Capitolo IV: You are better than me


Mani.

Odori che si mescolano.
Un profumo.
Familiarità.
Chi è?
Fatti vedere.
Buio.
Corro forte. Corro lontano, inciampo, cado.
Cado su qualcosa di morbido che puzza di gomma.
Cosa ci faccio in mezzo agli studios? Mi guardo intorno.
Vasta campagna, fiori, alberi, insetti che vorticano rumorosi.
Devo trovare i punti cardinali, ci sarà una risposta a tutto questo.
Un volto scuro mi viene in contro: Kamal ha la faccia segnata da lunghi segmenti di tempera nera, gli attraversano gli occhi e terminano sotto il mento. Non indossa maglietta.
Mi indica le mani e mi sbeffeggia.
«Ti hanno venduta!».
Mi guardo anch'io: puzzo di terra e concime.
«Kamal, sono io, Ally!».
Ride sommessamente e si gratta i capelli sporchi.
«Farai fare un mucchio di soldi a tuo padre, la tua verginità vale più della tua bella faccia».
«Cosa? No, io... Non sono Kathryn, sono Ally!».
Muta espressione. Dalle spalle fuoriescono mani insanguinate che gli squarciano la pelle, abbandonano il vecchio corpo per risvegliarne uno nuovo.
Nudo, rotondo, femminilità e sensualità contro spettacolo raccapricciante.
Mya, sanguinante, mi sta di fronte e piange, piange così forte e così disperatamente che devo tapparmi le orecchie per non sentirla.
Voglio aiutarla ma mi accascio, chiudo gli occhi.
E' solo un sogno. Non è reale.
Li riapro: la campagna non c'è più.
Dove sono?
Buio.
Passi.
Mi volto, non vedo nulla. Cosa c'è al di là del mio corpo? Fendo l'aria con una mano, percepisco una stoffa.
Le luci si accendono intorno a me, ma rimangono tenui, non mi abbagliano: sono dentro la scatola di vetro dei miei precedenti sogni, solo che stavolta Mya è di fronte a me.
Ha i capelli sfatti, sembra stanca, mi guarda con occhi gonfi.
«Baciami».
«Cosa?».
«Hai sentito».
«E' finita, Mya».
«Cambia l'ordine».
«Di cosa?».
«Della tua frase».
Ci rifletto.
Lei lancia qualcosa che fracassa una delle pareti di vetro in milioni di piccoli specchi che riflettono la mia immagine.
Urlo.
«" Mya è finita"!», ho una voce stridula e non voglio guardarmi in quegli specchi.
Svegliati svegliati svegliati ti prego sveglia sveglia sveglia sveglia...
«Sono finita!», ride istericamente.
Mi spinge contro quei cocci anche se oppongo resistenza, mi sovrasta con la sua altezza e mi costringe a guardare; mi tiene per i capelli.
Sono dentro quei vetri adesso, vivo ciò che stanno riflettendo loro, come un film: Mya è nuda, la sua pelle è pulita, i capelli sono chiari, mi osserva dormire.
Apro gli occhi, ho caldo all'altezza del petto, riesco a sentire il mio cuore, riesco a sentire di amarla.
Non sono la Ally di adesso, ho di nuovo diciotto anni.
«Baciami».
«Cosa?».
«Hai sentito».
Rido maliziosa.
«Non finirà mai, vero?».
«Mai».
Si sporge su di me, le sue gambe mi sfiorano, le sue labbra mi prendono.
Sono sua.
Mi tocca, stringe i miei seni tra le dita, si insinua tra le mie gambe; mi bacia all'altezza dell'ombelico, se ne frega della mia pelle d'oca, si lecca le labbra, poi lecca le mie, le più sensibili.
Gemo.
Le stringo i capelli così forte che penso di farle del male, mi inarco.
«Ti amo...».
E' un sussurro leggero come il vento, muovo appena le labbra, eppure sono di nuovo fuori da quegli specchi.
Mya mi tiene ancora per i capelli, ma la sento chiaramente singhiozzare accanto al mio orecchio.
«Anch'io...», dice.




Aprii gli occhi senza muovere un solo muscolo.
Sul comodino accanto a me, la sveglia segnava le cinque e quarantadue del mattino e il rumore di pioggia al di là della finestra lasciava presupporre un acquazzone.
Fissavo un punto indefinito senza mettere a fuoco nulla, troppo scossa dalle emozioni che quel sogno mi aveva suscitato.
Era stato diverso: stavolta non c'era stata solo la rabbia, Mya non si era limitata costringendomi a guardare ciò che secondo lei mi ero "fatta", bensì erano subentrati i ricordi.
E le sue lacrime.
Per quanto tra di noi non ci fosse più alcunché, avevo amato così tanto Mya in passato da riuscire ad odiare le sue lacrime anche a distanza di tempo.
L'immagine della sua disperazione, del sangue che la ricopriva come se fosse appena nata, era così terribile da mettermi il voltastomaco.
Ero stremata... Una settimana prima i suoi atteggiamenti in aula studio mi avevano intimorita tantissimo, come se fosse una bomba pronta a scoppiare e da cui fosse meglio tenersi alla larga; mi ero isolata per far sì che il piano funzionasse, avevo bevuto camomilla ogni fottutissima sera come se ne andasse della mia sanità mentale, eppure mi sembrava di star remando comunque verso la via dell'esaurimento nervoso.
Chiusi gli occhi e lasciai che le lacrime sgorgassero libere, silenziose.
Forse evitarla mi stava facendo solo del male. Avrei dovuto affrontarla, piuttosto, così da risolvere la questione in modo adulto e poter continuare ognuno con le proprie vite.
Ma come spiegare la volontà di scoprire le carte a qualcuno che lo ritiene inutile e sciocco? Per Mya non c'era nulla da chiarire, le ero indifferente.
Eppure la rabbia, la collera, il risentimento, il rancore, la delusione, la tristezza e tutti quegli altri sentimenti negativi che in pochi minuti era riuscita a scaraventarmi addosso quel pomeriggio io li avevo percepiti, ed ero riuscita a cogliere il nome di tutti ma nessuno di questi aveva preso il nome di "indifferenza".
La cosa che più mi faceva incazzare però era la sua capacità di continuare a condurre una vita tranquilla, svolgendo il suo lavoro e avendo un rapporto professionale col resto dei miei colleghi come se l'incontro con me non fosse mai avvenuto.
Non mi evitava, non correva in anticipo a lavoro, quando dovevo registrare dei suoni in aula studio si rivolgeva a me come agli altri, non faceva trapelare alcun sentimento, non sembrava soffrire alcuna pressione dovuta alla mia vicinanza, e la prova lampante l'avevo avuta durante la scena della cattura di Kathryn, dove si era addirittura fiondata sul mio corpo toccandomi a mani nude come se nulla fosse per poi rimettersi in piedi e andare via fischiettando.
Cosa c'era dunque da risolvere? Cos'avevo da discutere se il mio interlocutore era in pace con se stesso?
Forse il problema è solo mio...
Riaprii gli occhi, preda della tachicardia, ma poi due braccia forti e calde mi strinsero improvvisamente, avvolgendomi in un calore familiare.
Sospirai.
«Ti ho sognata...», mormorò Jason accanto al mio orecchio, la voce calda e suadente.
Gli baciai il palmo di una mano e ci appoggiai il viso sopra.
Scommettevo che i suoi sogni erano stati meglio dei miei...
«Che hai sognato?», cercai di imitare il suo tono per nascondere qualsiasi traccia di malessere.
Ringraziai gli dei per quella distrazione, sospettavo che se non si fosse svegliato il cervello mi sarebbe fuoriuscito dalle orecchie.
«Indossavi quel completo di pizzo bianco, quello che ti fa un sedere da urlo...», mi strinse di più e percepii chiaramente la sua erezione premere contro il mio fondoschiena.
Sorrisi appena, per nulla sorpresa.
«Mmm... E poi?».
«Mi torturavi con i tuoi atteggiamenti da bambina che sa il fatto suo... Mi toccavi, ma non mi davi la possibilità di toccarti...», mi strinse una mano sulla coscia, affondandoci le dita.
Le mie sensazioni corporee mi riportarono immediatamente alla realtà: solo perché Mya era di nuovo all'interno del mio raggio d'azione non significava che dovevo perdere ogni minuto di ogni giorno a cercare di capire se serbasse ancora del rancore nei miei confronti o meno.
Io avevo fatto le mie scelte, avevo le mie colpe e non volevo pensarci.
Non volevo riportare nulla a galla, lei doveva restare dov'era e io dovevo restare dov'ero.
Jason mi afferrò per i fianchi e con un colpo di reni mi posizionò su di lui.
Poggiai la fronte contro la sua e mossi il bacino sul suo membro coperto dai box; lui gettò la testa all'indietro ed affondò le dita sulla carne dei miei fianchi, sospirando.
«Facevi anche questo...», ammise.
Sorrisi compiaciuta e presi a baciargli il profilo della mascella, del collo, il pomo d'Adamo, le clavicole, i pettorali.
Jason mi strinse i glutei tra le mani e nonostante avessi ancora le ciglia umide di collera provai a scacciare via qualsiasi emozione, qualsiasi immagine onirica e a concentrarmi solo su di lui.
Lui è il mio uomo.
Jason è la mia metà, ora.
Posai dei baci leggeri lungo i fianchi, l'addome scolpito, poi gli lanciai uno sguardo e lui mi guardò severo, mordendosi il labbro inferiore.
«Non è nemmeno l'alba e sei già così attiva?», scherzò.
Lo carezzai da sopra la stoffa, poi gli sfilai i box e lui sganciò il mio reggiseno, infilandomi le mani tra i capelli.
Già, perché ero così attiva?
«Sono una donna ricca di sorprese».
Mi leccai le labbra, consapevole ormai del mio corpo e dell'effetto che sortivano su quell'uomo certi atteggiamenti.
Baciai la punta del suo sesso turgido, passai la lingua lungo tutta la sua lunghezza e l'osservai mentre si rilassava completamente sul cuscino.
Me l'aveva insegnato lui come se si trattasse del gioco dell'oca: prima fai questo, poi quest'altro, ma nel caso in cui io mi comporti in questa maniera tu stai ferma per alcuni secondi sullo stesso punto e comportati così.
Si ripeteva sempre nello stesso modo, dovevo osservarlo ed essere delicata per non fargli del male, ma anche decisa per dargli l'impressione che fossi io a comandare.
Non era facile, ma c'erano stati tempi peggiori...
Tempi in cui non avevo saputo come soddisfarlo, tempi in cui mi ero sentita un'idiota, tempi in cui avevo avuto perfino paura di fare sesso con lui tanto che questo era diventato l'ostacolo principale nella nostra relazione.
Ma poi, fortunatamente, l'avevo risolto.
Dopo avergli dedicato delle attenzioni specifiche, Jason mi strinse i capelli tra le dita e mi costrinse a guardarlo negli occhi.
«Ti voglio».
Lentamente, con sensualità, strisciai fino alla sua altezza e una volta preso il comando della situazione la sua intimità fu dentro la mia.
Cosa mi importava del resto? Avevo la mia vita ormai, erano passati sette lunghi anni. Da cosa scappavo? Da un fantasma?
Affondai con decisione, strappandogli un gemito che tentò di nascondere sulla pelle del mio collo, graffiandomi coi denti.
A pensarci tutto ciò che stavo facendo era ridicolo: se anche mi avesse parlato? Una chiacchierata non avrebbe ucciso nessuno. Se avesse preso a fare battute le avrei risposto, d'altronde conoscevo perfettamente
il caratteraccio di Mya e crescendo avevo imparato a tenere a bada i tipi come lei.
Jason mi baciò sulle labbra intensamente, mentre io continuavo a muovermi sul suo membro duro con velocità, impazienza, una rabbia latente e insensata a cui non sapevo dare giustificazione.
A quel punto ero anche incazzata con me stessa per averle dato tutta quella importanza! Tirando le somme, Mya non si era comportata in modo tale da danneggiarmi, non avevo nulla da temere, e se anche a livello personale avesse avuto qualcosa da risolvere, fuori dagli studios ognuna di noi aveva la propria vita e nessuna delle due si arrischiava a cercare l'altra nemmeno attraverso sms.
Baciai Jason sul collo, sotto la mascella, gemendogli accanto all'orecchio, sentendo il mio piacere e il suo montare.
Avevo deciso: da quel momento in poi Mya sarebbe rimasta fuori dalla mia testa. Non avevamo più niente da spartire, a parte il lavoro in comune non c'era niente che ci avvicinasse. Tutti i miei incubi erano frutto del mio senso di colpa – senso di colpa a cui, per specificare, non volevo dare adito – , del timore che ci fosse ancora qualcosa da parte sua e che questo potesse riversarsi sulla mia carriera, ma se in quei giorni non aveva teso alcuna trappola comportandosi come si deve non vedevo per quale ragione avrebbe dovuto diventare una carogna in futuro.
Io ero andata avanti, Mya era andata avanti. E se non l'aveva fatto, era ora che si muovesse.
Jason mi spinse sotto di lui, facendomi rotolare. Venerò il mio corpo annebbiandomi la vista, il pensiero; in pochi attimi mi rese schiava delle sue attenzioni, delle sue carezze, e qualsiasi tipo di pensiero volò via.
Mi fece sua ed io, con la solita rabbia ingiustificata, lo feci mio finché non fu esausto.
Non riuscivo a dare un senso al nervosismo che mi albergava in mezzo al petto, speravo solo non fosse troppo evidente.
Alla fine, scossa e tremante, trascinai Jason nel bagno del suo bellissimo attico e mi regalai un round di coccole e massaggi sotto il getto dell'idromassaggio comune.

~∞~


«Senti, sono stanco di ingozzarmi di sandwich. Voglio essere raffinato per una sera!».
«Potremmo... Ordinare una pizza a casa?», tentai, osservando di nascosto il succhiotto violaceo sotto la mascella che Jason mi aveva procurato la sera precedente, riflesso in uno specchio della sala relax.
Stacy avrebbe bestemmiato, stavolta.
Brandon dall'altra parte della cornetta sbuffò. Potevo immaginarlo mentre scuoteva la testa come un bambino, immagine che stonava completamente con la sua stazza.
«Raffinatissimo», sottolineò in tono monocorde.
«Non saprei, sono davvero stanca...», mi passai una mano sul viso.
«Non dobbiamo mica saltare sui tavoli come scimmie impazzite!», mi fece notare.
Mi versai del caffè e passeggiai avanti e indietro lungo la sala relax.
«Okay», cedetti affranta, «ma ceniamo e torniamo di corsa a casa! Ho un bisogno disperato di dormire», chiarii.
Avevo promesso ai miei coinquilini che avrei passato più tempo con loro, ma sapevo bene che al di là della volontà di creare un rapporto più solido con loro c'era quella di evitare Mya. Eppure l'avevo capito: sfuggirle non aveva senso perché lei non aveva alcun tipo di problema, e se anche fossi stata io ad averli a quel punto ogni tentativo di eludere il contatto era inutile.
Stato del problema: risolto.
Forse.
«Allora andiamo tutti insieme con l'auto di Larissa».
«D'accordo, sarò a casa per le sei».
«E per le otto dovrai essere pronta, altrimenti ti trascineremo al ristorante in pantofole».
Riagganciò ed io ridacchiai.
Durante il pomeriggio Kamal chiese agli scenografi di portare agli studios il camioncino "vecchio e arrugginito" di cui sembravano aver discusso già a lungo. Una volta dentro, io e le comparse – altre ragazze imbrattate di trucco scuro e vestiti strappati – fummo caricate sul retro, imbavagliate e legate con corde in modo tale che sembrassimo prigioniere.
Kamal ci mostrò il permesso che aveva ottenuto dal comune per chiudere e recintare una strada sterrata in modo tale da girare le scene in cui gli aguzzini avrebbero portato le ragazze vergini a Jamal per la scelta delle migliori.
Essendo una strada di campagna il numero di abitanti nelle zone limotrofe si abbassava di gran lunga, questo ci diede la possibilità di non dover lottare con i residenti affinché restassero fuori dalle riprese.
I cameraman si concentrarono prima sulla corsa del mezzo, registrando da diverse angolature, poi salirono a bordo e ripresero i volti delle prigioniere, gli occhi di ognuna di noi, le espressioni terrificate, i visi solcati da lacrime scure.
Ci guardavamo a vicenda come per cercare nell'altra la risposta ad una domanda che non avevamo il permesso di esporci: dove stavamo andando?
Ad ogni sobbalzo lanciavamo dei gridolini che venivano fuori strozzati dai bavagli che ci costringevano le bocche. Girare quella scena, per quanto potesse sembrare semplice, si rivelò arduo.
Nessuna di noi aveva mai vissuto una situazione simile - per fortuna, aggiungerei – , tutto ciò che potevamo fare era immedesimarci quanto più possibile; Kamal volle girare diverse volte, infine chiese ai cameraman di passargli i filmati prima di inviarli al montaggio in modo che potesse verificare quali fossero i tagli migliori.
Divorai un panino durante la pausa pranzo, attorniata dal resto della compagnia, e passai al setaccio tutti i componenti.
I tecnici del suono erano tutti lì, tranne Mya.
Sospirai: meglio così. Il motivo di tale assenza mi era sconosciuto, ma in fondo mi importava solo che non rovinasse un'altra delle mie giornate. Nonostante non stesse facendo niente per farlo, la mia mente la riproponeva come la causa di tutto.
Nel pomeriggio, prima di tornare agli studios, continuammo a camminare lungo la campagna fino a raggiungere un rudere che a quanto pare aveva già da tempo suscitato l'interesse di Kamal.
L'interno accusava pessime condizioni, ma a noi interessava soltanto l'esterno. L'edificio era grandissimo, sepolto da spighe di grano e verde; si udiva solo il gracchiare delle cornacchie e il ronzio degli insetti, ma inserito in un contesto come quello del film che stavamo girando, un'aria pacifica come quella cominciava a puzzare di pericolo.
Registrammo la scena in cui, arrivati col nostro furgone arrugginito, gli aguzzini di Jamal trascinavano le donne imbavagliate e legate verso il rudere all'interno del quale si trovava il loro capo.
Quella casa diroccata non era la dimora di Jamal, ovviamente, bensì un edificio strategico di cui nessuno sospettava in cui poteva condurre il suo lavoro sporco e vendere la verginità delle donne "migliori" agli uomini che offrivano la cifra più alta.
«Mettete un cappuccio alle donne e trascinatele in modo brusco. Per voi non valgono niente, sono animali che vi faranno guadagnare», ordinò Kamal, poi chiamò il ciak e gli aguzzini ci infilarono un cappuccio in testa.
Piangemmo rumorosamente, trasalendo al rumore del portello del furgone che si apriva con un calcio, poi gli aguzzini ci afferrarono per le mani e ci trascinarono fuori.
Caddi tra i cespugli, pungendomi le ginocchia con qualcosa d'indefinito; l'uomo mi afferrò per la maglia e mi rimise in piedi, tenendomi poi la nuca bassa e trascinandomi come se stesse tenendo un animale per il collo.
Mi dimenai, le altre ragazze urlavano ma non riuscivo a vedere se stessero imitando i miei movimenti o meno, finché Kamal urlò "stop" e l'uomo che avevo al mio fianco mi liberò la vista.


Finite le riprese, tornare a casa in tempo per lavarmi e prepararmi per la serata tra coinquilini fu un'impresa, ma alla fine riuscii ad essere pronta con appena cinque minuti di ritardo.
Brandon continuò a bussare alla porta del bagno finché i suddetti cinque minuti non terminarono, dopodiché, come promesso, mi trascinò fuori casa di peso e mi caricò in auto neanche fossi una valigia.
Okay, due volte in un giorno solo erano davvero troppe!
Larissa mi sistemò sul collo un foulard con sguardo complice mentre Colin, che era seduto accanto a Brandon sul sedile del passeggero, sembrava in ansia e continuava a mangiucchiarsi le unghie.
«Stai per vomitare? Niente vomito nella mia auto, amico», lo avvisò Brandon.
«Domani ho un esame e sono qui con voi anziché starmene a ripassare. Direi che ho tutto il diritto di vomitare», concluse lui, sistemandosi gli occhiali da vista sugli occhi. Colin somigliava tremendamente alla vecchia Ally, una Ally che per fortuna non esisteva quasi più.
Brandon gli assestò una pacca sulla gamba, lanciandogli uno sguardo.
«Andrai benissimo».
«Ma se mi becco appena la sufficienza, vai tu a ripetere l'esame».
Brandon fece scoccare la lingua.
«Che ci vuole? Basta guardare tutti con aria ansiosa da dietro i tuoi occhialetti da cervellone ed è fatta. Forse mi smaschererà l'altezza», fece sarcastico, lanciandogli un occhiolino.
Due semafori dopo la strada poco trafficata che stavamo percorrendo, un'insegna luminosa a forma di pizza tenuta in alto da un cuoco napoletano si stagliava con le sue luci abbaglianti lungo una delle vie principali della periferia.
Al di sotto dell'insegna principale, altri neon citavano "pasta", "sushi", "cucina italiana", "piatti thailandesi", insomma c'era solo l'imbarazzo della scelta.
Fui davvero felice di scoprire che quello era ciò che Brandon intendeva per "raffinato", in primis perché così continuavo a sentirmi una ragazza normale che ha amici normali, che può ancora permettersi di mangiare una semplice pizza in un ristorante qualunque, e in secundis perché ritrovarsi in un locale di lusso in gonna di jeans e camicetta non era proprio il massimo, e visto che il mio outfit di quella sera prevedeva esattamente quell'abbigliamento fui sollevata di sapere che la fortuna aveva giocato a mio favore.
Ambientarsi fu semplice: stanca com'ero ordinai solo una prima portata di pennette al salmone, mentre i miei coinquilini si sbizzarrirono nella scelta dei cibi finché il mangiare di uno non fu sul piatto di tutti gli altri.
A metà serata, però, mi resi spiacevolmente conto di star ascoltando tanto e parlando poco e il motivo era tanto semplice quanto triste: non far più parte del mondo "comune" mi tagliava fuori da quasi tutto, non avevo un'università di cui discutere, un'amica di cui parlare, un'esperienza da raccontare a persone che, di rimando, mi avrebbero risposto con un'esperienza simile perché... il mio mondo era un altro, adesso.
Avevo sempre trovato ridicolo che gli attori famosi e gli individui con un'immagine di spicco si tenessero lontani dai posti comuni e si ritagliassero una cerchia di amici a prova di follower su twitter, ma adesso che anch'io conducevo un'altra vita, fuori dagli schemi e tutt'altro che normale, mi rendevo conto di stare per avvicinarmi a quell'immagine più di quanto pensassi.
Presto o tardi mi sarei dovuta trasferire in una casa a prova di fan, non avrei più potuto continuare a vivere coi miei coinquilini e non perché non li ritenessi affidabili, ma perché supponevo che una volta riprodotta la pellicola tutti avrebbero conosciuto il mio nome e gli individui che ruotavano attorno alla vita di Larissa, Colin e Brandon avrebbero presto preteso di passare più tempo a casa nostra, così da ottenere qualcosa – autografi, foto o anche un semplice pomeriggio da poter raccontare a terzi che, a loro volta, avrebbero desiderato imitarli.
Non volevo passare per la tipica attrice stronza con la puzza sotto al naso, ma prevedevo un discorso da parte di Kamal sulla salvaguardia e sull'importanza di mantenere le distanze molto presto.
D'altronde, la fama può dare alla testa allo sconosciuto nel caso in cui la vicinanza col famoso diventi improvvisamente ristretta.
Quindi... quella sarebbe stata una delle mie ultime sere da "ragazza comune"?
Avrei dovuto fare attenzione a tutto, poi? Dai posti da frequentare alle persone con cui parlare?
Semplice quanto triste, già...
«Scusate, vado un attimo al bagno...», sussurrai, passandomi il tovagliolo di stoffa sulle labbra.
Larissa mi posò una mano sulla spalla, puntandomi coi suoi occhi verdi.
«Va tutto bene? Vuoi che ti accompagni?».
Scossi semplicemente la testa, abbozzando un sorriso, e mi diressi alla toilette.
Sorpassata una porta di legno bianco, mi guardai allo specchio del lavandino cercando nel mio trucco una sbavatura, nella mia crocchia una ciocca sfuggente, nei miei vestiti qualcosa che costasse meno di sessanta dollari... E non trovai nulla.
Non l'avevo desiderata io, d'altronde, questa vita? Avevo sempre voluto essere una ragazza normale e avere tutto ciò che le altre avevano, e quando ero riuscita ad ottenerlo me ne ero sbarazzata per iniziare una nuova vita che mi differenziasse totalmente da tutti.
Cosa volevo adesso? La mia mente tifava per la diversità o per l'accomunamento? Cosa desiderava la mia testa? Perché mi sentivo sempre spaccata in piccoli pezzi?

Alle mie spalle, qualcuno schiuse una delle cinque toilette e raggiunse il lavandino di fronte al quale stavo.
Si trattava di una ragazza poco più bassa di me, portava i capelli neri raccolti in una treccia disordinata, la pelle era chiara, quasi trasparente, e gli occhi erano di un nero così intenso che l'iride non riusciva a distinguersi dalla pupilla.
Lanciò uno sguardo veloce allo specchio, impegnata a verificare il trucco e i capelli, ma nel momento in cui i suoi occhi incontrarono il riflesso dei miei la tranquillità che ristagnava in fondo a quelle pozze scure divenne nervosismo, collera.
Colpita da quella reazione insensata, aggrottai le sopracciglia confusa e pigiai sull'erogatore del sapone, prendendo a lavarmi le mani presa da un'improvvisa premura; imitò i miei gesti con poco interesse, anche lei di fretta, e quando mi avvicinai ai tovaglioli di carta usa e getta per asciugarmi le mani lei mi superò con sgarbo, strappandone quattro o cinque per prima dalla colonnina in plastica, lanciandomi un ultimo sguardo sprezzante prima di scomparire al di là della porta del bagno.
Chi diavolo era quella ragazza e qual era il motivo di tanto astio?
Sebbene sapessi che la curiosità è la peggior nemica dell'uomo, seguii l'istinto primordiale che mi suggeriva di seguirla con gli occhi attraverso i tavoli, spiando la sua destinazione mentre fingevo di star tornando dai miei coinquilini come se non me ne importasse niente.
Superata la cucina e i primi tavoli, svoltò l'angolo della sala ed io, che fortunatamente dovevo andare dalla stessa parte, continuai a camminare piano e a pedinarla, finché ai miei occhi non si palesò un tavolo quadrato per due privatizzato da un separé di legno chiaro che malgrado nascondesse in parte chi l'aspettava dall'altra parte del tavolo, mi conferì comunque la possibilità di riconoscerne il volto.
Mya scorreva tranquillamente le dita sullo schermo del suo iPhone, aggrottando le sopracciglia di tanto in tanto quando qualcosa la catturava, e nel momento in cui la ragazza tornò al tavolo lei sollevò lo sguardo e la riaccolse con un sorriso che per un attimo mi mozzò il respiro.
Restai pietrificata in mezzo alla sala come se qualcuno mi avesse appena afferrato per la gola impedendomi di inalare ossigeno, un calore a me estraneo mi si spanse lungo il petto e lo riconobbi come un miscuglio di emozioni a cui la tristezza faceva da duce.
Quello era un sorriso vero. Quello era un sorriso che apparteneva alla vecchia Mya, non quella che si era mostrata di essere in quei giorni.
La ragazza mora, che sembrava mostrare ancora dei segni di turbamento in viso, scosse la testa dopo aver ascoltato Mya e le passò un menù, ma lei si fece seria e lo posò sul tavolo, dandole un leggero pizzicotto sul braccio che fece dapprima trasalire l'altra e poi sorridere.
Indietreggiai inconsciamente di un passo: metà di me sembrava volesse trascinarmi quanto più possibile lontana da quel tavolo e l'altra metà voleva assolutamente diventare invisibile per poter origliare i loro discorsi.
La ragazza mosse le labbra e guardò Mya dubbiosa, lei fece spallucce, abbassò gli occhi e scosse la testa, e quando li rialzò la inchiodò con uno dei suoi sguardi magnetici che mi lasciarono di nuovo di sasso.
Sollevò due dita e gliele posò sull'avambraccio, sfiorandole appena la pelle senza smettere di guardarla negli occhi.
A quel punto, colta da un improvviso amor proprio – o vigliaccheria – , mi voltai, presi un profondo respiro e tornai al mio tavolo a piccoli passi.
Essere un'attrice mi aveva insegnato ad interpretare diversi ruoli e come tale potevo essere chi volevo quando e come volevo, giocandomi qualsiasi carta avessi nel mazzo: indossai un finto sorriso e tornai a sedermi più radiosa di prima, prendendo nuovamente posto accanto a Larissa che vedendomi tranquilla non mi rivolse che mezzo sguardo.
«Sapevate dell'esistenza della carta igienica nera? Ho appena visto una signora al bagno delle donne esserne rimasta talmente affascinata da infilarsene un rotolo in borsa!», scherzai, interropendo qualsiasi altro discorso.
Colin mi guardò dubbioso, ma Brandon prese subito la parola.
«Magari non riesce a trovarla in commercio ed ha intenzione di clonarla!».
«Perché no? Una volta ho visto un signore, al bagno delle donne, che rovistava nei cestini per...!».
Larissa prese a parlare, e il tema delle "stranezze" capeggiò talmente tanto i successivi racconti strambi che nessuno di loro notò le mie risate finte e distratte e il mio perenne silenzio da quel momento in poi.
La ragazza con la treccia scura sapeva sicuramente chi fossi.
Non avrebbe avuto alcun motivo di guardarmi male se per lei fossi stata solo un'estranea, ma lo sguardo che mi aveva rivolto uscendo dalla toilette e la presenza di Mya al suo stesso tavolo erano state come una di quelle equazioni che non possono che risultare sempre e solo infinito.
Unica soluzione.
E nonostante le mie interiora stessero lottando tra di loro in modo da bloccare il passaggio alla nostalgia, che voleva prendere la fortezza del cuore, mi rendevo conto del fatto che certi sorrisi e certe attenzioni così genuine e senza filtri le avevo vissute anche io sulla mia pelle, ma solo quando la vera Mya aveva avuto la meglio sulla finta, ovvero quando era riuscita finalmente ad innamorarsi di me e ad aprirmi il suo cuore.
Avevo imparato a conoscere Mya a fondo negli anni dell'adolescenza, l'avevo vista incapace di fidarsi, di provare un sentimento diverso dall'indifferenza e dalla tristezza, e lottare contro la sua coscienza per impedirle di avere la meglio su di lei e su un possibile "noi".
Solo quando la sua natura si era fatta da parte, quando io ero diventata davvero importante, come l'aria nel petto, allora riuscire a nascondermi queisorrisi e quegli sguardi era diventato impossibile. E dal modo in cui nei giorni precedenti mi aveva rivolto la parola, dal modo in cui si era comportata con me, era chiaro che non stesse combattendo più contro se stessa per essere migliore, per mostrarmi la sua vera essenza a discapito di se stessa.
Era di nuovo la vecchia Mya, con me perlomeno. Indossava una maschera tre volte più spessa e non mi apparteneva più, era evidente.
Ma cosa mi aveva destabilizzata di più?
Vederla seduta ad un ristorante che per fatalità i miei coinquilini avevano scelto al posto mio o beccarla in un momento privato con un'altra persona?
Forse era più facile accettare una Mya finta, scontrosa e cattiva, che una vera che sorrideva ad un'altra donna come in passato aveva sorriso a me.
Abbassai lo sguardo sul mio piatto mezzo vuoto ed infilzai una pennetta per non dare nell'occhio, masticandola distrattamente come se stessi tenendo tra i denti un pezzo di plastica.
Non mi capivo... Non riuscivo proprio ad afferrare il perché di quelle emozioni.
Non avevo avuto chissà quali esperienze dopo di lei, Jason era stata l'unica persona importante, quindi, a rigor d'ignoranza, potevo decretare che forse rivedere una persona importante a distanza di anni ed avere la certezza lampante che si fosse rifatta una vita poteva scombussolare la controparte molto più che rimanere immersa nei punti interrogativi.
Tra il domandarsi se mi odiasse ed averne la certezza, a quel punto, avrei preferito la prima.
E diciamola tutta, avrei preferito non sapere che stesse con qualcun altro e nemmeno chi fosse la persona in questione.
«Ally?».
«Mmm?».
«La tua parte», disse Brandon.
«La mia parte di cosa?».
Mi ero persa qualcosa?
«Il conto. Viene quindici dollari ciascuno», chiarì infine guardandomi come a volermi dire "sarò stupido, ma so che hai qualcosa".
«Oh, certo», mi drizzai a sedere e scavai sul fondo della borsa fino a trovare il portafogli. Porsi le banconote sul piattino e un attimo dopo il cameriere venne a riprenderselo.
Mi rimisi in piedi ed infilai la giacca nonostante non avessi terminato la mia cena, raggiungendo la porta per prima in modo da isolarmi da tutti per un paio di secondi.
Tirai un grosso sospiro di sollievo e mi riempii i polmoni di ossigeno, poi posai una mano sulla maniglia della porta antincendio e stetti a guardare il panorama di luci al di là del vetro.
Una mano fece capolino da dietro la mia spalla, posandosi accanto alla mia e con un gesto secco aprì la porta.
«C'è scritto "push", ti bastava spingere».
Voltai il capo e trovai Mya a pochi centimetri dalle mie spalle, l'espressione era seria ma anche sarcastica. La sua solita faccia da schiaffi.
Trasalii e feci un passo verso l'esterno dell'edificio, scendendo un gradino e ritrovandomi sul marciapiede umido di pioggerellina leggera.
«Stavo aspettando i miei amici, una porta la so ancora aprire».
Mi strinsi nella giacca, a disagio.
«Dal grosso respiro che hai preso lì davanti credevo cercassi un po' d'aria fresca. Riempirsi i polmoni di farina e profumo di pizza non è il massimo».
Le lanciai uno sguardo contrariato, quasi scioccato.
Scossi la testa incredula.
«Sono contenta che la tua nuova relazione sia talmente tanto aperta da consentirti di tenere d'occhio altre donne», esclamai.
Sollevò un sopracciglio e mi guardò dapprima dubbiosa, poi il suo sguardo si accese come di luce e mezzo sorriso riempì la sua espressione di soddisfazione, tramutandosi presto in una leggera risata.
Una risata di campanellini strozzati... Proprio come la ricordavo...
«Ho capito che la monogamia non fa per me», concluse.
«Buon per te, nessun obbligo e nessuno stress».
S'infilò le mani nelle tasche dei pantaloni eleganti, inclinando il capo da una parte ed osservandomi dalla testa ai piedi ad occhi socchiusi, come soppesando le mie parole.
Quello sguardo inquisitore, profondo, ebbe su di me l'effetto di un laser: bruciò via tutti i miei vestiti e mi sentii improvvisamente nuda.
«Tu mi sa che invece di obblighi ne hai», deglutì e roteò lentamente gli occhi.
«Che intendi?».
Tamburellò due dita sul profilo del collo ed io, automaticamente, portai una mano all'altezza del mio, sbarrando gli occhi.
Dove avevo lasciato il mio foulard? L'avevo dimenticato al tavolo o si era allentato e l'avevo perso senza accorgermene?
Sollevai di nuovo lo sguardo su di lei, chiedendomi perché mi sentissi preoccupata di darle spiegazioni riguardo quella macchia; cosa c'era da dire? Lei si era rifatta una vita e così avevo fatto anch'io.
«Dovrei dire al mio ragazzo di stare più attento», conclusi.
Ridacchiò a mezza bocca, osservando le strade alla sua destra.
«Quindi tifi per le zucchine adesso?».
«Di che stai parlando?».
«Di te che non sai scegliere».
«Perché dovrei?».
Fece spallucce.
«Già, perché dovresti? "Nessun obbligo e nessuno stress"», citò. «Ci sa fare, almeno?».
Spalancai la bocca.
«Non sono affari che ti riguardano!».
«Hai risposto».
«No, che non ho risposto!».
«Resta che tifi per le zucchine».
Fece spallucce.
«Cosa c'entrano gli ortaggi adesso?!», battei un piede sull'asfalto.
«L'importante è che non soffri», concluse.

Ilarità e sarcasmo furono improvvisamente spazzati via e il silenzio si impadronì delle nostre bocche e dei nostri corpi, che non osarono dire nient'altro.
Abbassai lo sguardo sul marciapiede, scalciando un sassolino.
«Ti sto mettendo in imbarazzo?», chiese a bruciapelo.
«Che? No!».
«Allora perché sei arrossita?».
Sospirai e sollevai le spalle, cercando i suoi occhi.
«Insomma... E' bello sapere che tieni ancora a me».
Mi guardò, corrucciando la fronte.
«Non l'ho detto».
«Ma l'importante è che non soffra, giusto?».
«Giusto. Perché dovrei desiderare il contrario?».
«Perché dovresti desiderare la mia felicità, piuttosto?».
«Non provarci, non si risponde ad una domanda con un'altra domanda».
Con la coda dell'occhio, notai i miei coinquilini avviarsi verso l'ingresso, indossare i loro giubbotti coi sorrisi ancora in bocca, quindi mi schiarii la gola e assunsi un atteggiamento di chiusura.
«Beh, allora... Io Spero che lei ti renda felice. Che c'è di male nell'ammettere di volere solo il bene per qualcuno che è stato tanto importante per te?».
Mya guardò in alto, annuendo consapevole e piegando all'ingiù gli angoli della bocca.
«Sei sempre stata migliore di me, dopotutto».
Mi fece l'occhiolino, fendendo l'aria con l'ennesimo coltello, poi la porta al nostro fianco si aprì e i miei coinquilini mi presero a braccetto, canticchiando una canzone bizzarra e trascinandomi via mentre i miei occhi restavano puntati sulla figura chiara della ragazza della toilette che si affrettava a raggiungere Mya per porgerle il cappotto.
Mi lasciai trascinare: tirando le somme, il prato pieno di fiori su cui un tempo avevamo camminato era diventato asfalto rovente.  


Angolo autrice:

Scusate ancora il ritardo, ma tra traslochi e guai al lavoro non ho avuto tempo di aggiornare... Spero come al solito che anche questo capitolo vi piaccia, anche se i toni si sono LEGGERMENTE ammorbiditi la tensione nell'aria resta e si sente. Riusciranno mai a riappacificarsi queste due? Speriamo! *prega*
Al solito, grazie a tutti coloro che mi lasciano le loro preziose parole. Sono fondamentali per me. Spero che anche stavolta sarete in tanti e per qualsiasi cosa vi aspetto in pagina: La voce di Dam.
Un abbraccio, Dam. <3  

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top