pervase la schiena.
«Mamma...».
«Ally?».
«Sì, sono qui...».
«Non è possibile», le si ruppe la voce, un fiume di lacrime le invase gli occhi.
I miei cominciarono insistentemente a pungere.
«Sono io, davvero», la rincuorai, posandole anche l'altra mano sul viso in modo da tenerla ben salda.
Sollevò le sue e le pose sulle mie, carezzandomi il dorso delle mani.
Sentire la ruvidezza dei polpastrelli, i palmi segnati dai calli, la pelle tiepida e dura mi riportò alla mente ricordi e sensazioni, anche negative, che mi costrinsero ad ingoiare il nodo che mi si era formato in gola.
Chiudendo gli occhi potevo vedere tutti i sacrifici che quelle mani avevano dovuto affrontare, le batoste, le gioie, la rabbia, e gli inconvenienti che avevano dovuto risolvere... L'avevo odiata, per mesi era stata la mia acerrima nemica, e in quel momento tutti i torti subiti e le violenze incassate mi sembrarono perdere di significato, diventare inutili.
Di fronte a tanto strazio, il mio cuore stava scendendo un gradino, si stava ponendo in secondo piano.
«Non ti lascio da sola», le sussurrai.
Mi strinse in un abbraccio impulsivo, scoppiando in un pianto straziante sull'incavo del mio collo.
Sette anni erano passati dall'ultima volta che la sua pelle aveva incontrato la mia, e di certo il nostro ultimo contatto non si era consumato in un abbraccio... Eppure, contro ogni pronostico, il nostro riavvicinamento stava prendendo vita in seguito alla morte di una persona che entrambe amavamo.
Riflettendo, se prima avevo pensato per un solo istante che farsi unire dal dolore sarebbe stata una buona occasione per riconciliarsi, in quel momento trovai molto deprimente il fatto che dopo tutto quel tempo l'unica cosa capace di smuovere i nostri cuori fosse la morte di qualcuno...
Molto probabilmente se mio padre fosse stato ancora vivo, io e lei avremmo continuato a vivere le nostre vite in serenità, ignorando l'una l'esistenza dell'altra.
Mia madre provò a mettersi in piedi, una mano restava ancorata alla mia come fossi il famoso salvagente in mezzo al mare: si fece strada tra le persone che parlottavano intorno alla bara – alle orecchie mi arrivaronopreghiere e imprecazioni – e quando fummo di fronte al feretro il mio corpo si congelò come se fossi appena precipitata nelle acque gelate dell'oceano d'inverno.
La pelle era grigiastra, immobile, sembrava di pietra. Le ciglia di plastica erano perfettamente incastrate le une con le altre, mentre una lacrima cristallizzata era ferma all'angolo di un occhio. Smagrito, le guance scavate, le orecchie sembravano attaccate artificialmente al corpo talmente sporgevano dalla testa, e i capelli erano bianchissimi, poche strisce grigiastre continuavano imperterrite ad attraversare la chioma scarna.
I vestiti con cui l'avevano vestito erano sportivi, niente giacca e cravatta, niente pantaloni satinati o mocassini. Indossava le sue scarpe da pesca preferite, un paio di Nike blu, e una felpa larga e calda che definiva la sua salvezza nei giorni d'inverno.
Mi portai una mano alle labbra, e nonostante i buoni propositi il respiro mi morì in gola come se le acque gelate di poco prima mi avessero appena riempito i polmoni fino ad inondarmi l'esofago.
Un singhiozzo mi sconquassò lo sterno e mi sentii improvvisamente una figlia indegna, un'ingrata che non aveva saputo celebrare la vita di coloro che per crescerla avevano messo da parte la propria, una codarda che si era nascosta dietro il proprio orgoglio e la convinzione di avere pienamente ragione pur di non ammettere che anche a lei i propri genitori mancavano.
Posai una mano sulla bara, mentre il rimpianto di non aver saputo essere superiore e sollevare la cornetta quando ne avevo avuto la possibilità cominciava già a dilaniarmi le interiora.
Mia madre mi carezzò le scapole con un tocco che somigliò al venticello leggero che mi investiva ogni volta che mettevo piede fuori dalla metropolitana, quando il puzzo di ferraglia, carta straccia e umidità mi lasciava addosso una sensazione sgradevole che riuscivo a scacciare via solo incontrando di nuovo i raggi del sole all'esterno.
Quel tocco bastò per un attimo a calmare i miei singhiozzi, ma non le mie lacrime che, irriverenti, continuavano ad imperversare lungo la mia pelle troppo rosa per essere accostata al colore di morte di colui che avevo di fronte.
«Odiava i vestiti eleganti», la bocca di mia madre si aprì in un sorriso triste appena accennato.
Annuii leggermente.
«Lo so... Si lamentava ogni mattina prima di andare a lavoro...». Si fece scappare una piccola risata e si asciugò altre lacrime che, in preda ai ricordi, avevano ripreso ad inondarle le gote.
«Già».
«Non l'ho neanche potuto salutare...».
Con indosso le mie scarpe eleganti, mia madre in pantofole mi arrivava appena sotto la spalla. Mi tenne stretta per il braccio e posò la testa su quest'ultimo, scuotendo impercettibilmente il capo.
«Sapeva che gli volevi bene», soffiò.
Ma non gliel'avevo potuto dire. Maledetti silenzi dettati dalla paura, dal timore di non avere un riscontro, di sentirmi sbattere l'ennesima porta sul naso... E in quel momento, anche se poteva sembrare un desiderio scontato, un banale cliché, niente mi bruciò di più di non essere riuscita a parlargli per l'ultima volta.
Scrutando il suo corpo ormai trasparente, i miei occhi si posarono distrattamente sul braccialetto sottile di pelle marrone scuro che mi adornava il polso, un dettaglio che ci aveva visti protagonisti di una storia divertente.
Quando l'avevo acquistato, in un pomeriggio d'estate, lo sguardo dell'uomo che mi aveva dato la possibilità di vivere l'aveva adocchiato immediatamente, chiedendomelo in regalo.
Ad un mio rifiuto, perché troppo innamorata di quell'accessorio, quello stesso uomo mi aveva tenuta d'occhio pensando che prima o poi avrei dovuto sganciarlo e quando ciò era successo non aveva perso tempo a derubarmene. Non trovandolo più da nessuna parte avevo chiesto a lui se per caso l'avesse visto, ma nonostante il suo diniego, in un guizzo della mano, avevo potuto notare che invece lo portasse al polso.
"Ladro!", avevo gridato, e dopo esserci rincorsi per tutto l'appartamento ero riuscita a riappropriarmene, incassando le successive volte che, per gioco, continuò a rinfacciarmi quell'appellativo.
Il perché avessi continuato a tenerlo con me, che fosse sul comodino o alla mano, era chiaro... Non volevo separarmi del tutto dai miei legami e il fatto che stessi soffrendo così tanto alla vista di mio padre disteso su quella bara era la prova del fatto che non ero mai stata disposta, in fondo, a recidere del tutto le mie radici nonostante il male che mi avevano costretto a subire, soffocandomi.
Sganciai nostalgica quindi, insieme al bracciale, anche quell'ultimo legame che per tutto quel tempo, sebbene incosciamente, mi aveva tenuto salda a loro, a lui, e glielo legai al polso di marmo freddo.
Trattenni l'aria mentre l'oblio mi risucchiava lo stomaco in un vortice, lasciandomi crampi leggeri.
L'avrei lasciato andare così, con un po' di me allacciato al braccio per non uccidermi di rimpianti, convincendomi che in questo modo sarebbe stato sempre un passo di meno lontano da me.
Dietro di noi gli uomini dell'agenzia funebre posarono le mani sulle nostre spalle, forse avendo capito fossimo madre e figlia o forse perché avevano origliato il nostro scambio di battute.
Ci osservarono con sguardo mesto ma non troppo, ad evidenziare quanto fossero abituati alla morte da vederla più come una consuetudine che come un'elemento sorpresa.
C'indicarono il carro funebre, ci chiesero se ci sentivamo pronte ad andare ed io pensai che no, non mi sentivo affatto pronta a seppellire un uomo che avevo creduto tanto forte da essere immortale, non dopo essere stata via così tanto tempo, e che avrei tanto voluto scuoterlo, svegliarlo, fare di tutto per rianimarlo anche solo un attimo e riempirlo delle mie parole, delle mie esperienze, di tutto ciò che si era perso in quegli anni... Ma dopo un'intensa occhiata ad uno dei due uomini, capii di dover accantonare i miei desideri poiché irrealizzabili.
Recuperati i parenti e gli amici, seguimmo tutti il carro funebre in auto fino al cimitero e lì si consumò il nostro addio. Gli amici parlarono di lui sistemandosi in cima alla cappella, raccontando al microfono di quanto fosse divertente farlo perdere a golf, vedere la sua rabbia crescere quando si ritrovava ad offrire a tutti la cena, constatare quanto fosse bello sapere di poter contare sempre su di lui nei momenti di bisogno; i colleghi ne piansero la perdita e lo elogiarono, mentre qualche parente sconosciuto prese la palla in balzo per citare le solite frasi di circostanza.
Nonostante pensassi che quel momento non sarebbe mai arrivato, a mezzogiorno ci ritrovammo tutti stretti intorno alla lapide dedicata a George Telesco.
Il cielo era terso, il sole ci batteva sulla testa come fossimo nel pieno di una giornata primaverile; niente temporali da film per noi, nessun ombrello aperto, solo i colori sgargianti del cielo pulito e del sole scoperto a prendersi gioco della fossa aperta sul prato del cimitero e del nostro abbigliamento scuro.
Padre Anselmo, lo stesso che anni prima aveva cercato di farmi credere che fosse sbagliato essere omosessuale, lo stesso che mi aveva rimbeccata nascondendosi dietro i suoi "querida", tra le cui braccia mia madre mi aveva spinta forse convinta che così il demonio che mi possedeva sarebbe stato scacciato, adesso dava l'ultimo saluto e l'ultima benedizione a mio padre, calandolo dentro quella voragine.
Non riuscii a staccare gli occhi da quella scena per tutto il tempo. Qualcuno gettò dei fiori mentre la buca cominciava ad essere riempita di nuovo di terra, altri si inginocchiarono per posare con il palmo aperto della mano dei baci sul terreno, sperando che mio padre potesse riceverli...
Io mi limitai a restare incastrata nel mio stato di shock, mentre il pensiero che da quel momento in poi sarebbe stato ficcato là sotto senza poterlo vedere né sentire mai più mi pulsava nel cervello e nelle tempie come un topolino chiuso in gabbia che sbatte la testa contro le sbarre.
Mia madre mi afferrò per le spalle e mi voltò in direzione delle auto mentre il funerale procedeva dietro di noi.
«Prendi la macchina, torna a casa», sussurrò con voce roca, spenta dal pianto.
«No, resto a darti forza».
«Non voglio che l'ultimo ricordo che ti lega a lui si cristallizzi nella tua mente con quest'immagine. Ricordalo da vivo, non da sepolto. Mi sei stata di grande aiuto fino ad ora, torna a casa e io ti raggiungerò a breve», sentenziò.
Nonostante avrei tanto voluto restare lì per sorreggerla nel caso in cui avesse avuto di nuovo bisogno di me, come volevasi dimostrare fui io a crollare e lei a proteggermi.
Forse mi sbagliavo, ma mi sembrava che quegli anni di lotta per tenere in vita mio padre l'avessero indurita, resa più combattiva nonostante le mille fragilità che la caratterizzavano.
Seguii quindi il consiglio e m'infilai in auto, dritta a casa.
~∞~
Non seppi bene quanto dormii in seguito a quel ritorno, forse ore, forse giorni.
Aprivo gli occhi ogni volta che il mio corpo sembrava stanco di poltrire, e non appena costatavo di trovarmi ancora sul divano in cui mi ero accasciata di ritorno dal funerale, la voglia di alzarmi abbandonava il mio corpo come la schiuma delle onde sulla riva del mare.
Aprivo e chiudevo le palpebre come fosse un gesto automatico, qualsiasi emozione che non fosse una profonda tristezza aveva abbandonato il mio corpo.
Quando le braccia di Morfeo trovarono il modo di allentare di poco la stretta in cui mi tenevano salda, cominciai a notare alcuni dettagli che, pisolino dopo pisolino, sembrarono aggiungersi alla mia figura.
Sopra la camicia che avevo indossato il giorno del funerale adesso portavo una felpa, mia madre doveva avermi coperto con un piumone caldo e di fronte a me, su un tavolino nuovo di cedro, una spremuta fresca e una compressa di vitamina C sembravano puntare il dito come obblighi da prendere in considerazione.
Mia madre intercettò il movimento lento con cui tirai fuori una mano dalla coperta per afferrare il bicchiere, quindi svoltò l'angolo del divano e me lo porse delicatamente, sedendosi sulla poltrona di fronte a me.
Mi rivolse un sorriso stanco, i capelli erano raccolti in basso da un vecchio fermaglio, le borse sotto gli occhi dovute all'eccessivo pianto la facevano apparire come la facciata di un palazzo che sta per sfracellarsi al suolo, mentre un grembiule macchiato d'impasto troneggiava sui vestiti scuri.
Annusai l'aria circostante per dare corpo ai miei sospetti, e quando un'aroma inconfondibile di torta al limone raggiunse gli angoli reconditi della mia memoria lo spettro di un sorriso m'impregnò la bocca.
«Cosa bolle in pentola?», gracchiai. Quel suono ruvido mi punse le orecchie come la voce di uno sconosciuto.
«In pentola niente. In forno...», lasciò intendere.
«La mia torta preferita», conclusi.
Sorrise appena, mentre afferravo il bicchiere e ne tracannavo il contenuto insieme alla pillola. Non mi ero resa conto di avere così sete...
«Quanto ho dormito?», mi arrischiai a chiedere.
«Due giorni», affermò.
Come avevo potuto?!
Avevo il permesso di restare in città solo per quattro giorni e ne avevo speso la metà a poltrire!
La donna che avevo di fronte captò immediatamente i miei pensieri e scrollò le spalle, ostentando tranquillità.
«Mi è bastato saperti in casa per stare meglio», sentenziò.
Un nodo grosso come una noce mi bloccò la gola.
Si rimise in piedi e raggiunse nuovamente la cucina, sfornando la torta che liberò nell'aere un odore simile a quello dolce dello zucchero filato.
Mi avvolsi il piumone sulle spalle e superai la finestra del salotto, notando con la coda dell'occhio un peggioramento climatico. Il cielo non era più chiaro e brillante come due giorni prima, bensì plumbeo e denso di pioggia che, a causa della temperatura troppo bassa, cominciava a diventare neve. Il terreno del giardino ne era già coperto da un sottile strato, la brina sugli alberi li rendeva intirizziti come pezzi di plastica, e la condensa formatasi sui vetri delle finestre lasciava intendere la differenza di temperatura esterna.
Sul tavolo da cucina la torta troneggiava fumante: afferrai alla svelta un coltello e me ne tagliai una fetta, perché adoravo la sensazione dell'impasto talmente caldo da sembrare liquido sul palato.
Mia madre scosse la testa e si sedette al tavolo accompagnata da me, provando ad imitare i miei gesti.
«Certe cose non cambiano», mormorò.
«Neanche la tua torta, fortunatamente», sospirai beata.
Dopo alcuni istanti di silenzio lo sguardo di mia madre prese ad indugiare su di me, come ad osservare tutti i cambiamenti che mi caratterizzavano di cui io non mi accorgevo.
Nei suoi occhi attenti potevo scorgere domande che si accumulavano, accatastandosi come nuvole pronte a far esplodere il loro acquazzone. Tamburellò con due dita sul tavolo, segno dell'indecisione interiore che la stava torturando, ma alla fine una delle due parti vinse e con la bocca ancora sporca di briciole domandò:
«Cosa hai fatto in tutti questi anni?».
Deglutii il morso che avevo dato all'impasto giallo.
«Ho studiato, mi sono resa indipendente lavorando...», accennai.
Lei annuì piano, lo sguardo acceso da una scintilla di curiosità.
«Dove hai lavorato? In cosa ti sei cimentata?».
«Dopo essermi trasferita ho lavorato in un supermercato...», cominciai. Nello stomaco si fece strada come un vermiciattolo a mille piedi una sensazione di disagio: mi sentii improvvisamente come ad una di quelle sedute psicoanalitiche in cui bisognava raccontarsi ad uno sconosciuto. Solo che quella donna era mia madre, nonostante il tempo e gli anni passati a far finta di non conoscerci... «Con i risparmi ho potuto intraprendere gli studi presso una Scuola di Recitazione prestigiosa di Kansas City e...».
«Kansas City? E' lì che abiti?».
La stessa scintilla di poco prima divenne un fuoco in fondo alle iridi.
Avevo forse svelato quello che per lei doveva essere stato un misterioso arcano per tutti quegli anni?
«Abitavo proprio nel centro della città, ma a causa del nuovo lavoro ho dovuto affittare un appartamento ai margini».
«Ah, hai trovato un nuovo impiego?», incrociò le braccia sul tavolo e scansò senza farci troppo caso la sua fetta di torta, come presa da un altro tipo di fame.
Insieme al disagio, la tenerezza venne a farmi visita. Sembrava di stare accanto ad una bambina di cinque anni piena di domande e di perché.
Abbassai lo sguardo, mentre l'autentico senso di colpa che mi aveva stretto il cuore in una morsa dal momento in cui ero arrivata affondava nuovamente le sue unghie nella carne.
«Un famoso regista mi ha concesso un audizione e sono finita a far parte del cast di un suo nuovo film. Conosci Kamal Ohbair...?», le concessi, aprendo un piccolo spiraglio, di dare una sbirciata veloce nella mia nuova vita.
Sembrò pensarci su, poi tentò:
«E' il regista di "Blu cielo"?».
«Non ne sono sicura...».
«"L'albero del destino"?».
«Sì!».
Quello lo conoscevo bene, era uno dei film di Kamal che più preferivo: il protagonista si ritrovava a dover scegliere tra ciò che era stato prefissato per lui dal destino e quello che invece avrebbe potuto crearsi servendosi delle sue capacità.
La scena finale si concludeva con una battuta assai famosa: "L'albero del destino può germogliare e crescere senza un contadino che ne decida i frutti, ma può anche essere coltivato dalla mano dell'uomo e per questo venir su proprio come esso desidera".
«Oh, mio Dio!», trillò mia madre, un po' d'entusiasmo sembrò spazzare via la tristezza degli occhi. «Ma quello è un pezzo grosso!».
«Già... Non hai visto il trailer?».
Lo sguardo si scurì nuovamente.
«Credo di essermelo perso, tuo padre ha assorbito tutte le mie attenzioni nell'ultimo periodo».
Annuii comprensiva.
Il silenzio fece di nuovo da padrone, mentre prendevo a morsi gli ultimi bocconi della mia fetta di torta.
Me ne tagliai un'altra pezzo, guardandola ancora fumare.
«Mi dispiace non esserci stata», sputai alla fine, obbligandomi a ritrovare il coraggio perduto. «Avevi bisogno di me ed io non c'ero...».
«Anche tu avevi bisogno di me», interruppe brusca, «ma io ho preferito perderti piuttosto che capirti».
Quelle parole mi vorticarono nel cervello impazzite. Per un attimo persi la capacità di interagire e rimasti semplicemente a fissarla con la bocca schiusa. Mai avrei pensato che dentro covasse quei sentimenti di pentimento, su determinati argomenti avevo sviluppato un'idea inestirpabile secondo cui non avrebbe mai e poi mai cambiato il suo parere.
«Forse se ti fossi stata accanto di più, se avessi dato ascolto a quella psicologa...».
«Indietro nel tempo non si torna», abbozzai amara, una punta di stizza nella voce.
Sapevo di dover essere felice del fatto che avesse capito – forse – di aver sbagliato, ma gli avvenimenti che avevano caratterizzato la mia adolescenza avevano perso di spessore trascorsi gli ultimi sette anni, trasformandosi in ricordi tristi in cui di tanto in tanto mi imbattevo. Certo, a diciassette anni negare un amore può essere la via più semplice per portare una figlia alla ribellione o alla depressione più nera, ma ora che avevo superato quell'età mi rendevo conto che i veri problemi della vita non erano e non potevano essere le amichette che ti sfottono, quelle che ti usano per i passaggi o la mamma che ti chiude in camera.
Quindi amen, le portavo ancora del rancore ma nemmeno troppo.
«Ma possiamo provare ad andare avanti...», propose timidamente, gli occhi bassi sul tavolo a frugare tra la farina rimasta.
Sospirai, combattuta. Dirle di sì significava fingere che non mi avesse mai fatto del male, dire di no invece, visti gli avvenimenti delle ultime ventiquattrore, mi avrebbe reso una persona spietata.
In cuor mio sapevo di doverle dare una possibilità, più che mai in quel momento.
«Già...», risposi semplicemente.
Prese quel monosillabo al volo come fosse un salvagente in mezzo al mare e mi sorrise con gli occhi pieni di lacrime di gioia.
Avrei voluto stabilire le condizioni di quel tacito patto nascente, dirle che ciò non significava il perdono assoluto, che ero ancora un po' arrabbiata, che darle un'altra possibilità non significava darle di nuovo la l'occasione di fare delle scelte al posto mio, che non avremmo avuto d'ora in poi un rapporto pari a quello di due amiche... Costruire una recinsione che mi proteggesse da eventuali attacchi futuri, insomma. Qualcosa che mi permettesse di poter dire, se se ne fosse presentata l'occasione: "guarda che stai di nuovo sforando il mio margine d'azione. Dobbiamo ritornare a non rivolgerci la parola o posso prendere delle decisioni da sola?".
Ma non riuscii a dare adito alle mie volontà, perché per un attimo la felicità per il mio ritorno aveva spazzato via la tristezza per la dipartita di mio padre dal suo viso.
In quegli attimi di acceso silenzio, i suoi occhi intercettarono l'anello che brillava insistentemente al mio anulare sinistro e rimasero lì impigliati, mentre una domanda muta prendeva ad aleggiarle in fondo alle iridi brillanti.
«Sei fidanzata?», azzardò con un filo di voce.
Nascosi la mano in imbarazzo: la mia mente s'incantò in un futuro imminente, dove mia madre mi accompagnava all'altare al posto di mio padre e mi artigliava il braccio sussurrandomi che avevo fatto la scelta giusta.
Scossi leggermente il capo, allontanando quei pensieri cattivi e prevenuti.
Non doveva per forza essere così.
«Non lo sei?», insistette.
«Sì, lo sono».
«Con...? Insomma, ti ho lasciata andare che...».
Sembrava che un agglomerato degli stessi pregiudizi che l'avevano spinta a buttarmi fuori casa adesso le stesse bloccando la gola.
Sospirai, delusa dal fatto che per metà la stessi già sopravvalutando.
«Si chiama Jason», la tranquillizzai con l'amaro in bocca.
Parve accorgersi del mio leggero disappunto, quindi cercò di modellare il suo entusiasmo nascente.
«Vive nella tua stessa città?».
Mi passai una mano tra i capelli, di nuovo a disagio.
Non mi sentivo ancora abbastanza pronta per confidarle tutti i dettagli della mia vita, quel privilegio avrebbe dovuto guadagnarselo col tempo. Inoltre, nonostante non andassi fiera di ciò, dovevo ammettere di provare ancora un certo timore nei suoi riguardi e questo mi bloccava.
Se davvero era un rapporto nuovo ciò che desiderava, doveva anche essere disposta a darmi il mio tempo e i miei spazi.
«Lavo i piatti», esordì, captando le mie sensazioni.
Prima di parlare riflettei qualche altro istante, poi esclamai:
«Se fosse stata Mya non saresti stata felice?».
La terrina che aveva usato per cucinare la torta le scivolò dalle mani dentro il lavandino.
«Sei una donna ormai, non ho più alcun potere sulle tue decisioni», aggirò la domanda.
L'ombra di un sorriso consapevole m'increspò la bocca.
«Non hai risposto...».
«Sai come la penso».
«Beh, pensavo che questi anni ti avessero dato l'opportunità di ripensarci e...».
Fece scivolare le ciotole sullo scolapiatti e si voltò verso di me, gli occhi erano corrucciati da un'espressione severa.
«Ho capito di aver sbagliato, Ally. Avrei dovuto aiutarti anziché cacciarti, provare ad ascoltarti. Credi che in tutti questi anni non mi sia torturata? Certo che l'ho fatto!».
«Non mi sembra sia servito a molto, se la pensi sempre allo stesso modo», proruppi.
Allargò le braccia e roteò gli occhi al cielo.
«Io sono cresciuta con degli ideali! Non puoi chiedermi di cancellarli per aderire ai tuoi!».
I toni cominciarono ad accalorarsi e sebbene non avessi mai voluto che quella conversazione prendesse quella piega, alla fine mi resi conto di essere arrivata ad un punto di non ritorno temuto ed agognato: il confronto.
«Non so se ti sei accorta che invece io sono stata costretta a farlo!», urlai, «E mentre tu ti tenevi stretta i tuoi ideali, io ho dovuto bruciare i miei! Come se non avessi il diritto di avere un pensiero diverso dal tuo!».
Respirò dal naso, allargando le narici.
Posò una mano ancora insaponata sul lavello, come a sostenere il suo corpo improvvisamente troppo pesante da tenere in equilibrio.
Il silenzio ci avvolse, solo il rumore dei nostri respiri spezzati lo disturbava.
«Ti chiedo scusa», mormorò poi.
Strinse i capelli nella morsa del fermaglio, come rimproverandosi di quelle scuse che forse non sentiva abbastanza. La voce le tremò appena, potevo vedere in fondo a quegli occhi stanchi la necessità di un po' di pace.
Feci spallucce e mi passai le dita sotto gli occhi, raccogliendo due lacrime fuggitive: forse ci sarebbe voluto davvero tanto tempo prima di potersi anche semplicemente guardare in viso senza che l'interpretazione errata di un semplice sguardo portasse alla guerra.
«Voglio solo ricominciare da zero. E dovresti darti una possibilità anche tu», dissi.
Si tolse il grembiule e lo appese ad un gancio di metallo accanto alle finestre.
«Per cosa?».
«Per tutto, mamma. Datti la possibilità di osservare le cose da una prospettiva diversa».
La stavo chiaramente invitando a rivedersi, ché non tutto è bianco e nero nella vita. Sapevo che per una donna tutta d'un pezzo come lei sarebbe stato difficile abbracciare quella teoria, ma doveva darsi l'occasione di indossare delle lenti colorate e lasciarsi andare all'arcobaleno di tanto in tanto, o sarebbe soffocata dentro tutti quei pregiudizi.
Ad ogni modo, mi lanciò un'occhiataccia a metà tra il "la mia prospettiva va benissimo" e il "forse sei tu, che devi rivedere le tue".
Dopo aver trangugiato l'ennesima fetta di torta, io e mia madre cademmo di nuovo in un abisso di silenzi che nemmeno la più forte delle forze di volontà riuscì a spezzare per quella sera.
Guardai un film sotto le sue occhiate curiose, cariche di domande che però non osò farmi, e proprio quando decisi di spegnere la TV in favore del sonno notturno la pubblicità del TG locale catturò la mia attenzione.
Boston sarebbe stata travolta da un'ondata di gelo, i trasporti e i voli avrebbero subito delle variazioni, dei ritardi, e in alcuni casi perfino l'annullamento. La metropolitana avrebbe funzionato tranquillamente, mentre non si garantivano i viaggi in treno lungo le tratte scoperte poiché molte linee ferrate erano già seppellite da ben cinquanta centimetri di neve a metà strada tra Boston e Kansas City.
Saltai giù dal divano sotto lo sguardo esterrefatto di mia madre ed afferrai gli orari del treno, spulciando tra le varie coincidenze in cerca di quella che non avrebbe sicuramente subito ritardi e che mi avrebbe portata dritta agli studios tra due giorni... Ma, ahimè, constatai presto di non aver avuto fortuna. Secondo il TG, il tratto ferroviario che mi interessava era al momento inagibile e sarebbe stato percorribile solo tra due giorni.
Grattai il fondo della borsa alla ricerca disperata del cellulare e quando lo trovai composi alla svelta il numero di Kamal, pregando Allah di non essere uccisa.
Al nono squillo capii che non avrebbe mai risposto.
Provai a chiamare Stacy, ma partì una segreteria che mi invitava a lasciare un messaggio solo dopo il segnale acustico. Inviai un messaggio a Jason, battendo come una forsennata sullo schermo.
Amore, sono bloccata a Boston. Il tempo qui fa schifo e il mio treno ha subito un ritardo. Puoi avvisare Kamal e chiedergli di richiamarmi?
Qualche istante dopo un "tlin!" mi avvisò di un nuovo messaggio.
Kamal ha bloccato le riprese. Pensavo lo sapessi!
Aggrottai le sopracciglia.
Perché Kamal avrebbe dovuto bloccare le riprese quasi alla fine del film? Gli mancavano davvero poche sequenze per completare le scene e dedicarsi al montaggio finale!
A malincuore, e con un brivido indecifrabile su per la spina dorsale, mi costrinsi a pigiare sul contatto "Mya", quindi il telefono prese a squillare.
Al quinto squillo la sentii imprecare.
«Porca vacca!».
«Mya?».
«Perché sei sorpresa di sentire la mia voce? Mi avevi registrato come "Nonnina"?».
«No...», sospirai.
Il desiderio cieco di averla lì per poter sfogare su di lei tutta la mia tristezza e tutto il mio dolore mi lambì il petto come rami secchi e annodati, simili a mani con unghie affilate. Deglutii quella sensazione di puro dolore, mi allontanai dal salotto e raggiunsi la mia camera. Una volta dentro, inspirai l'odore pungente di chiuso e di muffa e osservai il povero riflesso della luna sui fili delle ragnatele sulle mensole.
Nulla era stato toccato, alcuni indumenti che nella fuga di sette anni prima erano rimasti sparpagliati qui e là giacevano ancora sul pavimento e sulla scrivania, coperti da uno strato di polvere.
«Ally?».
Battei le palpebre furiosamente, perché sentirle pronunciare il mio nome sapeva lenire le ferite nonostante mi rifiutassi di crederci e perché in cuor mio sapevo che avevo proibito a Jason di venire con me non solo per i motivi ovvi, ma anche perché l'unica capace di dare pace alla mia anima tormentata era lei.
Scoppiai in un pianto silenzioso, scivolando piano ai piedi della porta.
«Sono bloccata qui!», farneticai.
Restò colpita dalla mia reazione, quindi chiese:
«Ed è così terribile?».
Tirai su col naso.
«No...».
«Quindi?».
«Perché non mi hai detto che era la tua sorellastra?!».
«Ally...».
«Perché Kamal ha bloccato le riprese?», glissai, confusa da tutte le cose che in quel momento erano tornate a farmi male, dandosi quasi appuntamento.
«Aveva bisogno di te per le ultime scene, ma non ha voluto dirtelo. Ti ha lasciato partire senza macigni attaccati al piede, quindi ha bloccato le riprese e ha dato a tutto lo staff qualche giorno di riposo. Tanto non potevamo fare più niente, al momento».
Autoritario, forte, severo, eppure così comprensivo e buono... Mai mi sarei aspettata di poter affibiare ad un uomo come Kamal qualità positive come quelle.
Non si smette mai di conoscere qualcuno, pensai.
«Capisco...».
«Ti sei calmata?».
«Mi dispiace avervi bloccati tutti», mormorai, asciugando le lacrime sfuggite al mio controllo.
«Si tratta solo di questo?».
Ci pensai su solo per un secondo.
«No, c'è dell'altro, ma per raccontarti tutto dovresti essere qui», le dissi piano.
«Non sono lontana», sussurrò lei di rimando.
La sua voce calda e bassa mi riempì lo sterno come cioccolata bollente in un giorno... in un giorno come quello!
«Più di duemila chilometri sono tanti», dissi, poi cercai di cambiare argomento. «Se riesci a rintracciare Kamal digli che sono bloccata a Boston per via del tempo e che tornerò un giorno in ritardo».
«Gli farò una telefonata».
Cominciava a suonarmi sospetto.
«Sei ancora nel Kansas o sei partita?».
«Sono a casa».
Enfatizzò quella parola come se ci fosse un significato nascosto dietro.
«Perché non me l'hai detto, Mya?».
Sapeva a cosa mi riferivo.
Sospirò, smarrita: stare dietro a tutte le mie paranoie non doveva essere facile.
« "Per raccontarti tutto dovresti essere qui"».
«E dov'è il tuo "qui?"».
«A casa di un buon vecchio amico».
L'audio venne disturbato da un tonfo, come di una portiera che si chiude, poi un leggero brusio di piedi che affondano nella neve.
Una luce esplose come un tubo di coriandoli in fondo al mio cervello quasi catatonico.
«Sei da John?».
«Lavoro per lui, stasera. C'è una serata in disco e mi sono resa disponibile».
Così vicine e così lontane...
«Sei a Boston?!».
«Ne ho approfittato per un fare un salto alle origini», ridacchiò.
Alle mie spalle, mia madre cominciò a bussare alla porta. Chiesi a Mya di aspettare e misi giù il telefono, facendola accomodare.
Scambiammo due parole che mi lasciarono più interdetta di prima e quando riuscii a riprendere la conversazione l'unica cosa che riuscii a dire fu:
«Se ne va».
«Chi?».
«Mia madre...».
«E dove?».
«Aveva un volo prenotato per domani sera, doveva trasferirsi definitivamente da sua sorella e mettere la casa all'asta. Ha deciso di vendere l'immobile ora che mio padre non c'è più...», spiegai.
«E...?».
«Le hanno spostato il volo all'alba. Cambio di rotta e di compagnia. Lei se ne andrà e io rimarrò bloccata qui per un giorno intero da sola. Ma ciò che non capisco è perché abbia deciso di dirmelo solo adesso...».
«Forse pensava che, finito il funerale e tornate alle vite di sempre, avreste ricominciato ad ignorarvi quindi non ha visto la necessità di dirtelo. Ma visto che adesso sei bloccata lì...».
Probabilmente aveva ragione.
Mi passai una mano tra i capelli, le unghie mi finirono dritte tra gli incisivi.
«Ho bisogno di te, Mya», ammisi. La mia voce suonò lontana, come se non fosse appartenuta a me ma a qualcun altro, e nel momento in cui realizzai di averlo detto davvero e di averla lasciata senza parole quasi me ne pentii.
Cosa stavo facendo? Stavo rispondendo all'istinto. Ed era come aver lasciato la ragione a Kansas City ed essermi portata dietro solo il cuore.
Prima mia madre, e ora lei...
«Non vuoi approfittare di questo maltempo per far visita a tua zia?», tentò. Sembrava restia all'idea di accettare che avessi davvero bisogno di lei. Avevo l'impressione che quando mi lasciassi andare a certe ammissioni preferisse aggirare la domanda oppure rispondere con del sarcasmo, piuttosto che provare a capire i miei sentimenti.
Ma come biasimarla?
«Lei non vuole restare un giorno di più ed io rimarrò qui per consegnare le chiavi all'agenzia e sistemare le ultime cose al posto suo».
Benché forse mi dovesse più di quanto io dovessi a lei, mia madre si meritava quel favore. Staccare la spina, ricominciare a star bene e provare a riprendere in mano la sua vita era ciò che le serviva per evitare di ritrovarsi l'acqua al collo.
Sospirò nuovamente, un suono rassegnato e un po' spaventato.
«Allora... mi offri un caffè all'alba di domani?», tentò.
Un piccolo fuocò divampò con potenza al centro del mio stomaco.
«Stai dicendo che verrai?».
«Non ho intenzione di esserti amica, Ally».
Come era possibile esserlo, d'altronde? Ogni volta che mi guardava potevo vedere riflessa nelle sue iridi la rabbia e il rancore per tutto il male che le avevo procurato, e a questo si era aggiunta, da quando era venuta a conoscenza di Jason, la delusione di sapere che mi fossi rifatta una vita mentre lei, al contrario di ciò che pensavo, era ancora incastrata nella sua solitudine. Di tanto in tanto, quando i suoi occhi incontravano i miei, notavo come le fosse quasi impossibile sostentere per più di qualche secondo il mio sguardo senza rabbuiarsi, senza doversi chiudere da qualche parte negli studios e sparire dalla circolazione.
Fortunatamente, per te provo una fredda indifferenza.
Bugia.
Una bugia così falsa e trasparente, da sparire nell'aria come un sospiro di vento. La cattiveria che ci aveva messo nel dire quelle parole era stata notevole, dovevo ammetterlo, ma a conti fatti restava una delle cose meno credibili che mi avesse mai detto, surreale.
Mya non poteva essermi amica perché non si può essere amici dopo essersi amati tanto, rincorsi tanto, feriti tanto. Non si può essere amici dopo essersi conosciuti così a fondo, dopo essersi scambiati il cuore, dopo averlo masticato come fosse una chewing-um infinita. Non ci si può guardare in faccia e farsi tanti bei sorrisi di circostanza, senza che le vere emozioni che si hanno dentro crepino quella brutta facciata di finto buonismo.
Prima o poi uno cede.
Io stavo cedendo...
Mya resisteva.
«Non ti sto chiedendo di essermi amica».
«Ti offro una chiacchierata, giusto per non farti sentire una merda», la sua voce mi sembrò incrinata da una domanda che non riuscì ad avere voce.
«Grazie», riuscì a sussurrare, ignorando il suo essere piccata del tutto fuori luogo.
Seguì qualche attimo di silenzio in cui il mio cervello sembrò liquefarsi: milioni di domande, che a guardarle bene sembravano portare in spalla un sacchetto di adrenalina cadauno, cominciarono a fare capolino riguardo al giorno dopo, ma decisi di pescare a caso dal mucchio l'unica un po' più sensata.
«Come mai non sei rimasta nel Kansas?».
«Te l'ho detto, John mi ha offerto una serata. E poi mi mancava, quindi ne ho approfittato».
«Nient'altro?».
Altri interminabili secondi spezzati solo dal rumore dei suoi passi sulla neve. Era lì fuori da qualche parte, forse stava attraversando il mio vialetto in quel preciso istante, e io nemmeno lo sapevo...
«Sai cosa mi ha detto il mio professore di psicologia, a fine corso?».
Aggrottai le sopracciglia.
«No. Cosa?».
«Che anche se incosciamente, torniamo sempre nei cuori e nei luoghi che ci hanno reso felici».
Non seppi cosa dire e Mya chiuse la conversazione senza salutare.
ANGOLO AUTRICE:
Per motivi personali questo capitolo è stato MOLTO PESANTE per me. Ci sono diversi aneddoti personali, oltre che la morte di una persona a me molto cara... Spero non sia stato pesante per voi leggerlo quanto per me lo è stato stato scriverlo. Scusate l'assenza come sempre, tra i mille impegni è sempre difficile aggiornare. Volevo che i genitori di Ally facessero la loro comparsa un'ultima volta, e visto che questo secondo romanzo continua in parte ad essere tratto dalla mia vita ho voluto regalarvi un pezzo di me anche in questo capitolo. Spero vi piaccia! A presto, cari lettori <3
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